UN LACCIO ALLA GOLA

 

È la mattina del 4 settembre 1893. Due uomini con il cappello in mano aspettano di parlare con il Sindaco di Scigliano. Entrambi sono visibilmente agitati e parlano concitatamente tra di loro. Qualcuno sente pronunciare delle bestemmie, poi la porta dell’ufficio del Sindaco si apre e i due entrano, salutano deferentemente, mentre il più anziano dei due comincia a parlare:
– Siamo i fratelli germani Palmo e Pasquale Garofalo e dobbiamo fare una denuncia…
– Non siete andati dai Carabinieri?
– Il Maresciallo è assente e… e abbiamo preferito venire da voi…
– Ditemi…
– Siamo della frazione di Agrifoglio e abbiamo la certezza che nostra cognata Palma Rocca, sposata a nostro fratello Michele, che è emigrato da più di tre anni in America, ieri mattina ha partorito una bambina e l’ha ammazzata per nascondere l’adulterio commesso ai danni del proprio marito
– E come sarebbe successo lo sapete?
– L’ha strangolata con una corda e l’ha seppellita sotto due pietre nel casalino dei signori D’Elia, quello crollato…
Dai primi, sommari accertamenti fatti dal Sindaco, il reato sembrerebbe realmente accaduto e i Carabinieri immediatamente avvisati.
Verso le ore 7 antimeridiane del giorno 3 andante mese nella frazione di Agrifoglio, la contadina Rocca Palma di anni 27, assistita dalla sua zia Talarico Maria di anni 60, dava alla luce una bambina frutto di illecita relazione e verso le ore 9 antimeridiane del suddetto giorno la Rocca si prendeva la neonata, sempre viva, recatasi nel fondo che poco dista dalla sua casa, legava bene stretto un laccio di cuoio al collo della suddetta neonata, indi la deponeva colà in un casalino franato coprendola con tre grosse pietre e tornandosene così a casa tranquillamente e il giorno successivo partì dalla sua casa senza che sia conosciuta la direzione presa. Questo è ciò che il Maresciallo Giovanbattista Mazzocca rileva interrogando i vicini di casa, in attesa di fare un sopralluogo col Pretore e col medico legale.
La sera del 5 corrente mese i RR. Carabinieri mi hanno riferito che nei ruderi di una casetta rurale in territorio di Agrifoglio era stato nascosto, sotto le macerie, il cadaverino di un neonato, ucciso dalla propria madre. La mattina appresso, a buon’ora, mi son recato in sopra luogo. Quivi ho rinvenuto, tra gli altri sassi, un largo macigno, alzato il quale s’è presentato ai miei occhi il cadaverino del neonato, tutto compresso, avvolto in un pannolino. Immantinente l’ho fatto mettere dentro un cesto e trasportare nella sala mortuaria del Camposanto di questo comune, dove ho osservato che un laccio di cuoio della lunghezza di un metro, abbastanza consistente, stava legato attorno al collo del cadaverino. È il racconto sommario del Pretore, poi la parola passa ai periti.
Feto di sesso femminile della lunghezza di centimetri cinquanta con ottimo stato di nutrizione e di sviluppo scheletrico, incipiente stato di putrefazione. Sciolto il laccio dal collo e riscontrato il doppio solco per strangolamento, poi dalla parte laterale e anteriore del collo si approfonda nei tessuti per un centimetro, mentre dalla parte posteriore è più superficiale; il fondo del solco si presenta mummificato e di aspetto grigiastro ed irregolare per dimensioni del laccio. Fortemente compressa la cartilagine tiroidea. Il torace trovasi in fase inspiratoria. Dalle note anatomiche suesposte, troviamo che il feto è nato vivo perché ha completamente respirato ed era ancora vitale perché possedeva tutti i caratteri della maturità e avrà potuto vivere uno o due giorni, avuto riguardo che il cordone ombelicale era ancora umido. Ciò premesso, giudichiamo che la causa della morte del feto è dovuta completamente agli effetti dello strangolamento. Chiarissimo.
Palma è ancora latitante e c’è il sospetto che possa tentare di espatriare clandestinamente. Con quali soldi? Presto detto: dalla sua abitazione, perquisita in cerca di prove e indizi che ne confermino inequivocabilmente colpevolezza, che al momento è ancora tutta da dimostrare, mancano tutti gli abiti e l’oro. In casa vengono rinvenuti e sequestrati un paio di scarpe da bracciante, una delle quali avente un laccio di cuoio della lunghezza di circa un metro e l’altra il residuo di un laccio identico, della lunghezza di centimetri trentadue, una camicia tutta insanguinata, un lenzuolo parimenti insanguinato. È tanto per dimostrare il parto, ma ci si rende subito conto che il pezzo del laccio di cuoio che manca da una delle scarpe non coincide con quello stretto attorno al collo della bambina e questo è un problema. Poi il Pretore e i Carabinieri vengono a sapere che l’amante di Palma, Rocco Antonio Cipparrone da Pietrafitta ma residente ad Agrifoglio, fa uso di scarpe con lacci e poiché lo strangolamento è avvenuto appunto mediante un laccio di cuoio da scarpa, sorge il sospetto che abbia egli apprestato tale mezzo all’adultera, sospetto avvalorato dalla circostanza della partenza improvvisa di lui da Agrifoglio, probabilmente pel suo paese natio, dopo l’uccisione dell’infante. Intanto, poiché egli ha già pronto il passaporto e potrebbe quindi partire per l’America, ho scritto immantinente all’Autorità di P.S. affinché lo sorvegli e nel caso in cui l’amante adultera si trovi presso di lui, come sospettasi, nell’arrestarla arresti anche lo stesso per favoreggiamento.
Le testimonianze che man mano vengono acquisite però sembrano scagionare Cipparrone dall’accusa di avere fornito il laccio di cuoio a Palma perché anche quest’ultima calza scarpe con lacci di cuoio molto simili a quello usato per strangolare la bambina, ma di certo si tratta di un altro paio di scarpe, diverse da quelle già sequestrate.
Poi la mattina del 14 ottobre 1893 Palma bussa alla porta della caserma dei Carabinieri di Scigliano e si costituisce.
Ero incinta da 9 mesi malgrado l’assenza di mio marito per opera di Rocco Antonio Cipparrone, quando nel 3 settembre ultimo, verso le 7 antimeridiane, avvertendo dolori accusanti la prossimità del parto, dalla finestra di casa mia pregai Saveria Rocca che mi facesse venire la levatrice Maria Talarico, mia zia. Infatti costei venne dopo una mezza oretta, allorché era già venuta alla luce una bambina la quale, stante il cordone ombelicale che le cingeva strettamente il collo, presentava il volto livido. La Talarico tagliò il cordone colle forbici fasciando la neonata. Dopo un quarto d’ora c’incamminammo alla volta del casino D’Elia nel cui pianterreno abita mia madre; la Talarico portando in braccio quella infante e giuntevi, mi fu consegnata questa da colei la quale tornò poco dopo in Agrifoglio. Scorso brevissimo tempo mi allontanai anch’io da quella casa alla volta di Scigliano portando meco la bambina nell’intenzione di consegnarla per l’allevamento alla levatrice agnominata “La Caronte”. Non avevo fatto venti minuti di strada quando, guardata l’infante che fino a quel momento avea mandato continui lamenti, la trovai morta. il dolore da me provato fu grande, a miracolo non ne restai vittima, mi sedetti sopra una pietra e piansi su quel cadaverino per circa un’ora. Indi, pensando che se tornassi in Agrifoglio con esso sarei stata vittima di disonore, nonché dell’ira dei parenti di mio marito, mi appigliai al partito di nascondere quel frutto dell’adulterio e, tornata verso il casino alle tre e mezza pomeridiane circa, penetrai fra i ruderi lì presso e composi quel cadaverino tra le pietre, coprendolo con un largo macigno, in guisa però che non restasse compresso. Poscia tornai da mia madre e dissi a lei, a mia sorella ed a mio cognato che avevo portato l’infante in Scigliano. Dopo poco mi ritirai in Agrifoglio. È questo il fatto ed è falso che io abbia strangolato la mia figliuola
– Eppure attorno al collo della bambina è stato trovato un laccio di cuoio che l’ha soffocata…
– Non l’ho messo io. È facile che l’abbiano fatto altre persone per dimostrare che io avevo uccisa costei. In effetti, la mattina del dì appresso, dopo una nottata scorsa in mezzo ai maltrattamenti del fratello e della sorella di mio marito, Palmo e Maria Garofalo, i quali mi accusavano di doloso aborto, mentre il primo si allontanò di casa, io confessai alla seconda che la neonata trovavasi seppellita tra i ruderi suddescritti e quindi, per sfuggire all’ira di loro, sotto pretesto di andare a pigliare il cadaverino, andai invece a Cosenza in cerca di pane. Perciò, sapendosi il sito dove trovavasi il cadaverino, è facile che qualcuno sia andato a mettergli attorno quel laccio allo scopo di preparare una prova contro di me
– Teoricamente il racconto che fai è plausibile, ma c’è un piccolo problema: secondo i periti la bambina è stata strozzata dal laccio di cuoio e quindi il tuo castello cade… magari se ti avesse incontrata qualcuno lungo la strada che potesse confermare le tue parole… nemmeno tua madre ne sa niente… e poi, se quello che racconti fosse vero, perché ti sei nascosta per tutto questo tempo?
Insisto nell’affermare che la mia infante morì per la via per causa naturale. Non fui vista da persona alcuna durante quel tempo, non portai il cadaverino presso la casa di mia madre per la vergogna, non confidai a costei l’accaduto perché nel fare ritorno in casa sua ero così stordita da non aver forza nemmeno di parlare. Mi sono data alla latitanza perché avevo paura dei parenti di mio marito i quali, come sopra ho detto, per una notte non fecero che maltrattarmi
– Avresti potuto rifugiarti da tua madre, ma la verità è che ti sei allontanata perché avevi paura della Giustizia, non dei tuoi cognati!
Nel partire per Cosenza ignoravo che mio cognato Palmo si era recato a Scigliano per dar parte alla Giustiziaandai a Cosenza e non in casa di mia madre perché anche dei miei parenti avevo paura e più di mio fratello il quale, come assicurava, tornando a casa mi avrebbe uccisa pel disonore arrecatogli… – poi si mette a piangere e cambia discorso e ciò che dice incuriosisce il Pretore – la mia bambina portava al collo un fazzoletto rosso che la suddetta mia zia Talarico le avea messo in mancanza di camicia
– Che tipo di scarpe portavi quel giorno?
Portavo scarpe con gambale basso e con lacci di cotone. Non nego che ad una di esse mancava un laccio che per la fretta avevo lasciato in casa e non posso negare di aver preso e adoperato per quella scarpa un laccio di cotone bianco in casa di mia madre… è falso che il laccio che portavo nell’altra scarpa era di cuoio, simile a quello che fu rinvenuto attorno al collo del cadaverino. Vi assicuro ch’era di cotone nero.
– E dove sono quelle scarpe?
L’ho cambiate con un pane a persona sconosciuta prima di arrivare a Cosenza
– Chi sapeva che eri incinta?
In paese era notorio che io trovavami incinta e lo negavo soltanto ai miei parenti per paura
– Tu l’hai uccisa per salvarti l’onore!
Non è il caso di parlare di causa di onore che abbia potuto determinarmi ad uccidere la mia neonata. Ormai in paese era risaputo che io avevo disonorato mio marito, quindi non avevo interesse di distruggere il frutto dell’adulterio!
– Ti ha consigliato il tuo amante di agire così? Ti ha mai consigliato di abortire? – insiste il Pretore.
Il mio drudo non mi parlò mai di aborto. Una volta seppi che avea pensato di comprare delle medicine ma non so se dovevano servire per lui o per altre persone. Egli sempre dicea che avremmo fatto allevare il frutto del nostro amore
– Questo laccio ti appartiene? – le chiede mostrandole il laccio trovato attorno al collo della bambina
Nego recisamente che tal laccio sia appartenuto a me. non ho avuto mai lacci di questo genere!
– E quest’altro? – le fa, mostrandole quello sequestrato in casa sua.
Questo laccio era mio però non lo tenevo per le scarpe, appunto perché ero solita adoperare lacci di cotone
Al Pretore sorgono dei dubbi e chiede il conforto dei periti che hanno eseguito l’autopsia: è possibile che la bambina abbia subito dei danni durante il parto dovuti all’attorcigliamento del cordone ombelicale attorno al collo? La risposta non offre spazi ad equivoci di sorta:
I segni di strangolamento in persona del cadaverino sono assolutamente univoci, imperochè le risultanze necroscopiche a dirittura ci dimostrarono che le lesioni riscontrate sul collo del feto avvennero perfettamente mentre questa era in vita: infatti se il laccio fosse stato messo al collo della neonata dopo morta, non avremmo riscontrato le lacerazioni ed infiltrazioni sanguigne sotto la pelle del collo, nel cellulare, nei muscoli, nelle guaine nervo-muscolari ed in tutti i lati del collo, segni evidentissimi e tali che col concorso di molte altre circostanze di fatto, ci inducono ad affermare recisamente l’avvenuto strangolamento per le note singolari ed indiscutibili. Si distrugge anche assolutamente l’obbiezione se, cioè, il cordone ombelicale attorcigliato attorno al collo del feto prima che venisse alla luce, od anche dopo, abbia potuto essere causa di strangolamento per la semplice considerazione che: 1°) il cordone ombelicale anche stretto al collo del feto per una possibile combinazione prima di venire questo alla luce, non ha potuto produrre lo strangolamento per essersi ottenuto il galleggiamento dei polmoni colla prova idrostatica; 2°) che in vita il cordone ombelicale non avrebbe potuto produrre il classico solco descritto per la relativa fluidità dei tessuti del cordone istesso e pei vari giri attorno al collo della neonata, causati certamente dal laccio, non essendo presumibile che per la più strana combinazione, il cordone ombelicale avesse potuto produrre molteplici giri attorno al collo da formare il menzionato classico solco. Si nega poi assolutamente l’esistenza di qualunque malattia come causale della morte della neonata.
Chiarissimo. Altrettanto chiare sono le parole di Maria Talarico:
Ha dato alla luce una bambina matura ed in buone condizioni. Ho fatto quanto suggerivami la pratica di levatrice, fasciando con pannolini la neonata e l’ho battezzata
– Battezzata?
Prattico ciò con tutti i neonati
– Capisco… temevate forse per la vita della bambina?
Non l’ho fatto perché sapevo o temevo che l’infante morisseprattico ciò con tutti… – ripete.
– E poi?
La puerpera mi ha pregato di portare la bambina al casino di D’Elia, discosto circa un quarto d’ora dal paese. Ho annuito e verso le 9, seguita da lei, mi vi sono recata. Dopo circa due ore ho consegnato la bambina alla madre e le ho detto di portarla a Calvisi dalla levatrice Rachele Decaronte la quale l’avrebbe fatta allevare in Cosenza o in Scigliano a spese della Provincia. Nell’abbandonare il casino D’Elia ho detto alla madre della puerpera: “Io lascio questa bambina, quel che ne volete fare, fate”, significando “la lascio raccomandata”
– Vi ricordate che scarpe aveva ai piedi Palma Rocca quella mattina?
Quando è partita insieme a me da casa sua per portare la bambina al casino di D’Elia portava scarpe con lacci di cuoio, senza gancetti e con occhielli
E anche Santa Rocca, la sorella di Palma, è chiarissima:
Mia sorella Palma, in quel dì, calzava scarpe con lacci di cuoio, anzi fo notare che quando è venuta da Agrifoglio, in una delle scarpe vi mancava il laccio, tanto che si è servita di un laccio di cotone trovato a casa mia
Basta questo, tutte le altre testimonianze raccolte e i confronti a cui Palma viene sottoposta non aggiungono niente altro. Il 5 dicembre 1893 la Sezione d’Accusa la rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di omicidio di un neonato da lei nato commesso mercé strangolamento.
Il dibattimento si apre e si chiude il 30 gennaio 1894 con l’assoluzione di Palma Rocca che ha ucciso la figlia per salvare il proprio onore.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

 

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