OSSESSIONE

È il 6 settembre 1913, è appena passata l’ora di pranzo e fa caldo. Il piantone della caserma dei Carabinieri di Cosenza per non cedere alla tentazione di appisolarsi si affaccia sull’ampio portone che dà su Piazza Carmine. In giro c’è poca gente e lo sguardo del carabiniere si posa su un uomo anziano un po’ grassoccio, con un bel paio di baffi e pochi capelli. Sembra in stato confusionale mentre attraversa la piazza per dirigersi nella sua direzione. L’uomo, ormai vicino, lo guarda e si fa il segno della croce, poi farfuglia:
– Sono venuto a costituirmi, ieri notte ho ammazzato mia moglie.
Il carabiniere lo afferra per un braccio e lo porta nel posto di guardia, quindi chiama a gran voce il maresciallo.
– Mi chiamo Salvatore Moio, ho sessant’anni e sono di Mendicino, contrada Vutrone. Abbiate pazienza, vi devo raccontare la mia storia dall’inizio…
– Vi ascolto – fa il maresciallo.
– Ero sposato da una ventina di anni con Teresa Trozzo, che aveva cinquantatre anni, e non abbiamo mai avuto figli. Per questo motivo mia moglie ha cercato per anni di costringermi a fare testamento in favore dei suoi nipoti ma io mi sono sempre rifiutato perché la roba mia deve andare ai nipoti miei. Fin dal 1904, nel periodo in cui ero il fattore dei signori Tarsia a Cosenza, mia moglie e il fratello Francesco gettarono le basi di un piano infernale per raggiungere il loro scopo. Mio cognato cominciò a dirmi che avrei fatto bene a malmenare mia moglie e, addirittura, a ucciderla che si sarebbe occupato lui di sistemare le cose, in cambio della proprietà. Mia moglie, da parte sua, mi faceva mille dispetti come non farmi trovare pronto da mangiare quando tornavo stanco dalla campagna o mi cucinava senza sale, non voleva dire le preghiere della sera con me… piccolezze così… ma, dal 1909, ai soliti dispettucci ne aggiunse uno davvero grande: cominciò a negarsi a me quando volevo possederla! Allora cominciai a essere roso dalla rabbia, tanto più che lei si mostrava scherzosa e civettuola con gli altri e indifferente con me. Una notte di dicembre del 1910, mentre tentavo con le buone di richiamarla al mio affetto, reagì in modo vivace; io la spinsi fuori dal letto e lei mi minacciò con un scure. Come una furia imbracciai il fucile e la minacciai a mia volta ma lei scappò dalla stanza. La inseguii deciso ad ammazzarla ma quando feci per attraversare una porta, il laccio dello scapolare della statuetta della Madonna del Carmine che tengo in casa si impigliò nella serratura e non riuscii ad aprirla. Mi fermai e interpretai questo fatto come un richiamo della Madonna e ritornai sui miei passi, pensando che avrei fatto meglio ad ammazzarmi per porre termine alla mia vita angosciosa e piena di amarezze. Mi misi la canna del fucile sotto la gola e premetti il grilletto ma il colpo non partì. Era il secondo avvertimento divino; mi calmai, tolsi la cartuccia dal fucile e vi scrissi sopra la data e me ne tornai a letto… potete controllare, la cartuccia, svuotata, l’ho conservata nel primo tiretto del comò… ho pensato e ripensato e decisi che sarebbe stato meglio allontanarmi per sempre da mia moglie, così, nel 1911 me ne andai in America col cuore triste e la vergogna in faccia perché, già allora, in paese si mormorava sui nostri dissapori e sul fatto che mia moglie avesse rapporti illeciti con altri uomini. Durante la mia assenza seppi che lei aveva sfrattato un mio amico al quale avevo fittato una camera, per metterci un maestro di scuola che faceva lì le sue lezioni e col quale mia moglie, così seppi, ebbe una relazione. Ritornai in paese nel gennaio del 1913 e mia moglie continuò la solita guerriglia mentre se la intendeva con un mio compare vicino di casa. Io cominciai a persuadermi che il nipote di costui stesse facendo di tutto per sbarazzarsi di me e sposare mia moglie e, giorno dopo giorno, questa supposizione si è rafforzata nella mia mente per le sue continue frequentazioni con quell’individuo. E arriviamo al giorno prima del fatto. Mia moglie non voleva fare il pane in casa nostra perché voleva andarlo a fare di notte a casa del compare. Io mi opposi perché vedevo in ciò il piano per uccidermi e fare sparire il mio cadavere. Il compare mi mandò una pitta calda ma non ne mangiai perché ero convinto che fosse avvelenata, tanto è vero che mia moglie non volle assaggiarla prima di me. Mi sentivo in un immediato pericolo di vita e ieri mattina ne ebbi la conferma quando ho sorpreso mia moglie con Gatanuzza ‘a storta, una fattucchiera di professione, che confabulavano mentre Teresa stava facendo la conserva di pomodori. “Sfascinalu, conzamillu bbuanu…” ha detto mia moglie e la vecchia si è messa a dire parole strane, poi ha recitato 5 pater, 5 credo, 5 ave e 9 gloria e mi ha detto: “Sarbatù… stanotte tinne fai quattru o cinque…”. Io, ieri notte, c’ho provato di nuovo con mia moglie. Lei, sulle prime si rifiutò di nuovo, poi, dopo mezzanotte, acconsentì ma io non riuscii ad avere l’erezione! Capii tutto, la fattucchiera invece di sfascinarmi mi aveva fatto una magarìa per incarico di mia moglie. A quel punto la paura di essere ucciso dal suo amante mi invase di nuovo… il sangue mi è salito alla testa e la vista si è annebbiata. Ho preso la scure e l’ho colpita alla fronte mentre, tutta nuda, cercava di scendere dal letto. Nonostante il colpo ricevuto cercò di scappare per le scale e quando arrivò al portone, mentre cercava di aprirlo, la colpii… la colpii… la colpii… non ricordo quante volte… poi sono risalito in camera e mi sono vestito, ho preso un lenzuolo e ho coperto il cadavere nudo, quindi ho aperto il portone, sono uscito, l’ho richiuso con la chiave e, piano piano sono venuto a costituirmi, però prima sono andato a salutare la Madonna del Carmine qui di lato…
Il maresciallo ha ascoltato tutto perplesso, non gli sembra affatto normale ma, come è d’obbligo, si deve indagare per scoprire la verità e così gli inquirenti scoprono che Salvatore è sempre stato un uomo mite e dedito al lavoro; a nessuno ha mai dato l’impressione di essere un matto e niente ha mai macchiato la sua fedina penale. A Mendicino la gente è in fermento e comincia a sparlare della povera Teresa, reclamando la libertà per Salvatore, non perché lo ritenga incapace di intendere, ma semplicemente perché “ha fatto bene”, dato che la moglie non lo rispettava e non si comportava come una moglie deve comportarsi.
Gli inquirenti sono cauti. È vero che l’omicidio potrebbe rientrare nella casistica del delitto d’onore, ma è pur vero che non riescono a trovare un solo appiglio per poter affermare che è stato commesso un adulterio. Solo voci ma, al momento di mettere nero su bianco, tutte le persone interrogate si trincerano dietro il classico “l’ho appreso dalla voce pubblica”. Figurarsi poi se i due uomini indicati da Salvatore come amanti della moglie ammettono qualcosa. Tutti e due, interrogati, danno la stessa risposta: “io sono giovane, non avrei mai potuto fare una cosa del genere con un’anziana”.
Un bel rompicapo. Nessun riscontro specifico al racconto dell’omicida. Gli inquirenti, è ovvio, si chiedono se Salvatore sia matto davvero o lo faccia per cercare di sfuggire alla pena e si convincono che sta bluffando.
Il difensore di Salvatore la pensa diversamente e dopo l’interrogatorio davanti al Giudice Istruttore chiede che il suo assistito venga sottoposto a perizia psichiatrica ma i giudici gliela negano e allora parte il ricorso alla Corte d’Appello di Catanzaro che, il 1 maggio 1914, dispone la perizia nel manicomio di Girifalco.
I periti lo tengono in osservazione per un paio di mesi e quindi stabiliscono che Salvatore, nel momento in cui ha ucciso la moglie, era in stato di totale infermità di mente e quindi non responsabile dell’omicidio. Inoltre, stabiliscono che, siccome la temporanea infermità di mente di Salvatore è stata determinata dalla condotta isterica, viziata e depravata della moglie e così come è naturale che il sole compaia quando le nubi, per essersi rovesciate in temporale sulla terra, non esistono più nell’atmosfera ad intercettarne la luce, è naturale che Salvatore, essendo venuta a mancare la causa del suo disagio (Teresa Trozzo, la moglie) può vivere in libertà senza essere pericoloso a sé e agli altri perché lo stato morboso sotto il cui influsso il Muoio agì nella notte fatale, può e deve ritenersi esaurito.
Ai giudici la similitudine poetica usata dagli specialisti appare un po’ bizzarra per cui accettano parzialmente la perizia e, con un compromesso, dispongono che Salvatore resti ricoverato in manicomio. Sarà scarcerato definitivamente il 12 luglio 1916.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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