LA GALLERIA DELL’ORRORE

– Cenzì, mi accompagni a raccogliere le fragole? – così Maria Francesca Mascaro – Sazizzella –, trentaquattrenne contadina della frazione Mascari di Colosimi, blandisce Vincenzo Gabriele, sei anni, suo vicino di casa. Gli occhi del bambino brillano, a lui le fragole piacciono e con la fame che ha non ci pensa due volte a seguire la donna.
Vincenzo è orfano di padre. Anzi, il padre non lo ha mai visto perché è morto prima che lui nascesse, lasciando la famigliola nella miseria più nera. La mamma, Palma Taverna, non può lavorare, è quasi cieca. Lui e le sue due sorelline vivono della carità dei paesani che hanno da subito preso a cuore la famiglia, ma c’è una persona che si prodiga più di tutti gli altri, Gioacchino Mascaro, il fratello di Maria Francesca.
Gioacchino fa il fabbro, guadagna abbastanza ed è scapolo nonostante i suoi quarant’anni suonati. Era grande amico del padre di Vincenzo e gli ha anche fatto da padrino al battesimo e piangeva quando il prete gli chiese il nome da imporre al bambino, perché quel nome era lo stesso nome del padre.
Però i soldi che Gioacchino spende per la famiglia del figlioccio sono maledetti da sua sorella Maria Francesca, che è una persona infida, rancorosa, con la lingua lunga e portata a fomentare gelosia e odio tra i paesani. Sazizzella è così abile nei suoi raggiri che porta Gioacchino a litigare col loro padre e, addirittura, a bastonarlo. Teme che il fratello dilapidi il suo piccolo patrimonio appresso alla cecata e non perde occasione per sparlare della donna con chiunque. La gente però non la ascolta nemmeno, conosce l’onestà di Palma e il buon cuore di Gioacchino e sa che qualunque cosa Sazizzella dica, è una menzogna.
Però nel mese di maggio del 1929 Maria Francesca comincia a esagerare con la sua lingua e, con la scusa che i bambini della frazione Mascari stanno giocando a lavarsi l’un l’altro, accusa Vincenzino di molestare sessualmente una sua nipote e lo minaccia pesantemente. Un bambino di sei anni che molesta sessualmente una coetanea! “Vò chiusa!” è il commento generale, ma la cosa finisce lì e nessuno ci bada più.
Il 16 giugno 1929, alle sei di mattina, Palma, altri due paesani e Gioacchino prendono la littorina per Soveria Mannelli per sbrigare ognuno i propri affari. Palma è contenta perché ha racimolato i soldi necessari per pagare le mensilità arretrate per il fitto della stanzetta in cui vive con i figli e sta andando a consegnarli al proprietario, “se no chi lo sente a quello!”. È anche tranquilla, le bambine le ha affidate la sera prima a una vicina e Vincenzo è a casa che dorme. Sa che quando lei non c’è il bambino non si allontana.
– Cenzì, sbrigati che sono le otto e mezza e poi fa caldo – continua Maria Francesca.
– Aspetta che mi metto le scarpe – risponde con la sua vocina allegra.
I due vanno alla Chiusa dove, però, le fragole non sono mai cresciute, poi si dirigono verso la linea ferrata.
– Dammi la mano che passiamo la galleria, dall’altra parte ci sono fragole così – gli dice. Vincenzino le porge la manina e i due si inoltrano nel buio – adesso mettiti davanti a me che ti guido io per le spalle se no cadi – continua quando lo spicchio di luce non riesce più a illuminare i loro passi. Adesso tutto è nero come in una notte senza luna.
Il braccio destro di Sazizzella si stringe attorno al collo di Vincenzino, la mano sinistra scivola sotto il grembiule e ne esce armata di un grosso coltello da cucina. Il bambino cerca di divincolarsi, tira calci, si avvinghia al braccio che gli toglie il respiro ma la stretta è potente e cede. Poi arriva la prima coltellata sul collo, Vincenzino vorrebbe urlare ma non ha più la forza per farlo. Due, tre, quattro colpi, tutti sulla testa. Sazizzella ansima, le unghie della sua mano sinistra sono piantate nel braccino del bambino. I suoi occhi nel buio sono rossi come la brace accesa. Cinque, sei, sette. Il coltello continua a colpire la testolina. Gli cava un occhio. Adesso Vincenzino sembra un pupazzo di pezza, la furia assassina della donna lo fa sballottare a destra e a sinistra mentre colpisce e colpisce ancora, in tutto diciassette volte. L’ultimo colpo deve essere quello decisivo e lo infligge con inaudita ferocia: il coltello frantuma le ossa del cranio e si conficca nel cervello di Vincenzino.
Finalmente lo lascia. Con la manica si pulisce il viso dal sudore misto a sangue, poi, con calma, toglie i pantaloncini e le mutandine a quel corpicino. Non ha ancora finito la sua opera devastatrice. Con un colpo solo recide quasi del tutto il sesso del bambino, lasciandolo penzolare per un brandello di pelle, poi butta il corpicino in una nicchia della galleria e con passo svelto si allontana, prima che passi la littorina delle 10,00, nella quale sono seduti, ignari, Palma e Gioacchino.
Giuseppina Marchio sta lavorando nell’orto quando vede passare Sazizzella tutta trafelata. Nota delle strane macchie sui vestiti neri della donna ma non ci bada. Non si chiede, dopo un quarto d’ora, nemmeno il perché Sazizzella, contrariamente al suo modo di essere, le entra in casa cambiata d’abito. È agitata e pallida. Con un filo di voce le chiede se vuole andare a raccogliere fragole e mentre parla guarda nervosamente fuori dalla finestra. Non può nemmeno lontanamente immaginare quello che è appena successo.
Palma Taverna si sente sollevata col peso che si è tolta pagando l’affitto. Entra in casa e chiama Vincenzino per abbracciarlo, ma in casa non c’è. Esce sulla porta e non lo vede nemmeno nelle vicinanze. “Starà giocando a casa di qualcuno” si dice e fa il giro dei vicini per trovarlo. Niente. Adesso comincia a preoccuparsi: dove si sarà cacciato quel frugoletto? Di casa in casa la voce si sparge ma nessuno l’ha visto. Adesso Palma è seriamente preoccupata, così come è preoccupato tutto il vicinanzo. Il nome del bambino viene urlato a squarciagola ma nessuno ottiene risposta. Palma decide di cercarlo nella campagna circostante e subito il paese si mette a sua disposizione. Tutte le persone disponibili si mettono d’accordo su dove andare a cercarlo e Palma si unisce a Salvatore Iorfrida.
– Passiamo la galleria e andiamo a cercarlo dall’altra parte – propone l’uomo, convinto che il bambino sia andato a raccogliere fragole.
I due si inoltrano nella galleria Verdella e quando tutto si fa nero, Salvatore comincia ad accendere dei fiammiferi per non inciampare nei binari. Nonostante ciò Salvatore inciampa, lancia una bestemmia e accende un altro fiammifero. Non è un sasso o un bullone, è un piede di bambino.
– Gesummaria! Palma… Palma… – urla nel buio per chiamare a sé la mamma mentre con le mani che gli tremano tenta di accendere un altro fiammifero per segnalare la sua posizione alla donna – corri qua… ohi madonnella mia!
– Vincenzo! Vincenzo! Dove sei? Che gli è successo? Salvatore fai luce… – cadendo sul ghiaione della linea ferrata e rialzandosi come in una via crucis, Palma finalmente è accanto all’uomo il quale, incurante della fiammella che gli sta bruciando le dita, le indica il corpicino steso prono nella cunetta – ohi sciuallu miu! – ha appena il tempo di esclamare prima di buttarsi addosso al bambino lanciando urla strazianti e incomprensibili. Ci vuole un po’ di tempo prima che riesca a farfugliare, inebetita dal dolore
– Non è Vincenzino mio… Salvatò… aiutami a portarlo fuori… così lo portiamo alla mamma…
Salvatore prende in braccio il corpicino e, avanzando a stento, lo riporta alla luce del sole. Palma guarda quel visino impiastricciato di sangue e terra, guarda le braccine graffiate che penzolano, guarda le gambe nude senza i calzoncini, guarda i piedi ai quali manca una scarpina e, senza un’altra lacrima o un altro grido, dice all’uomo
– Portiamolo a casa…
Quando arrivano i carabinieri pensano che il bambino sia stato travolto dal treno delle 10,00, tanto il corpicino è malridotto ma il fatto che non abbia addosso i calzoncini e le mutandine comincia a sollevare qualche dubbio. E poi c’è quel taglio netto dei genitali. Bisogna immediatamente fare un sopralluogo e bisogna soprattutto procurarsi delle torce elettriche.
Al centro della galleria, la parete è piena di schizzi di sangue e di materia cerebrale e in una nicchia sono buttati per terra i calzoncini e le mutandine. Accanto c’è
la scarpa mancante e, poco più in là, un coltellaccio da cucina sporco di sangue. È facile, a questo punto, fugare ogni dubbio. Si tratta di omicidio, un
orrendo omicidio. Ed è ovvio che le ricerche si debbano indirizzare verso quelle persone che avevano o avrebbero potuto avere dei rancori verso la famiglia del bambino.
Intanto nella stanzetta dove vive Palma Taverna, i paesani vanno a rendere omaggio al piccolo Vincenzo e si creano molti capannelli di gente che commenta l’accaduto. Sazizzella è nel suo cortiletto lì accanto, intenta a scopare per terra, ma fa solo finta perché il suo scopo è quello di ascoltare le notizie che man mano arrivano. Un paesano arriva trafelato con la notizia del ritrovamento del coltello e assicura di aver sentito dalla voce del maresciallo che il colpevole ha le ore contate perché riusciranno a stabilirlo con la prova delle impronte digitali sul manico.
Sazizzella lascia la scopa e si guarda il palmo della mano sinistra, poi la strofina sul grembiule pulito e la nasconde sotto l’ascella. Quando, poi, si avvicina a un crocchio di gente fermo proprio davanti alla porta della casa dove Vincenzino è vegliato, qualcuno nota delle strane macchie rossastre sulle sue scarpe.
Tutti sanno che due più due fa sempre quattro e avvisano i Carabinieri. Maria Francesca Mascaro viene tratta in arresto e chiusa in camera di sicurezza ma a Colosimi la gente non può ancora capacitarsi che sia successo quello che è successo. Una vita innocente stroncata per niente. No, Sazizzella non può passarla liscia, il carcere per quell’orrendo crimine non basta, deve morire tra atroci sofferenze, come ha fatto morire Vincenzino e una folla inferocita assalta la caserma dei Carabinieri che, a stento, riescono a respingere l’urto. Arrivano rinforzi e d’urgenza l’assassina viene portata alla stazione ferroviaria per essere trasferita nel carcere di Scigliano, più sicuro, in mezzo a decine di carabinieri che sudano sette camicie per impedire che la folla inferocita riesca a impadronirsi dell’assassina per bruciarla viva sopra una catasta di legna approntata per l’occasione. Ma il progetto fallisce e la donna giunge salva nel carcere di Scigliano, dove è rinchiusa per un furtarello anche Assunta Muraca che le chiede come mai si trovi detenuta. Sazizzella le racconta tutto e aggiunge altri agghiaccianti particolari
– Ho ucciso un bambino, ma volevo uccidere anche le sorelline. Volevo fare un dispetto alla madre che voleva sposare mio fratello… e mò si frica!
Non mostrerà mai nessun pentimento. Poi, come d’incanto, dice di non sapere ciò che è successo.
Il paese è sotto shock ma ora non c’è più nessuno a seminare odio e anche Gioacchino e suo padre fanno pace e tornano a vivere nella stessa casa. Nessuno ce l’ha con loro.
Il 15 maggio del 1931 si apre il processo in Corte d’Assise. Maria Francesca Mascaro è difesa dagli avvocati Tommaso Perri, Gennaro Cassiani e Ambrogio Arabia. La parte civile è assistita dall’avvocato Franco D’Ippolito.
La difesa chiede che Sazizzella venga sottoposta a perizia psichiatrica in quanto non ricorda nulla di quanto avvenuto la mattina del 16 giugno 1929 né ricorda altro, ma la richiesta viene respinta. L’assassina è sana di mente. I testimoni sfilano uno dopo l’altro e il 17 giugno è già il momento delle arringhe. I difensori chiedono che vengano concessi i benefici della provocazione grave. Il Pubblico Ministero chiede la condanna a trent’anni di reclusione, la parte civile si associa e aggiunge una richiesta di risarcimento pari a 10.000 Lire.
La Camera di Consiglio è breve, Maria Francesca Mascaro è condannata secondo le richieste della Pubblica Accusa e della parte civile.
Pare che Sazizzella sia stata rivista in paese dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ma non ci sono riscontri certi sulla sua scarcerazione anticipata. Un fatto è certo: fino a non molti anni fa a Colosimi per fare paura ai bambini non si nominavano streghe e orchi, ma bastava evocare il nomignolo di Sazizzella. [1]

A Vincenzino che voleva solo mangiare le fragole.

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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