RAPINATORI IN TRASFERTA

Antonio Bellanova e Rocco Venerito, pugliesi, ricercati dalla Polizia per reati commessi a Ceglie Messapica, si rifugiano a Corigliano Calabro dove Bellanova ha un cognato, il compaesano Rocco Amico, e decidono di continuare la loro attività di ladri nella cittadina ionica, nella convinzione che mutando ambiente i loro delitti resteranno impuniti.

Il 16 maggio 1938 i due, mediante chiave falsa, penetrano nella casa colonica di Ferdinando Filippelli in contrada Favella e fanno man bassa di tutto quello che riescono a prendere, cioè 350 lire, salami e indumenti. Ma due vicini, Vincenzo Rua e Vincenzo Braiotta li sorprendono e i due ladri, allo scopo di assicurarsi il possesso delle cose sottratte, non esitano a sparargli contro alcuni colpi di rivoltella e a darsela a gambe levate, ma durante la fuga sono costretti a lasciare un sacco nel quale i Carabinieri trovano solo i salami, oltre, soprattutto, una leva di ferro e numerose chiavi false.

– Sono sicuro che non erano di qui, non ho mai visto prima nessuno dei due – dicono all’unisono Rua e Braiotta, ai quali si aggiungono Alessandro Cimino e Leonardo De Marco quando vengono ascoltati.

Indizi contro di loro al momento non ce ne sono e così riescono a farla franca. Dopo qualche giorno Rocco Amico dice al cognato Bellanova che a pochi metri da casa sua abita da sola nel palazzo di famiglia la signora ultrasettantenne Lucrezia Pugliese e che, quindi, per loro sarà un gioco da ragazzi penetrare di notte nel palazzo e portare via soldi e gioielli in quantità.

Detto fatto. La notte del 22 maggio Bellanova e Venerito, lasciato Rocco Amico a fare il palo, previo scasso di due porte interne, raggiungono la stanza da letto di donna Lucrezia, che dorme tranquilla. Si coprono il viso con due fazzoletti, aprono la porta, la svegliano, le puntano la rivoltella in faccia e le intimano di consegnargli tutto quanto detiene nella cassaforte. Donna Lucrezia oppone un netto rifiuto e i due per vincerne la resistenza, prima le legano strettamente i polsi, poi la picchiano selvaggiamente finché, non potendone più, la povera malcapitata si fa trascinare alla cassaforte, la apre e i due arraffano 8.000 lire in contanti, 20.000 lire in titoli e oggetti preziosi per un valore complessivo di 4.000 lire. Poi spariscono lasciandola a terra tramortita.

La mattina donna Lucrezia riesce ad alzarsi, ad affacciarsi alla finestra e chiedere aiuto. Arriva il medico che le riscontra la perdita di due denti, contusioni ed ecchimosi anche sui polsi dove si vedono le impronte della legatura. Immediatamente dopo arrivano i Carabinieri, ai quali donna Lucrezia racconta la sua brutta avventura patita ad opera di due sconosciuti che parlavano con un accento strano.

Ma chi può avere commesso la rapina? Indizi non ce ne sono su nessuno dei pregiudicati locali e così i Carabinieri cominciano ad interrogare tutte le persone che abitano nei pressi del palazzo Pugliese e si imbattono nella moglie di Rocco Amico la quale, durante la chiacchierata con il Maresciallo, ingenuamente gli dice che stanno ospitando il cognato di suo marito ed un altro che non ricorda come si chiami, entrambi pugliesi. Un campanello d’allarme suona nella testa del Maresciallo: due forestieri come probabilmente forestieri erano i due rapinatori, ospitati in una casa presso l’abitazione della vittima. E se i due pugliesi fossero anche gli autori del furto ai danni di Filippelli? Ce n’è abbastanza per mettere sotto un discreto controllo l’abitazione di Rocco Amico e quando questi con i due compari rientrano, i Carabinieri li prelevano e li portano in caserma per interrogarli.

Il primo a cedere è proprio Rocco Amico, non abituato a resistere agli stringenti interrogatori dei Carabinieri in quanto incensurato e racconta dettagliatamente i fatti.

Bellanova e Venerito, messi alle strette confessano, ma negano di avere minacciato e usato violenza per ottenere quanto si proponevano e negano anche di essere gli autori del furto ai danni di Filippelli.

Il 16 maggio eravamo a Cosenza alla fiera, non siamo stati noi – dice Bellanova e Venerito conferma.

Ma Rua e Braiotta li riconoscono e i due si beccano anche l’imputazione di furto aggravato e minaccia con arma.

Dopo qualche giorno, però, Rocco Amico ha imparato la lezione del carcere e, interrogato dal Giudice Istruttore, ritratta e si dichiara innocente.

Terminata l’istruzione, i tre vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per numerosi capi d’imputazione. La causa si discute il 20 giugno 1939 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: gli imputati hanno negato di aver commesso il furto ai danni di Filippelli Ferdinando, trovandosi, il 16 maggio 1938, a Cosenza, se non che contro queste affermazioni stanno le dichiarazioni dei testi Cimino e De Marco i quali, sia in periodo istruttorio, mediante opportuni atti di ricognizione e di confronto, che al pubblico dibattimento hanno sempre sostenuto che nel giorno e nell’ora del delitto il Bellanova ed il Venerito si aggiravano in prossimità della casa di Filippelli e sta ancora la dichiarazione del teste Rua che riconobbe nel Bellanova uno dei due rapinatori mentre avveniva l’inseguimento a cui egli, con l’altro teste Braiotta, prese parte e fu fatto segno ai colpi di rivoltella contro di loro sparati a scopo d’intimidazione. Di fronte all’eloquenza lampante e decisiva di questi elementi probatori, la Corte ritiene su questo fatto raggiunta pienamente la prova, sulla quale del resto non ha dubitato la difesa. Ma non si è fermata qui l’azione delittuosa degli imputati, ché altro delitto più grave di rapina essi perpetrarono dopo qualche giorno, questa volta col concorso di Amico Rocco, ai danni della vecchia ultrasettantenne Lucrezia Pugliese. Il delitto si poté agevolmente consumare perché Amico Rocco, che abitava in prossimità della casa della rapinata, aveva a bella posta dato ospitalità ai due pericolosi delinquenti, ai quali prestò anche aiuto facendo da palo. Anche Amico ha pienamente confessato al Maresciallo, ma più tardi ha pensato di poter mutare rotta proclamando la sua innocenza. La Corte non gli ha creduto e non gli poteva credere perché quella sua prima confessione non è frutto di fantasia del verbalizzante, trovando conferma nelle indagini svolte, non escluse le dichiarazioni della moglie di Amico. È notevole, anzi, che da tale dichiarazione il Maresciallo prese le mosse per la ricerca delle responsabilità in un fatto che sembrava avvolto nel mistero e col quale poi Amico confessava di avere avuto la sua parte, sia pure secondaria. Stabilita così la linea dei fatti, la Corte riconosce che i due delitti non possano essere considerati come entità autonome, essendo evidente la figura giuridica della continuazione per la unicità del disegno criminoso.

Dopo un lungo ragionamento sulla sussistenza o meno di numerose aggravanti e di qualche attenuante chiesta dalla difesa, la Corte conclude: Venerito e Bellanova, delinquenti incalliti, sapevano organizzare da soli, come in effetti organizzarono, le modalità del piano criminoso servendosi di Rocco Amico, che risulta incensurato, soltanto per un concorso secondario e sembra perciò di giustizia nei suoi confronti applicare l’attenuante della minima partecipazione. La pena, tenuto conto della gravità dei fatti e delle condizioni soggettive dei giudicabili, può essere fissata come segue: per Venerito anni 11 e mesi 6 di reclusione; per Bellanova anni 10 e mesi 10 di reclusione; per Amico anni 2, mesi 9 e giorni di reclusione. Per tutti le spese, i danni e le pene accessorie.[1]

 

[1] ASCZ Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.