UN’ORRIBILE SCOPERTA

La mattina del 4 agosto 1931, verso le ore 5, il giovane Antonio Anoia parte da Isca sullo Ionio per andare alla marina, in contrada Lagani, ad aiutare nei lavori campestri il suo sessantaquattrenne padre che, come spesso accade d’estate, ha dormito nel fondo agricolo di sua proprietà. Con Antonio, per un lungo tratto, fa la stessa strada la giovane Teresa Peronace, partita anch’ella da Isca e diretta nella stessa contrada per aiutare il suo sessantasettenne padre Basilio, avviatosi da casa pochi minuti prima. Arrivati in contrada Lagani, i due giovani si separano per andare a lavorare nei rispettivi fondi agricoli, ma appena Antonio arriva dove è certo che si trovi suo padre, fa un’orribile scoperta: a poca distanza dalla presa d’acqua da cui si diparte una piccola diramazione secondaria che serve per innaffiare il fondo, a terra c’è il cadavere di suo padre in un lago di sangue, con la gola squarciata da tre tremende ferite da scure che hanno reciso il fascio neuro vascolare. Antonio comincia ad urlare, a piangere disperatamente, a strapparsi i capelli e battersi il viso con le mani, attirando così molti contadini che lavorano nei paraggi.

Arrivati sul posto i Carabinieri, il Pretore ed il medico legale, verbalizzano che il cadavere è a piedi nudi e addosso ha soltanto un sotto calzone di tela bianca e completamente sbottonato alle brache, cosicché i genitali sono visibili, una camicia con le maniche rimboccate e sopra di questa un panciotto, pure sbottonato. Ma c’è qualcosa che stride con l’orribile stato del cadavere: gli indumenti non presentano alcuna traccia di sangue, contrariamente a come dovrebbe essere.

I Carabinieri cominciano ad indagare e arrestano sette contadini che lavorano nei fondi vicini perché ritengono che la causale dell’omicidio debba ricercarsi in un’improvvisa quistione insorta tra qualcuno di essi e l’ucciso per l’uso abusivo dell’acqua che avrebbe fatto quest’ultimo. Ma in una giornata risulta subito chiaro che i sette con l’omicidio non c’entrano e vengono rilasciati. Piuttosto, adesso vari indizi convergono sul vecchio Basilio Peronace, non solo perché circa sei anni prima egli aveva riportato una condanna a tre anni di reclusione per una grave lesione al collo inferta con scure a certo Madia Angelo a seguito di una quistione avuta con costui pure per l’uso dell’acqua, ma anche perché subito dopo la scoperta del cadavere di Anoia non è accorso con gli altri alle grida del figlio, rifiutandosi di farlo anche dopo l’invito avutone dalla figlia, e perché ha fatto sparire, negando di averla mai posseduta, una grande scure a lama larga e bene affilata, col dorso a forma di martello e col manico lungo, che era stato solito portare, fino a quasi la vigilia del delitto, sospesa ad un braccio e qualche volta ad uso di bastone. In più i Carabinieri vengono a sapere che nella notte in cui è stato commesso il delitto, verso le tre, Peronace è stato visto sulla strada che da contrada Lagani porta ad Isca e quindi di ritorno da questa, per poi ripartire verso il fondo agricolo prima della figlia. Inoltre parrebbe che, sebbene Peronace non avesse interesse diretto a risentirsi dell’uso abusivo dell’acqua fatto in quella notte da Anoia perché il suo fondo si serve di un’altra diramazione sovrastante ed autonoma, pure una quistione per l’uso dell’acqua aveva potuto sorgere tra lui e Anoia quella notte, in relazione al fondo di certa Pupo Adelina, coltivato da Peronace.

In base a questi indizi, Basilio Peronace viene arrestato e interrogato. Nega di essere stato lui ad uccidere Anoia, ma ammette di essere in possesso, oltre ad una piccola scure dalla lama lunga circa sei centimetri che gli viene subito sequestrata, di due scuri più grandi, ma che da qualche mese ha portato ad un fabbro di Isca per farle riparare e questa circostanza viene confermata dal fabbro. Però nega recisamente di avere mai posseduto la scure con lama larga e bene affilata e col dorso a martello. Poi, chiestogli come mai non accorse alle grida di Antonio Anoia, risponde:

Io andai subito dopo le grida del figlio, come gli altri, presso il cadavere.

– Da dove tornavate verso le tre di notte? Da contrada Lagani dopo avere ucciso Anoia?

Ero andato ad irrigare un mio orto nelle vicinanze del paese, in località Calannia. Poi tornai a casa per chiamare mia figlia e recarmi con lei in contrada Lagani, come al solito.

Peronace non ha testimoni che confermino i suoi spostamenti ed il Giudice Istruttore, il 22 febbraio 1932 lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere di omicidio premeditato, ma non per la causale del delitto ipotizzata dalla Procura e dai Carabinieri, ma perché, data l’ubicazione delle tre ferite da scure al collo, delle quali le due più gravi erano cadute quasi sullo stesso punto e data, inoltre, la mancanza di tracce di sangue sul collo della camicia e sul panciotto, ha ucciso Anoia nel sonno per vendetta e a scopo di furto, senza motivare con dati di fatto questa ricostruzione.

Portata la causa in aula il 20 dicembre 1932, la Corte, ritenuto che la causale prospettata dal Giudice Istruttore dell’uccisione nel sonno non ha alcun fondamento sia perché Anoia fu trovato ucciso presso il punto ove egli aveva diramato l’acqua per irrigare il suo fondo, della quale furono anche constatate le tracce evidenti, sia perché il punto del ritrovamento è distante circa una cinquantina di metri dal giaciglio ove Anoia soleva dormire, sia perché, infine, essendo egli caduto per terra subito dopo il primo colpo di scure, ben resta così spiegata la constatata mancanza di sangue sulla parte superiore della camicia e sul panciotto. Ritenuto invece che la causale dell’omicidio sia stata una quistione per l’uso dell’acqua insorta improvvisamente tra Anoia e Peronace, che aveva in quella notte anch’egli bisogno di irrigare il fondo della Pupo Angelina, la Corte è convinta, dal concorso degli indizi raccolti, della colpevolezza dell’imputato e lo condanna, coll’aggravante della recidiva specifica, ad anni 30 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

Ma la difesa di Peronace non ci sta e ricorre in Cassazione ritenendo la motivazione della condanna insufficiente e superficiale ed il Supremo Collegio, il 15 febbraio 1934 accoglie il ricorso e rinvia la causa alla Corte d’Assise di Cosenza per il nuovo giudizio.

Il nuovo dibattimento si svolge nelle udienze dei 27, 28 e 29 novembre 1934 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva innanzi tutto che le risultanze del nuovo dibattimento hanno lasciato, naturalmente, immutati gli elementi di prova generica, salvo qualche decolorazione apportata da alcuni testi su circostanze da costoro già deposte a carico dell’imputato. Ma questi elementi di prova non sono tali, ad avviso della Corte, da autorizzare l’affermazione, con tranquilla coscienza, della colpevolezza dell’imputato in ordine al grave delitto che gli si addebita.

Una interpretazione dei fatti completamente opposta a quella della Corte di Assise di Catanzaro. Ma quali elementi portano la Corte cosentina a questa conclusione?

A prescindere, invero, che alcuni di essi sono del tutto infondati o inconsistenti o niente affatto esclusivi, come sarà dimostrato in seguito, manca innanzitutto, rispetto all’imputato, la prova sicura della sussistenza di una causale qualsiasi che abbia potuto determinarlo alla consumazione di un sì grave delitto perché l’Anoia, o sia stato ucciso nel sonno a scopo di furto o di vendetta, come crede il Giudice Istruttore nella sentenza di rinvio a giudizio, oppure che sia stato ucciso, secondo la più verosimile ipotesi della Corte d’Assise di Catanzaro, a seguito di una quistione improvvisamente insorta tra alcuno di quelli cui in quella notte spettava l’acqua e l’Anoia che aveva fatto uso abusivo dell’acqua, niuna delle due causali può essere, con fondamento di ragione, invocata contro l’imputato Peronace. Non quella del furto perché, a prescindere che tale movente del delitto è stato nettamente escluso dall’Arma dei Carabinieri e dagli stessi familiari dell’ucciso, è risultato comunque che questi, le cui condizioni erano assai umili, non voleva mai portare denaro addosso. Circostanza questa che, meglio che a ogni altro, doveva essere ben nota al Peronace, amico e compaesano dell’Anoia, col quale aveva anche dimistichezza di vita, dato che erano anche vicini di fondo. Ciò senza dire che i precedenti dell’imputato non autorizzano in alcun modo anche il solo sospetto ch’egli fosse capace di uccidere un uomo a scopo di furto. Non ha, poi, consistenza alcuna rispetto a lui la causale della vendetta perché nessuno dei testi escussi, che son quasi tutti legati da vincoli di parentela con la vittima, ha osato spingere la sua animosità, palesemente dimostrata per altri versi contro l’imputato, fino al punto d’affermare che questi avesse mai avuto motivi di rancore contro l’ucciso, mentre anzitutto induce a ritenere che essi vivessero in rapporti di buon vicinato, come è dimostrato dal fatto  che i rispettivi figli, nella mattina in cui fu scoperto il delitto, si accompagnarono nei rispettivi fondi facendo la strada insieme. E non ha, infine, miglior fondamento la causale che si fa consistere in una quistione improvvisamente insorta in quella notte per l’acqua, perché la possibilità di un siffatto conflitto tra loro deve ritenersi esclusa in base alle risultanze del processo, sia in fase istruttoria che dibattimentale, le quali sono su tal punto veramente puntuali e categoriche in quanto già in fase istruttoria era stato accertato che il fondo di Peronace, situato più in alto rispetto a quello di Anoia, era servito da un acquedotto principale e indipendente da quello di cui si serviva la vittima. E anche perché l’ipotesi sostenuta dalla parte civile di una discussione accesasi per l’irrigazione del fondo di Angelina Pupo, contiguo a quello di Anoia, non regge in quanto è risultato sia che la Pupo per l’irrigazione adibiva indifferentemente ora Peronace ora altri braccianti, sia perché è stato provato che in quella notte il fondo della Pupo non aveva bisogno di essere irrigato e che, anzi, l’irrigazione sarebbe stata dannosa ai fagioli, che non erano ancora germogliati.

Smontate le ipotesi accusatorie circa i due moventi in ballo che avrebbero determinato Peronace al delitto, la Corte ritiene che, di conseguenza, resterebbe diminuito anche il valore degli altri indizi raccolti contro l’imputato, ammesso che qualche efficacia essi avessero in realtà e la inconsistenza non ne apparisse ictu oculi dimostrata per altre ragioni che si passano ad esaminare.

E con questa affermazione la Corte approfondisce ciò a cui aveva accennato all’inizio delle sue osservazioni.

Di vero, senza parlare dell’indizio che riflette la capacità specifica dell’imputato a commettere un reato del genere sol perché altra volta egli, pure per una quistione d’acqua, avrebbe ferito di scure un altro contadino – indizio, questo, che come ognuno vede nulla vale per sé solo –, del tutto infondato in punto di fatto è risultato, in primo luogo, l’altro indizio desunto dal contegno tenuto dal Peronace subito dopo la scoperta del delitto poiché, contro la dichiarazione resa da vari testi i quali affermano di non aver visto Peronace accorrere come gli altri presso il cadavere, sta la deposizione, insospettata ed insospettabile, del geometra Bruno Sinopoli, teste del tutto disinteressato, il quale ha dichiarato che Peronace accorse come gli altri a vedere il cadavere. D’altronde, pure ammesso che la sua presenza non fosse stata notata da alcuno, non havvi chi non veda la fragilità di un siffatto indizio, ove si ponga mente che nella folla di circa oltre cento persone, secondo quanto dicono i testi, la identificazione completa di tutti gli intervenuti non era possibile, dato anche l’orgasmo del momento. Del pari inconsistente, come indizio di prova di colpevolezza è, poi, la circostanza, riferita dai Carabinieri nel loro verbale, secondo cui Peronace, nella sera in cui fu tratto in arresto, avrebbe rifiutato il cibo offertogli in caserma, visto che tal rifiuto, se a spiegarlo non bastasse l’asserto dell’imputato ch’egli aveva già cenato prima di essere tradotto in caserma per cui non sentiva bisogno di cibo, ben varrebbe a spiegarlo la depressione fisica e morale che, specialmente per un vecchio come Peronace, succede ad una inopinata detenzione per grave accusa di omicidio. Più apprezzabili, in punto di fatto, sarebbero gli altri due indizi, e cioè quello riflettente il mancato ritrovamento della scure a largo e ben affilato taglio e col dorso a martello, di cui l’imputato sarebbe stato visto in possesso fin quasi alla vigilia del delitto e l’altro concernente il fatto ch’egli, proprio nella notte dal 3 al 4 agosto in cui fu commesso il delitto, e verosimilmente poco dopo che il delitto era stato commesso, fu visto da alcuni testi ritornare dalla contrada Lagani verso il paese. Gli è che, però, le risultanze dell’istruttoria e del dibattimento non hanno per nulla suffragato la reale sussistenza di queste due circostanze. Quanto alla prima di esse, invero, fuor dei parenti dell’ucciso, niun altro teste ha, in primo luogo, potuto confermare che Peronace fosse realmente in possesso della scure. Né, del resto, gli organi inquirenti si son dati premura di indagare, come sarebbe stato loro dovere, se alcuna delle due scuri che l’imputato, già da quattro mesi prima del delitto, aveva dato in riparazione al fabbro Ziffino presentasse per avventura le stesse caratteristiche di quella di cui han parlato i testi, nel qual caso l’indizio concernente la pretesa scomparsa della scure perderebbe d’importanza. Ma, a prescindere da tali rilievi, non si vede la ragione per cui l’imputato avrebbe avuto interesse a far scomparire, se l’avesse posseduta realmente, la scure in questione, dal momento che è certo che essa non poté essere l’arma feritrice perché, secondo la descrizione fattane dai testi, la scure aveva un taglio largo almeno 12 centimetri, mentre la lunghezza delle due più gravi ferite sul collo dell’ucciso – entrambe profondissime – non superava gli 8 centimetri, secondo le constatazioni fatte dai periti settori. Pare quindi chiaro che la scure adoperata dall’assassino doveva avere una larghezza di taglio inferiore a quella dei due profondi squarci prodotti al collo.e per quanto riguarda, infine, l’altro indizio secondo cui Peronace sarebbe stato visto nella notte del delitto ritornare dalla contrada Lagani, ove fu commesso il delitto, la Corte non esita ad affermare che il detto indizio è il frutto di un vero e proprio travisamento delle risultanze processuali, dal momento che tutti e tre i testimoni che incontrarono Peronace in quella notte, hanno in modo concorde e categorico affermato ch’essi videro verso le ore 3 di quella notte l’imputato, non già ritornare dalla contrada Lagani, ma avviarsi verso la stessa provenendo dal paese, il che si accorda perfettamente con quanto ha sempre sostenuto l’imputato, il quale ha narrato che, in quella notte ed a quell’ora in cui si incontrò coi testimoni, egli si recò ad irrigare un orto che possiede in contrada Colamia, nelle vicinanze del paese, donde, a lavoro finito, ritornò in paese a chiamare la figlia per recarsi, come di solito, nel più lontano fondo in contrada Lagani, sito alla marina di Isca. Vero è che, in ordine a tale episodio il Giudice Istruttore e la Corte d’Assise di Catanzaro, come si legge nelle rispettive sentenze, hanno espresso il sospetto che all’imputato possa essere bastato di ritornare sui suoi passi per dare a credere di avviarsi verso la contrada Lagani, mentre invece ne ritornava. Ma una siffatta ipotesi appare veramente gratuita ed inverosimile, non soltanto perché i testi han detto di essersi incontrati coll’imputato mentre questi proveniva dal paese ed in vicinanza del paese stesso, ma anche perché non si vede la ragione per cui egli avrebbe dovuto, alle 3 di notte, dissimulare il suo percorso verso il paese, una volta che questo stesso percorso verso il paese non ebbe ritegno a fare un’ora dopo, cioè verso le 4, allorché vi si recò per chiamare la figlia.

Una severissima censura al modo in cui furono condotte le indagini e a come furono valutati gli indizi dalla Corte di Catanzaro.

Ma ora è tempo di emettere la sentenza:

Apparendo, per tutte le suesposte ragioni, assai poco fondati gl’indizi di colpevolezza raccolti a carico di Peronace Basilio, è di giustizia assolvere il medesimo, quanto meno per insufficienza di prove e ne ordina la scarcerazione, se non detenuto per altra causa.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.