Da molti anni Domenico Pizzini e sua moglie Michelina Belmonte hanno in colonia un fondo di proprietà di Rosaria Covello in contrada Creti di Marano Marchesato ed i rapporti tra loro si sono mantenuti normali fino al mese di marzo del 1948, fino a quando, cioè, Emilio Caira, marito della Covello, violentò, deflorandola, la giovinetta Maria, figlia dei coloni. Denunciato da Pizzini, Caira fu arrestato, sottoposto a procedimento penale e condannato a due anni di reclusione, con sentenza confermata anche in appello. Da questo momento Rosaria Covello, più disposta a nutrire rancore verso la povera Pizzini che a deplorarne la disgrazia e cercare di porvi qualche riparo, comincia a dimostrarsi ostile vessando in ogni modo i suoi coloni per mandarli via dal fondo. I Pizzini potrebbero resistere avendo dalla loro parte la legge, ma si impegnano a lasciare il fondo alla fine dell’annata agraria, cioè prima che Caira finisca di scontare la pena. Ottenuto ciò che voleva, Rosaria Covello potrebbe ritenersi soddisfatta e finirla una buona volta di tormentare i coloni, ma continua e permette, in corrispettivo di qualche prestazione ricevutane, al pastore Emilio Ruffolo di pascolare il suo gregge nel fondo tenuto dai Pizzini, danneggiandogli così un campo di erba da fieno.
La mattina del 23 aprile 1949 i coniugi Pizzini e la loro figlia vanno come al solito a lavorare nel fondo e vedono da lontano il gregge di Ruffolo che pascola indisturbato nel fieno e lì vicino la Covello che chiacchiera amichevolmente col pastore. Quando i Pizzini arrivano nel fondo, Michelina e sua figlia rimproverano la Covello ed il pastore in fretta si allontana col gregge. Ne nasce un vivace battibecco e la Covello, anziché giustificarsi, accusa i coloni di essere stati loro stessi a danneggiare il campo di fieno. Per Domenico Pizzini, finora rimasto in silenzio, è troppo e si avventa su Rosaria Covello colpendola ripetutamente alla testa e alle spalle con la zappa che ha in mano, nonostante i disperati tentativi di sua moglie e sua figlia di fermarlo per evitare un’altra tragedia alla famiglia. Ma Domenico è ormai partito per la tangente e si scaglia contro di loro con l’intenzione di uccidere la figlia, ritenuta la causa di tutto ciò che sta accadendo. Per fortuna le due donne riescono a sottrarsi alla sua furia e si mettono in salvo scappando.
Rosaria è a terra gravemente ferita e Domenico Pizzini, mentre si allontana passando a poca distanza dalla sua vittima, si imbatte in Raffaele Mirabelli che, lasciato il lavoro nel suo campo, sta correndo col pastore in soccorso della ferita e gli dice:
– L’ho fatta! Ora debbo uccidere mia figlia e dopo andrò a costituirmi dai Carabinieri di Cerisano!
Rosaria viene soccorsa e subito portata in paese dal medico, che le riscontra varie contusioni con ecchimosi al torace, due ferite lacero – contuse alla testa, delle quali una sulla regione occipitale con completo scollamento del cuoio capelluto e lieve affossamento del piano osseo, mentre l’altra alla regione parietale sinistra con frattura del piano osseo ed affondamento di schegge nelle membrane e la giudica in pericolo di vita. Ma Rosaria è di fibra forte e se la cava in una quarantina di giorni. Le resta, però, una sindrome da compressione, probabilmente inguaribile senza intervento operatorio.
Domenico Pizzini si costituisce due giorni dopo e racconta la sua versione dei fatti:
– Non posso negare di aver ferito Rosaria Covello, ma ho fatto ciò involontariamente mentre agitavo la zappa per difendermi da lei che, armata di un coltello, mi voleva colpire…
Gli inquirenti sanno che non può essere andata così perché hanno già ascoltato il pastore Emilio Ruffolo ed il contadino Raffaele Mirabelli, il quale gli ha anche riferito le parole che l’imputato gli ha rivolto, il che equivale ad un’ammissione di averla volontariamente voluta colpire. Dopo qualche giorno anche Rosaria Covello, che si sta pian piano riprendendo, racconta la sua versione, dando nuovamente prova del suo odio contro la famiglia Pizzini:
– Mi ha colpito volontariamente e lo hanno aiutato la moglie e la figlia!
Michelina e Maria vengono arrestate, ma è subito chiaro che non c’entrano niente, anzi hanno fatto di tutto per evitare che Rosaria venisse colpita, e vengono scarcerate e prosciolte da ogni accusa. Ad affrontare il giudizio davanti alla Corte d’Assise di Cosenza è solo Domenico Pizzini, che deve rispondere di tentato omicidio.
La causa si discute il 2 maggio 1951 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, osserva: la colpevolezza dell’imputato è chiara, dunque deve ritenersi che abbia volontariamente aggredito ripetutamente e violentemente colpito la Covello inerme col dorso della zappa, finché la lasciò esanime per terra, reputando di averla uccisa. La reiterazione dei colpi, i punti a cui furono rivolti, le condizioni in cui la donna fu lasciata quando il Pizzini desistette dal colpirla, l’opinione da lui espressa al teste Mirabelli subito dopo, la gravità delle causali dimostrano anche la volontà omicida. Ma è giusto concedere al colpevole, uomo incensurato e laborioso, spinto al delitto dal comportamento gravemente offensivo ed ingiurioso della Covello, le attenuanti generiche e l’attenuante di avere agito in stato d’ira determinato da fatto ingiusto dell’offeso. Pertanto la pena da infliggergli può essere equamente fissata nella misura di anni 4 di reclusione. Inoltre dichiara condonati anni 2 della pena sotto le comminatorie di legge.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.