LA SANGUINARIA ‘NDRANGHETA DI CIRELLA DI PLATÌ – 2^ PARTE

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Paolo Agostino, “il gigante” di Cirella, e sua moglie Maria Marvelli 

A Cirella di Platì i fratelli Romeo, avendo saputo che Agostino li ha praticamente denunciati per il furto del giovenco e di ciò indignati, pensano di dover correre ai ripari, col fine ultimo di infliggere al traditore un castigo che sia anche un monito per l’atteggiamento che Agostino avrebbe potuto assumere nell’avvenire. Così nel mese di ottobre del 1935 viene appiccato il fuoco alla casa di Maria Marvelli in contrada Vecchio di Ciminà, causando un danno di circa trentacinquemila lire. Potrebbe essere stata una casualità per il fatto che l’incendio si è sviluppato in pieno giorno quando in casa c’erano solo i figlioletti della donna, ma questa nega la circostanza e dichiara di aver chiuso la porta a chiave e quindi resta in campo solo l’incendio doloso concepito dai fratelli Romeo, che non fanno mistero del loro risentimento contro Paolo Agostino. Dopo pochi giorni dall’incendio, a Maria Marvelli vengono rubate trenta capre e non c’è bisogno di lavori di fantasia o di stentate intuizioni per ritenere che il furto sia stata opere dei Romeo e dei loro amici. Anche Paolo Agostino, informato a Ustica dei due reati, è sicuro che sia tutta opera dei Romeo. Quando dopo poco il suo intimo amico Pasquale Muscarà lascia il confino di Ustica per ritornare in Calabria, Agostino gli dà incarico di andare a Cirella, accertare, possibilmente, gli autori del furto delle capre e di riferirgli, a Ustica, l’esito delle ricerche. Muscarà va a Cirella, indaga per qualche giorno, ma non riesce a sapere niente di decisivo. Quando anche Paolo Agostino sta per finire il soggiorno obbligato e tornare in paese, i Romeo pensano di accelerare le operazioni che hanno in mente di compiere e, siccome la rivelazione fatta da Agostino al dottor Macrì costituisce una evidente violazione del segreto intorno ad una operazione compiuta dall’associazione, ritengono subito che il socio traditore debba essere soppresso, essendo tale conclusione in piena armonia con l’ordinamento dell’associazione che commina la pena di morte al socio traditore. Ma i fratelli Romeo, oltre al tradimento, hanno altri e più gravi motivi per desiderare la morte di Paolo Agostino, motivi legati allo stato in cui è venuta a trovarsi l’associazione dopo l’allontanamento del vecchio capo Ferdinando Polito. Infatti, con la nomina di Francesco Macrì a capo, i Romeo hanno conseguito lo scopo di occupare un posto preminente in seno all’associazione e di essere considerati gli elementi più preziosi perché più formidabili ed a questo ruolo non intendono assolutamente rinunciare. Il ritorno di Paolo Agostino evidentemente disturberebbe i loro piani, giacché anche lui ambisce a rappresentare il personaggio più importante della malavita ed avrebbe fatto ogni sforzo e adoperato ogni mezzo per abbattere i Romeo che, quindi, si trovano nella necessità di anticipare l’avversario sfruttando le regole interne dell’associazione. Essi, quindi, non esitano a deliberare la soppressione di Agostino, anche pel motivo che lo ritengono come loro personale e formidabile nemico.

Il 2 marzo 1936 Paolo Agostino rientra a Cirella. I fratelli Romeo, già preparati, ottengono che l’avversario si presenti il 4 marzo davanti all’assemblea per dare giustificazioni delle rivelazioni fatte al dottor Macrì. Agostino non si presenta e, con sorpresa di tutti, specialmente dei fratelli Romeo, tiene un contegno altezzoso e superbo, disdegnando di dare alcuna giustificazione, anzi dichiarando con orgoglio che ormai non teme nessuno giacché a Ustica ha contratto nuove e potenti amicizie affiliandosi ad una poderosa associazione colà rappresentata. Questo atteggiamento conferma nei Romeo il convincimento che Agostino costituisce per loro un osso assai duro e li rafforza nel proposito di disfarsene il più presto possibile. Al fine di apparire longanimi, propongono ed ottengono che Agostino, a distanza di qualche giorno, sia nuovamente invitato a comparire davanti all’assemblea, ma nemmeno questa volta Agostino si presenta, dimostrando così di non tenere in alcun conto né l’associazione, né i suoi componenti, considerati come privati cittadini. Avuta quest’altra prova della sua tracotanza e della sua ribellione, l’associazione delibera di sopprimerlo e dà incarico ai fratelli Romeo, aiutati da qualcuno dei loro più fidati amici, di eseguire la sentenza di morte.

Ma tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare e i Romeo capiscono subito di essersi cacciati in una brutta situazione perché uccidere Agostino non è un affare da prendere alla leggera, dovendo affrontare una persona aitante, robusta, coraggiosa, pronta all’azione, presumibilmente sempre armata, ammaliziata da quanto è avvenuto e capace, non solo di difendersi contro due o tre aggressori, ma di prendere l’offensiva e di fare strage degli avversari. Non per niente lo chiamano il “gigante”!

Quindi è necessario cogliere un’occasione propizia per tradurre in atto il disegno, ma l’occasione non si presenta tanto facilmente ed ai Romeo conviene rimanere in paziente attesa.

La sera del 19 marzo in casa della giovane Maria Rosa Fabiano si tiene un ballo per festeggiare il suo fidanzamento con Francesco Polito, il figliastro di Agostino. Ma c’è un problema: Nicola Pollifroni, l’amico fidato di Agostino, non è stato invitato alla festa e questo è un’offesa tanto per Pollifroni quanto per Agostino, che vieta immediatamente l’uso del grammofono di sua proprietà e la festa finisce tra le proteste di alcuni invitati che provocano un tafferuglio – probabilmente preorganizzato dai Romeo per aggredire e uccidere il gigante –, subito sedato. I provocatori vengono allontanati e torna la calma. Evidentemente i Romeo non hanno creduto opportuno di approfittare della sfiorata rissa, forse perché l’occasione non era delle più felici, vista la presenza di numerosi testimoni. Ma la situazione creatasi fa capire a Maria Marvelli, la moglie di Paolo Agostino, donna scaltra, adusata ai costumi degli associati, abile a prevederne i disegni, che la vita del marito è in pericolo e gli impedisce di uscire dalla casa dei Fabiano, costringendolo a passare la notte nell’attigua casa di Marcellina Fabiano.

La sera successiva c’è un altro ballo per festeggiare il battesimo del figlio di Natale Polito. Dobbiamo precisare che la mattina era arrivato a Cirella Pasquale Muscarà per riscuotere un piccolo credito da Agostino e la sera vanno al ballo insieme. I Romeo vedono Muscarà e, già assillati dalla preoccupazione di dovere lottare contro Agostino, sospettano che Muscarà sia lì per prestare braccio forte al nemico in un’aggressione da costui progettata. Concepito il sospetto, vogliono togliersi subito il dubbio e prendono Muscarà conducendolo in un vicino oliveto dove gli domandano che cosa sia venuto a fare. Muscarà risponde che sta camminando per i fatti suoi, ma intanto Agostino si è accorto dei movimenti dei Romeo e, seguito da altri, corre in aiuto dell’amico sospettando che possa essere massacrato sol perché è un suo amico. Bruno Romeo nota l’atto di Agostino e, per impedirgli di avvicinarsi a Muscarà, gli punta la canna di una rivoltella sul petto. Basterebbe che Agostino faccia qualche altro lieve movimento perché il colpo parta e si compia l’impresa alla quale i Romeo si sono votati, ma Bruno Romeo non tira il colpo e gli astanti hanno tutto il tempo di allontanare il turbine. Anche stavolta, finito il ballo, Maria Marvelli, sempre trepidante per la vita del marito, gli impedisce di uscire dalla casa dove si trova.

È chiaro, a questo punto, che i fratelli Romeo sono in difficoltà per non riuscire a scegliere l’occasione propizia, stanno anche dimostrando di non avere l’abilità di condurre a compimento l’impresa e di non sapere neanche preparare un piano qualsiasi e portarlo a compimento. D’altro canto si potrebbe dire che non vogliono agire avventatamente. Ciò che è certo è che si rende necessario un riesame di tutta la faccenda da parte dell’associazione, perché è chiaro a tutti che Paolo Agostino non è avversario che si può abbattere con assalti frontali adesso che è stato chiaramente messo in allarme. Allora la strategia cambia: bisogna agire con frode e con la massima circospezione per raggiungere il duplice scopo di cogliere alla sprovvista la vittima designata e di assicurarsi l’impunità. Un tranello di notte, senza testimoni ed in tali condizioni che l’omicidio possa attribuirsi a persone che non abbiano avuto alcun precedente col traditore. Stabilita la strategia, il piano è presto fatto: simuleranno il furto di un bue custodito nella stalla della casa di Agostino, facendo un po’ di rumore in modo da indurlo ad uscire per bloccare i ladri e quindi freddarlo a fucilate così da far pensare che ad ucciderlo siano stati degli ignoti ladri. La data stabilita per l’agguato è la notte del 5 aprile 1936. Tutto si svolge secondo i piani: il bue viene portato fuori dalla stalla, i rumori destano Agostino, ma ad uscire di casa è Maria Marvelli armata di fucile, che costringe i finti ladri a darsela a gambe levate, abbandonando il bue.

Così non va bene. Evidentemente la soppressione di Agostino, affidata ai soli fratelli Romeo, non avverrà mai perché a renderli alquanto esitanti e disorientati ha finora contribuito, forse, anche la considerazione che non è stato giusto addossare ad essi soltanto l’onere di una impresa di interesse collettivo, quando altre persone avrebbero potuto facilmente concorrervi. L’affare deve tornare in assemblea al più presto, anche perché Agostino potrebbe decidere di rivolgersi ai Carabinieri, sventando ogni ulteriore piano. Così si pensa di ricorrere a due mezzi: prima una grave minaccia e quindi una blandizia. La minaccia viene fatta attraverso una lettera anonima, che tanto anonima non è, indirizzata a Maria Marvelli e recapitata il 14 aprile: Cara Maria Marvelli, siete pregata di non parlare tanto su di noi perché ben sapete come vi dissimo fuori la cota e se vostro figlio ci dichiara che io e diversi amici e se muntugate qualche mio fratello abbadati il fumuso di Paolo deve pagare quello che sa lui ai confini che dichiaro che io e il fratello e fratelli Politi ci siamo rubato l’asino di Dorosario (Don Rosario. Nda) e il buoi del medico Macrì. Siete stati fortunati di quella sera del ballo. State silenzio se no la pena di morti. Poi il disegno di un teschio.

Maria Marvelli fa vedere la lettera al marito, che adesso è veramente preoccupato e subito pensa che sia il caso di parlarne ai Carabinieri, ma teme di peggiorare la situazione e invece ne parla ad alcuni associati, che gli consigliano, in conformità a quanto esige l’interesse del sodalizio, di guardarsi bene dal riferire tutto ai Carabinieri. Agostino segue il consiglio e le trame per farlo fuori possono continuare indisturbate. Poi arriva la blandizia: una pacificazione generale tra Agostino e l’associazione, rappresentata dal capo Macrì, dai Romeo e da qualche associato di primo piano. La sera del 25 aprile i delegati vanno a casa di Agostino e gli esprimono il desiderio di fare la pace, dichiarandosi innocenti del furto delle trenta capre ai danni di Maria Marvelli e, stringendogli la mano, gli dicono:

Statevi tranquillo, non avrete mali, qui ci siamo noi!

Agostino rivela l’incontro alla Guardia Municipale Melia e gli confida di continuare a dubitare più che mai della lealtà del capo e dei consoci. Nel frattempo il capo Macrì convoca l’assemblea e propone di tendere un agguato ad Agostino, dopo averlo attirato con uno stratagemma. L’idea viene accettata e si passa al piano esecutivo, che prevede di utilizzare Nicola Pollifroni, l’uomo più fidato che Agostino abbia sulla terra, per tendere il tranello, quindi Macrì scrive i nomi dei soci che cureranno l’esecuzione del piano su alcuni pezzi di carta e li conserva nella sua valigia.

L’elaborazione del piano per sopprimere Paolo Agostino è così concepito: Pollifroni, giovandosi dell’illimitata fiducia che in lui ripone Agostino, dovrà condurlo a rubare una certa quantità di miele da un alveare sito nel fondo di Francesco Mediati e nel viaggio di ritorno lo farà passare per la contrada Gonìa o Agonia, e precisamente nel punto ove il viottolo, per un tratto di circa sei metri, è incassato fra due ciglioni coperti da folti cespugli di ginestra spinosa. Lì giunto, Pollifroni si fermerà col pretesto di attendere ad un bisogno corporale e dirà ad Agostino che lo raggiungerà più avanti. Agostino si inoltrerà nel tratto incassato, largo non più di un metro, e qui sarà freddato dagli uomini sorteggiati, appostati dall’uno e dall’altro lato del viottolo. Un piano perfetto, che ripara ai fallimenti dei fratelli Romeo, i quali questa volta saranno accompagnati da altri sette compari, la cui presenza non solo avrebbe infuso loro coraggio, ma ne avrebbe anche controllato gli atti; Agostino sarà colto in un momento in cui la sua mente sarà lontana mille miglia dal sospettare un assalto ed in un punto in cui difficilmente i colpi di fucile potranno andare a vuoto, rendendo vana la robustezza, il coraggio, l’abilità nel maneggio delle armi della vittima.

Ma Pollifroni sarà disposto a tradire Agostino?

La sera del 30 aprile Pollifroni viene convocato e, con tutta la solennità che l’importanza dell’atto e la qualità delle persone richiede, Macrì e i suoi soci lo fanno inginocchiare, gli fanno incrociare le braccia sul petto e gli fanno giurare di eseguire il mandato con esattezza e di mantenere il segreto, pena la morte anche per lui. Fatto questo, Macrì procede al sorteggio degli associati che spareranno contro Agostino con fucili o armi corte (ma il termine è improprio perché non si tratta di una vera e propria estrazione a sorte, non potendosi abbandonare al cieco caso la designazione delle persone che dovranno collaborare con i fratelli Romeo, la cui partecipazione è fuori discussione. Infatti Macrì si limita a togliere dalla valigia i biglietti già scritti con i nomi dei prescelti e li fa conoscere all’assemblea). I nomi dei prescelti sono quelli di Rocco Scali, Francesco Polito, Rocco Giovanni Mediati, Rocco Mediati, Francesco Macrì, Bruno Romeo, Rocco Romeo, Francescantonio Romeo, Rocco Malafarina, Marcello Reitano, Nicola Pollifroni.

La sera del 30 aprile all’assemblea è stato chiamato a partecipare anche Francesco Polito, il figliastro di Agostino, senza che gli sia stato detto il motivo della riunione. Durante la discussione ha un moto di ribellione, ma Rocco Scali lo immobilizza e gli punta un pugnale sul petto, costringendolo ad assistere a tutta la scena. Alla fine della riunione, il giovane Francesco, fino all’esecuzione del piano, viene tenuto sotto stretta sorveglianza, sorveglianza a cui viene sottoposto anche Paolo Agostino, per evitare che i due possano restare da soli. Agostino viene tenuto sotto controllo da Pollifroni, che lo porta con sé in un fondo di contrada Vecchio con la scusa di eseguire alcuni lavori agricoli, mentre Francesco Polito viene affidato alle cure di Rocco Mediati, Rocco Scali e Giuseppe Scali, i quali lo tengono chiuso in casa e gli impediscono di allontanarsi da Cirella, nonostante i quattro tentativi di fuga.

L’esecuzione della condanna

La sera del 2 maggio, all’ora stabilita, Pollifroni propone ad Agostino di andare a rubare il miele e Agostino accetta. Il furto viene portato a termine e i due si avviano verso contrada Vecchio, seguendo il viottolo che attraversa la Gonìa. Giunti verso il tratto incassato, Pollifroni si ferma dicendo che deve soddisfare un bisogno corporale e Agostino continua a camminare. Appena imbocca il tratto incassato sente un urlo:

Fuoco grande! Fuoco grande! – è il figliastro Francesco Politi, il quale, sebbene tenuto sotto la minaccia di un coltello premutogli sulla gola, cerca disperatamente di avvertirlo, ma Agostino non ha nemmeno il tempo di girarsi che viene investito da una fucilata alla nuca e stramazza a terra. Poi gli assassini gli si fanno sopra e lo crivellano di colpi, tutti sparati a bruciapelo. Quindi, dopo aver sputato sul cadavere, se ne vanno indisturbati ridendo sguaiatamente.

La mattina dopo Maria Marvelli, per niente preoccupata sapendo il marito occupato in campagna, manda un figlioletto a recuperare una maialina smarrita e non riesce a credergli quando, tornato indietro di corsa, il bambino le racconta tra le lacrime di aver trovato il cadavere del padre in contrada Gonìa.

Avvisati, i Carabinieri arrivano sul posto e cominciano ad indagare nella direzione che Maria Marvelli indica loro e non ci mettono troppo a trovare i riscontri che incastrano i responsabili dell’omicidio, che confessano prima davanti al Maresciallo e poi davanti al giudice. Nello stesso tempo gli inquirenti raccolgono prove e indizi concreti per portare a processo 142 persone, accusate di associazione per delinquere e una lunga serie di altri reati.

I processi

All’apertura del dibattimento, in aula non è presente Francescantonio Romeo, ricoverato in manicomio per aver dato segni di alienazione mentale e la sua posizione viene stralciata. Durante il dibattimento, tenuto in molte udienze dal 31 luglio al 6 settembre 1939, le confessioni vengono ritrattate con la motivazione di essere state estorte dai Carabinieri nelle caserme di Platì e Locri e poi in carcere mediante percosse con pugni, schiaffi, colpi assestati con un nerbo, con un tampone asciugacarte, con un regolo di legno, denudati e distesi sul pavimento con i piedi legati con catene di ferro tra due spalliere di sedie. Qualcuno lamenta che i Carabinieri gli avrebbero strappato le unghie dei piedi, mentre ad altri sarebbero stati assestati colpi di nerbo sulle piante dei piedi e sulle gambe, colpi per i quali qualcuno avrebbe dovuto subire un taglio chirurgico. Gli agenti avrebbero poi sparso sale e versato aceto sulle regioni colpite ed inoltre avrebbero costretto qualcuno a bere acqua lurida da un recipiente di creta. Per impedire che gridassero, gli agenti avrebbero introdotto nelle loro bocche batuffoli formati dalle loro stesse calze ed assicurati mediante cinturini di cuoio affibbiati sulla nuca. Infine, ai più riottosi, si sarebbe applicato il bottone elettrico sulle regioni interne delle cosce, bottone comunicante con una pila mediante filo elettrico. Nelle carceri di Locri essi, poi, sarebbero stati rinchiusi in celle umide, oscure, antigieniche e vi sarebbero rimasti giorno e notte privi di ogni alimento, sicché quando ne erano tratti fuori avevano dovuto rimettersi gradatamente con qualche goccia di latte. Giunti al termine estremo di tollerabilità, essi si sarebbero abbandonati al destino e avrebbero sottoscritto, alla cieca, le dichiarazioni che venivano loro presentate. Alla contestazione di spiegare i motivi per cui quelle stesse confessioni furono confermate davanti al magistrato inquirente, gli imputati accusano il giudice di averli minacciati di riservare loro un trattamento più duro in carcere. Del resto, affermano, agli interrogatori resi al magistrato avrebbero assistito i Carabinieri, sicché una qualsiasi variante sarebbe stata impossibile perché spesso, dichiarano, per essere costretti a subire la volontà dei Carabinieri venivano trasferiti dalle carceri nella caserma di Locri e colà sottoposti a più gravi violenze.

È possibile che tutto ciò, o almeno parte di ciò, sia realmente accaduto, ma ci sono degli elementi nelle confessioni che i Carabinieri non potevano conoscere e quindi non ne potevano forzare la rivelazione, come, tanto per fare un esempio, il contenuto delle lettere da e per Ustica. E poi contro gli assassini e gli associati, oltre a quelle di numerosi testimoni, ci sono le dichiarazioni di Maria Marvelli, di Francesco Politi e Nicola Pollifroni, che si ritiene sciolto dal vincolo di obbedienza e confessa il tradimento fatto al suo migliore amico, costretto dalla necessità di non fare la stessa fine.

Le deposizioni, o meglio le chiamate di correo, rese dal figlio e dall’amico (traditore) già nel corso dell’istruttoria e confermate nel dibattimento, sono ritenute dalla Corte coerenti, prive di contraddizioni o lacune ed accompagnate da tal corredo di specificazioni e di particolarità, da apparire, a primo sguardo, degne della maggior fede e considerazione.

Maria Marvelli, tra le altre cose, racconta che suo marito non si faceva illusioni circa la gravità del conflitto in cui era venuto a trovarsi e diceva di essere un “uccello di passaggio”, rifiutava di percuotere i figli non volendo lasciare di sé un triste ricordo, dimostrava di avere il presentimento della prossima fine vivendo in stato di continua trepidazione; obbediva alla moglie ogni volta che veniva esortato ad agire con circospezione ed a non uscire di casa nottetempo, neanche se i ladri tentassero di rubargli animali; si rivolgeva ai Carabinieri sempre che ne avesse motivo di invocare il loro intervento. Ma, soprattutto, sorvolando sulle dicerie sul suo onore, si manteneva in intimi rapporti col Pollifroni, dal quale soltanto poteva attendersi aiuto in eventuali pericoli.

È tempo di emettere la sentenza e la Corte comincia con il reato di associazione per delinquere: 3 imputati vengono assolti per non aver commesso il fatto e 104 imputati per insufficienza di prove perché le chiamate di correo incrociate sono state ritrattate, avendo sottoscritto i verbali di interrogatorio per effetto delle gravi violenze subite, sicché resterebbe sempre il dubbio che i 104 non avessero mai fatto parte dell’associazione e dichiara colpevoli di associazione per delinquere i restanti 35 imputati, tra i quali anche Francesco Politi e Nicola Pollifroni, con condanne variabili da imputato a imputato.

Per quanto riguarda, infine, l’omicidio di Paolo Agostino, la Corte ritiene responsabili Macrì Francesco, Romeo Bruno Antonio, Romeo Rocco, Polito Francesco (omonimo del figliastro di Agostino), Mediati Rocco Giovanni, Malafarina Rocco, Mediati Rocco, Reitano Marcello, Scali Rocco, Pollifroni Nicola, Scali Giuseppe, Polito Benedetto e li condanna all’ergastolo, alle spese, ai danni ed alle pene accessorie. Inoltre ordina che la sentenza, relativamente all’omicidio, venga pubblicata mediante affissione nei comuni di Platì, Ciminà e Locri e, mediante inserzione, su “Il giornale d’Italia”.

È il 6 settembre 1940.

Dimesso dal manicomio di Barcellona Pozzo di Gotto dopo essere stato sottoposto a perizia psichiatrica dai dottori Vittorio Madia e Antonio Bonomolo e, sebbene sia risultato affetto da schizofrenia, viene giudicato capace di intendere e volere nel momento dell’omicidio, Francescantonio Romeo può essere processato e ad occuparsi del caso sarà di nuovo la Corte d’Assise di Locri che, il 6 dicembre 1940, lo dichiara colpevole di associazione per delinquere e omicidio premeditato e, riconoscendogli l’attenuante del vizio parziale di mente, lo condanna ad anni 30 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie. Ma proprio per la sua schizofrenia, la Corte decide che prima di iniziare a scontare la pena detentiva dovrà essere ricoverato per almeno tre anni in una casa di cura e custodia. Inoltre dichiara condonati anni 4 della pena in virtù del R.D. 25 febbraio 1937, n. 77.

Con D.P.R. 17 aprile 1970 viene commutata a Nicola Pollifroni la pena dell’ergastolo con la reclusione scontata.

Il 23 novembre 1970 la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando i D.P.R. 19 dicembre 1953 n. 922, il D.P.R. 24 gennaio 1963 n. 5 e il D.P.R. 22 maggio 1970 n. 283, dichiara condonati complessivamente anni 4 e mesi 6 della pena inflitta a Francescantonio Romeo.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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