Torrerossa è una contrada di Cosenza, sulla via per Panebianco. Ma nel 1924 il quartiere Panebianco non è quello che conosciamo oggi, infatti si spinge fino all’attuale Piazza Bilotti ed è più o meno qui che si trova la nostra contrada.
Il gruppo di case di Torrerossa comprende anche un paio di cantine, un tabacchino e un negozio di generi alimentari. Nelle vicinanze ci sono una fabbrica di sapone, una segheria con annessa falegnameria e una fabbrichetta di traìni. E poi ci sono centinaia di orti coltivati.
In un pomeriggio dei primi giorni di maggio del 1924, nella cantina di Domenico Peluso si beve vino e si gioca a carte. Ad un tavolo, Raffaele Caputo e Luigi Azzaro stanno giocando a scopa con un mezzo litro davanti. La porta a vetri della cantina si apre ed entra un uomo, Pietro Michele Mauro, che avanza con passo deciso verso il bancone. Quando è accanto al tavolo dove i due uomini stanno giocando, sputa tra i piedi di Raffaele Caputo e, come se parlasse a sé stesso dice:
– Cornuto! Puttana la mamma e puttana la figlia!
Poi, senza avanzare oltre, si gira e se ne va.
Raffaele Caputo, da tutti riconosciuto come gran lavoratore e uomo mite, resta immobile. Sospetta che lo sputo e quelle parole siano stati indirizzati a lui ma non ci vuole credere. L’unica cosa che riesce a fare, è chiedere ai presenti se hanno ascoltato quelle parole.
– Se succederà qualcosa mi farete da testimoni.
Perché dovrebbe succedere qualcosa? Cosa è già successo tra Raffaele Caputo, contadino di 42 anni, e Pietro Michele Mauro, sarto di 46 anni?
I due si conobbero e diventarono subito amici intimi nel mese di settembre del 1923 quando Pietro Michele, un tipo prepotente che si vanta di spendere e spandere, dopo essersi separato dalla moglie (“corna non me ne ha fatto, ci siamo lasciati e basta”, così dice in giro e guai a contraddirlo), andò a vivere con la nuova compagna, la ventenne Lita Bentenuta, a Torrerossa. Raffaele, invece, nella contrada è nato, cresciuto e ci vive con la moglie, Filomena Patitucci, e i figli Emilia di 21 anni e Francesco di 17. Raffaele, per dimostrare la sua amicizia, cede a Pietro Michele in subaffitto un orto a un prezzo irrisorio, praticamente in perdita.
Agli inizi di marzo del 1924, da un giorno all’altro e senza un apparente motivo, Pietro Michele diventa freddo. Raffaele gliene chiede la ragione e il suo amico gli risponde di essersi accorto che sta facendo il cascamorto con la sua compagna.
– Io? Ma quando mai! – gli risponde Raffaele.
– Ti ho visto che passi e spassi sotto casa mia e guardi verso la finestra, non mentire…
– Michè, stai scherzando? Abitiamo di fronte, per forza ci devo passare davanti casa tua…
– E perché guardi alla finestra?
– Amico mio, tu hai tempo da perdere, io no… io zappo dalla mattina alla sera e figurati se mi viene in mente di guardare verso la tua finestra…
Fatto sta che dopo qualche altro battibecco i due si tolgono il saluto. Ma non dura molto. Pietro Michele ferma Raffaele per strada e gli illustra il suo progetto di aprire una sartoria nel magazzino al piano terra della casa dell’amico.
– L’attività la mettiamo a nome tuo – propone Pietro Michele – se no mia moglie vuole la sua parte e io soldi né gliene ho mai dati e né mai gliene darò! – alludendo al fatto che si era sempre sottratto all’obbligo di corrispondere gli alimenti alla ex moglie.
La pace è fatta e i due concordano il prezzo del fitto e concordano anche che Pietro Michele farà mettere una porta nuova al locale a spese sue e così fa nel giro di qualche giorno. Non passano che un paio di mesi e il progetto va in fumo per alcune beghe burocratiche.
– Rafè, non se ne fa più niente, l’avvocato mi ha detto che ci sono troppi problemi, ti lascio il locale. I due mesi te li ho pagati e siamo a posto. Resta la porta… ormai è tua, mi devi dare quanto ho speso, trecentocinquanta lire.
– Michè, non se ne parla nemmeno! La porta nuova l’hai voluta mettere tu, se non ti serve, manda qualcuno, la fai togliere e te la porti. Al massimo, per venirti incontro, ti do la metà che scontiamo sul fitto dell’orto.
– Ma quando mai! Il fitto dell’orto te l’ho pagato già fino a settembre, mi devi dare i soldi contanti.
– Allora facciamo così, io ti do la metà della porta in contanti e tu te ne vai dall’orto.
– No! Tu mi dai i soldi e io dall’orto non me ne vado!
– Non hai capito! Tu nell’orto mio non ci devi mettere più piede, non ti ci voglio vedere mai più!
I due continuano a litigare finché Pietro Michele, paonazzo dalla rabbia, esplode:
– Non accetti? Allora stai attento che uno di questi giorni ti sparo in mezzo agli occhi! – e così dicendo mette una mano in tasca come a voler prendere qualcosa.
Raffaele suda freddo, sa che l’amico è un tipo prepotente e vendicativo, ma lui ritiene di essere nel giusto e non vuole che nessuno gli metta i piedi in testa. Da questo momento non sono più amici ma acerrimi nemici.
Ecco spiegata la bravata di Pietro Michele nella cantina e i timori di Raffaele.
Il 9 maggio il sole sta sorgendo quando Raffaella Aiello sta cominciando a innaffiare delle piantine di pomodori per conto di Pietro Michele nell’orto conteso. Nel terreno attiguo c’è Raffaele Caputo con tutta la famiglia a raccogliere fave. Fischiettando, compare anche l’avversario. Raffaele va su tutte le furie e comincia a urlare:
– Vattene! Mascalzone, vigliacco, cornuto e ladro che non sei altro! Nella roba mia non ci voglio nemici!
– Io qui ci vengo quando mi pare e piace! Cornuto ci sei tu, cornuto di moglie e di figlia! – gli risponde Pietro Michele mettendosi una mano in tasca, nell’atto di tirare fuori la rivoltella.
La moglie e i figli di Raffaele si mettono in mezzo ai due contendenti e la cosa sembra essere finita lì. Raffaele se ne torna a casa ma medita vendetta. Prende la sua doppietta, la carica e ritorna nell’orto col fucile spianato.
– Sparami ora, vigliacco! – lo provoca, mentre la moglie e i figli cercano di farlo ragionare. Mauro, da parte sua, che non ha armi addosso, viene a più miti consigli davanti al fucile e se ne va. Ma ormai la giornata è rovinata, nessuno ha più voglia di lavorare nei campi e Raffaele se ne torna a casa con i familiari. Ha appena finito di salire la scala esterna che porta alla sua abitazione che Pietro Michele lo chiama dalla strada. Urlando si apre la giacca e mostra il petto al nemico:
– Sparami tu, se hai coraggio, avanti, che aspetti? Sparami per la puttana di tua moglie e per la puttana di tua figlia! Ti spagni?
Raffaele imbraccia il fucile ma Pietro Michele entra nel portone di casa, sale le scale a quattro a quattro, prende la rivoltella e una manciata di proiettili, quindi ritorna in strada.
Raffaele ha riposto a terra l’arma e comincia un conciliabolo con i suoi familiari sul ballatoio di casa. Sono distratti, pensano che sia finita lì e nessuno guarda per strada, così sono colti di sorpresa dai primi due colpi di rivoltella che, fortunatamente, vanno a vuoto.
Caputo cerca di imbracciare il fucile ma la moglie e il figlio si mettono di mezzo.
– Che fai? Non ti compromettere, entriamo in casa – gli dicono, ma Raffaele non ci sta. Con uno spintone allontana moglie e figlio proprio nel momento in cui Pietro Michele spara altre due revolverate che sibilano vicino a Raffaele il quale, ormai libero da impedimenti, prende la mira e fa partire un colpo a palla. Evidentemente l’ira è cattiva consigliera in fatto di mira perché anche il suo colpo va a vuoto.
Qualcuno da una finestra grida di smetterla, qualcun altro infila in fretta e furia i calzoni e scende in strada per cercare di mettere pace, tutti gli altri assistono alla scena, più o meno terrorizzati, da dietro le finestre.
Francesco Caputo è ostinato nel suo tentativo di non far fare sciocchezze al padre e gli si butta di nuovo addosso. Questa volta riesce a spingerlo e a fargli perdere l’equilibrio, impedendogli di sparare ancora, ma tutto ciò avviene mentre Pietro Michele ha preso correttamente la mira verso il petto di Raffaele e spara l’ultimo colpo contenuto nel tamburo della sua rivoltella.
Raffaele traballa all’indietro e si aggrappa al figlio per non cadere e Francesco gli va appresso prendendo il suo posto lungo la traiettoria della pallottola che gli entra nel petto spaccandogli il cuore. Il suo ultimo sguardo è pieno di sorpresa e stupore mentre gira gli occhi verso i suoi familiari. Cade senza un lamento e nell’arena scende il silenzio della morte.
Dopo qualche secondo di smarrimento si alzano al cielo le grida di dolore della mamma e della sorella del povero ragazzo. Il padre no, non grida il suo dolore. Con freddezza rientra in casa e si riempie le tasche di cartucce e dal pianerottolo si mette a sparare contro l’avversario che, nel frattempo, sta ricaricando la rivoltella e per scampare a morte certa si dà alla fuga in mezzo ai campi, sparando all’impazzata per coprirsi la fuga.
Anche Lita Bentenuta sta guardando la scena da dietro alla finestra e quando vede il suo amante scappare, pensa che Raffaele Caputo, non riuscendo a colpire l’avversario, possa vendicarsi su di lei. Con quattro salti scende le scale e si mette a correre dietro a Pietro Michele. Dietro di loro c’è Raffaele che li insegue e di tanto in tanto si ferma a sparare una fucilata, alla quale l’avversario risponde a revolverate e, pian piano, i tre spariscono dall’orizzonte.
Filomena Patitucci si butta sul figlio esanime cercando inutilmente di soccorrerlo, non vuole in nessun modo accettare che il figlio sia morto. I poliziotti la trovano che lo tiene in grembo e lo culla come se stesse dormendo.
Le ricerche di Pietro Michele e di Raffaele per tutto il giorno non danno esito, sembrano essersi volatilizzati e tutti temono che possa scorrere altro sangue ma i due nemici, ognuno per conto suo, realizzano che è meglio finirla per davvero e cercano riparo in posti sicuri fino al calar della sera.
L’Ave Maria è suonata da un pezzo quando Pietro Michele bussa alla porta di Luisa Greco per chiederle un bicchiere d’acqua che beve tutto d’un fiato, poi le dice mettendosi una mano in tasca:
– Per favore nascondi la rivoltella che qui intorno c’è pieno di carabinieri e se me la trovano sono rovinato.
– No, adesso vattene se no sono io a essere nei guai e se non te ne vai mi metto a gridare – gli risponde decisa mentre gli sbatte sul muso la porta di casa.
Pietro Michele se ne va ma è così frastornato che non pensa nemmeno di buttare la rivoltella. Vaga per qualche altro minuto, poi finisce dritto dritto nelle braccia dei carabinieri che lo stanno braccando.
Raffaele quella notte dorme in campagna e in campagna rimane tutta la mattina successiva, poi decide che è il momento di porre fine alla sua fuga e ritorna a casa, dove lo vanno a prendere i carabinieri.
Vengono interrogati decine di testimoni ma forniscono tutti versioni abbastanza contrastanti su chi abbia sparato per primo e la questione non è da poco. Se a sparare per primo fosse stato Raffaele Caputo, l’avversario se la caverebbe invocando la legittima difesa, al contrario sarebbe omicidio volontario.
Ci penserà la giuria popolare il 18 dicembre 1925 a dirimere la questione: a sparare per primo è stato Pietro Michele Mauro il quale, però, se da un lato è “colpevole per aver commesso il fatto con atti diretti a produrre al suo avversario una lesione personale cagionando la morte del Caputo Francesco”, dall’altro ha agito “nell’impeto d’ira o di intenso dolore determinato da ingiusta provocazione” che viene riconosciuta come “grave”, in più ci sono le attenuanti generiche perché è incensurato.
Pietro Michele Mauro se la cava con 4 anni e 2 mesi e gode anche di un condono di 2 anni, ma dovrà pagare i danni. Raffaele Caputo viene assolto perché il reato di tentate lesioni personali rientra nell’amnistia di turno.
COROLLARIO
L’8 marzo 1926 un certo Antonio Mauro, nativo di Mangone, al rientro dagli Stati Uniti dove ha lavorato per diversi anni, presenta in Questura una richiesta tendente a ottenere il rilascio del porto d’armi, ma se la vede respingere perché risultano a suo carico una condanna per lesioni personali volontarie e un’altra per appropriazione indebita.
Il poveretto è sconcertato, sa di non aver mai avuto a che fare con la giustizia, poi capisce cosa è accaduto. Antonio Mauro è il fratello di Pietro Michele Mauro il quale, commessi quei reati, per mantenere la sua fedina penale pulita, si fece processare e condannare col nome del fratello, ignaro di tutto. Un bel furbacchione il nostro Pietro Michele, non c’è che dire![1]
[1] ASCS, Processi Penali
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