LA MILIZIA FASCISTA DI PEDIVIGLIANO

La strada che da Pedivigliano conduce alla località Linza di Gesù Cristo e da qui alla frazione Villanova è solo una ripida mulattiera. Superato il cimitero del paese, la mulattiera si biforca: andando a sinistra c’è un viottolo che porta a un acquedotto, andando a destra si arriva nelle località di cui abbiamo raccontato. È alla biforcazione che la squadriglia fascista si ferma nel pomeriggio di domenica 28 febbraio 1926 per dividersi in due e accerchiare Francesco Mastroianni per arrestarlo. Guglielmo Calfa di Camillo, Ernesto Pascuzzi e Guglielmo Calfa di Ignoti prendono per l’acquedotto, mentre Riccardo Giannini, Ferdinando Torchia, Giacinto Bruni, Alessandro Fuoco, Francesco Titino e Pietro Mancuso si incamminano lungo la mulattiera.
Francesco Mastroianni, in compagnia di Giovanni Costanzo, Natale Gigliotti, Baldassarre Bruno e Cesare Gigliotti è un po’ più avanti di loro. Non appena arriva alla Linza di Gesù Cristo il gruppo più numeroso di fascisti li vede e intima loro di fermarsi ed alzare le mani. Tutti ubbidiscono tranne Mastroianni e Costanzo i quali, tenendo alzata solo la mano sinistra, continuano a camminare e, prima di essere raggiunti, si danno alla fuga per la campagna. Costanzo va verso l’acquedotto, dove è appostato l’altro gruppo di fascisti, Mastroianni invece corre verso Villanova inseguito, rivoltelle alla mano, da Riccardo Giannini e Alessandro Fuoco, seguiti a loro volta dagli altri.
– Fermati strunzu! – gli urlano dietro, ma Mastroianni non ha nessuna intenzione di consegnarsi e corre più forte che può.
– Fermati ca t’ammazzu!
Anche Giovanni Costanzo corre all’impazzata senza sapere che sta per finire in bocca agli avversari, dei quali solo Guglielmo Calfa di Camillo è armato con la rivoltella d’ordinanza di Giacinto Bruni, guardia municipale.
Strunzu! T’ammazzamu! – urlano ancora all’indirizzo di Francesco Mastroianni, senza però ottenere risultato alcuno.
Francesco sente il cuore che sta per scoppiargli, il fiato gli manca ma deve correre ancora più veloce per entrare nella boscaglia e sperare di sottrarsi ai fascisti. Poi due colpi in successione. Francesco fa ancora due o tre passi verso la salvezza, quindi cade colpito a morte alle spalle da un proiettile. Non viste, dietro la squadra, ci sono due donne che seguono tutte le fasi dell’azione. Sono Marianna Mastroianni e Marietta Angotti.
Dall’altra parte della collina si sente il suono inconfondibile di quattro colpi di rivoltella sparati in rapida successione. È Gugliemo Calfa di Camillo che spara in aria a scopo intimidatorio ma Costanzo non si ferma e riesce a scappare nella fitta vegetazione.
La frazione Villanova di Pedivigliano è a un tiro di schioppo dal luogo dove i fascisti hanno raggiunto i due fuggitivi. Il sole sta tramontando quando Francesco Mastroianni si sta sedendo a tavola per cenare e sente i colpi di rivoltella. Subito si precipita fuori per capire cosa sta accadendo. Davanti la casa c’è sua figlia Saveria che guardando verso la Linza di Gesù Cristo si mette a urlare:
– Hanno ammazzato mio fratello!
Insieme alla ragazza c’è una vicina di casa, Maria Esposito, che prendendolo per le mani gli dice:
Ahi! Compare, hanno ammazzato Francesco!
Mastroianni non perde tempo e, correndo come un pazzo, si precipita nel posto dove è avvenuto l’omicidio; lungo la strada incontra Baldassarre Bruno il quale gli riferisce che una squadra di fascisti della frazione Pittarella ha ucciso suo figlio, senza però sapergli spiegare per quale motivo.
Già, per quale motivo la squadra fascista ha inseguito, volendolo arrestare, e quindi ucciso Francesco Mastroianni? Per scoprirlo dobbiamo fare un giro a Pedivigliano nelle prime ore pomeridiane del 28 febbraio.
Nella cantina di Michelangelo Giannini si beve e si gioca a padrone e sotto. Uno dei giocatori beve un sorso di vino senza essere stato invitato e ne nasce una questione. Gli animi sono eccitati dall’alcol e per evitare che degeneri del tutto interviene il fratello dell’oste, ma si becca un pugno in faccia e si ritira in buon ordine. Fuori dalla cantina c’è Francesco Mastroianni il quale, udendo le urla e il rumore di tavoli e sedie che sono fatti cadere, pensa che sia rimasto coinvolto nella rissa suo cugino Giovanni Costanzo ed entra come una furia spianando il suo coltello. Un giovanotto, Adamo Bartolozzi, gli si para davanti per calmarlo e spiegargli la situazione ma nel parapiglia rimane leggermente ferito a una mano dal coltello di Mastroianni. Alla vista del sangue tutti cercano di afferrarlo e disarmarlo ma senza riuscirci. Interviene anche Giovanni Costanzo il quale, per calmare gli animi, si mette a urlare:
Fermi che sparo! – intorno si fa silenzio anche se tutti vedono che in mano non ha nessuna arma, ma forse tutti si calmano perché proprio in quel momento sulla porta della cantina si affaccia la guardia municipale Giacinto Bruno.
– Dammi il coltello – fa a Mastroianni
Vieni che ce n’è pure per te! – gli risponde. Bruno sa che in caso di colluttazione avrebbe la peggio e, invece di estrarre la rivoltella e intimargli di buttare il coltello, manda a chiamare la squadra della milizia fascista costituita nella frazione Pittarella.
Quando arriva la squadra, Mastroianni e Costanzo si sono già incamminati lungo la mulattiera, così viene presa la decisione di inseguirli. Bruno, che tutti definiscono un uomo mite, cede alle insistenze di Guglielmo Calfa di Camillo e gli consegna la sua rivoltella.
Poi il fattaccio del tutto ingiustificato per la banalità della lite nella cantina.
Francesco Mastroianni giace a terra morto e la sua famiglia lo piange mentre la squadra e la guardia municipale vanno a Scigliano a bussare alla casa del maresciallo Nicola Ciampa e gli raccontano la loro versione dei fatti, poi gli consegnano le rivoltelle, precisando che quella della guardia municipale era stata usata da Calfa e quella del caposquadra M.V.S.N.[1] Ferdinando Torchia (conosciuto come Ciccio) era stata usata da Riccardo Giannini. La rivoltella consegnata da Alessandro Fuoco invece è una vecchia rivoltella semi arrugginita.
Tutti i componenti la squadra vengono posti agli arresti per concorso in omicidio e Giovanni Costanzo per porto abusivo di arma da fuoco, ma della sua rivoltella non verrà trovata mai traccia.
Vengono fatte le perizie sulle rivoltelle consegnate e risulta che le uniche ad aver sparato sono quelle della guardia municipale usata da Guglielmo Calfa di Camillo e quella del caposquadra M.V.S.N. Ferdinando Torchia, usata da Riccardo Giannini. Calfa viene subito scagionato perché, secondo i rilievi fatti in base alle parole dello stesso Calfa, dal punto in cui si trovava quel maledetto pomeriggio non poteva nemmeno vedere Mastroianni. Resta Giannini come unico possibile omicida.
Ma c’è un ma. Ricordate le due donne testimoni oculari che nessuno dei presenti aveva notato? Ebbene, entrambe giurano che a uccidere Francesco Mastroianni è stato Alessandro Fuoco che impugnava una pistola luccicante. Come è possibile? Le due donne sicuramente si sbagliano, la perizia è categorica. Certo. Solo che i periti assersicono di avere esaminato una rivoltella semiarrugginita e le due donne giurano che era una rivoltella “luccicante”. Che ci siano state due rivoltelle?
Le due donne vengono torchiate dal vicepretore di Scigliano supportato da un usciere della Pretura i quali, a detta di entrambe, riescono a farle ritrattare con minacce, ma Marianna Mastroianni non molla e chiede udienza direttamente al Giudice Istruttore. Purtroppo non riesce a parlargli e così gli inoltra un esposto molto dettagliato su come sarebbero andati i fatti, raccontando anche delle minacce subite.
In paese si parla e si straparla dell’accaduto e Marietta Angotti, l’altra testimone, pubblicamente mima come Alessandro Fuoco si sia inginocchiato e abbia preso la mira poggiando il gomito destro sul ginocchio per tenere la mano ferma. L’avvocato Tommaso Corigliano, che difende l’altro imputato Riccardo Giannini, è categorico nel sostenere che i “pezzi grossi” del paese si stanno adoperando per salvare Fuoco e aggiunge che bisognerebbe interrogare la guardia carceraria in servizio presso il carcere di Scigliano per riferire ciò che ha ascoltato durante la permanenza degli imputati in quel carcere. Altrettanto categoricamente asserisce che Fuoco ha esibito ai carabinieri una vecchia rivoltella arrugginita non adoperata da anni e non quella nuova che i testimoni gli hanno visto in mano. Mette, per di più, in evidenza il profondo contrasto tra la linea difensiva di Riccardo Giannini e quella di Fuoco. Chiede perizie tecniche e documenti. Chiede che Fuoco non venga scarcerato. Ma è tutto inutile. Il Giudice Istruttore, qualche giorno dopo dispone la scarcerazione dell’imputato e in carcere resta solo Riccardo Giannini.
Ormai il processo ha preso importanza perché vi è coinvolta una squadra di militi e i collegi difensivi si gonfiano con i nomi più prestigiosi dell’avvocatura fascista cittadina che combattono una guerra di tutti contro tutti.
Nicola Serra difende Alessandro Fuoco, Guglielmo Calfa di Camillo e Guglielmo Calfa di ignoti; Saverio Moro del foro di Catanzaro e Tommaso Corigliano difendono Riccardo Giannini; Giuseppe De Chiara difende Ernesto Pascuzzi e Francesco Titino; Filippo Coscarella e Caio Fiore Melacrinis del foro di Catanzaro difendono Giacinto Bruni; Angelo Ippolito difende Pietro Mancuso. Pietro Mancini rappresenta la parte civile.
Le cose vengono fatte in grande stile e le memorie difensive vengo stampate e rilegate.
Riepilogando, in una bettola di Pedivigliano scoppia una zuffa e la Guardia Municipale non essendo in grado di sedarla, chiama una squadra della milizia fascista a suo supporto. I responsabili della zuffa si sono allontanati dal paese e la milizia li insegue per arrestarli ma, quando li raggiunge vengono sparate delle revolverate e rimane ucciso uno dei due inseguiti. Tutti i componenti la squadra della milizia più la guardia municipale, in tutto nove persone, si presentano dal Maresciallo dei Carabinieri a raccontare più o meno ciò che è successo, ammettono che c’è scappato il morto, consegnano le armi e vengono tutti arrestati. Vengono fatte delle perizie che stabiliscono quali armi hanno sparato ed escono fuori due testimoni che giurano di aver visto benissimo chi ha sparato e ucciso ma non vengono credute. Staremo a vedere gli sviluppi.
Il 15 febbraio 1927 la Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro rinvia a giudizio soltanto Riccardo Giannini per il reato di omicidio e proscioglie tutti gli altri imputati per non aver commesso il fatto.
Il 30 gennaio 1928, anno VI, la giuria popolare manda assolto Riccardo Giannini per non aver
commesso il fatto. Non risultano ricorsi in Corte d’Appello, neppure da parte della famiglia del morto.
Ovviamente Francesco Mastroianni è stato ucciso dal solito fantasma che si aggira indisturbato nel regno fascista d’Italia.[2]

 

 

[1] Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
[2] ASCS, Processi Penali.

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