È il 24 dicembre 1909, verso le sette di sera Francesco Saporito, sua moglie Giuseppina Lenti ed i loro figli sono a casa in contrada Parise di Fiumefreddo Bruzio.
Vincenzo Palummo, cugino carnale di Francesco, sua moglie e suo fratello, che abitano a fianco dei Saporito, sono tornati a casa dopo aver festeggiato la vigilia di Natale nella casa paterna, dove si è riunita tutta la famiglia. Vincenzo, dopo aver governato il suo mulo in un basso di proprietà del cugino, chiama la moglie ed il fratello e tutti e tre vanno a far visita ai Saporito per scambiare gli auguri di Natale.
Giuseppina, per la ricorrenza, prende un mellone d’inverno, delle noci, delle castagne, delle fritture solite di queste feste e del vino offrendoli agli ospiti e passano un’oretta chiacchierando, poi i Palummo salutano, fanno di nuovo gli auguri e tornano a casa. Vincenzo però ha dimenticato la sua pipa a casa del cugino, torna indietro per riprenderla e quando è ai piedi della scala lo chiama per farsi aprire.
Francesco gli risponde che sta scendendo a portargliela ed in maniche di camicia sopra un pantalone chiaro esce davanti casa e gli dà la pipa, poi guarda la bellissima luna quasi piena che illumina il paesaggio. Vincenzo, dopo avere preso la pipa, lo saluta e risale la scala esterna che porta a casa sua. Francesco comincia a salire a casa proprio nel momento in cui sopraggiunge una comitiva di persone con un organetto. Sono altri parenti ed amici che sono in giro a portare la strina di Natale. Francesco torna sui suoi passi e si ferma all’imbocco della stradina che dal fabbricato, dopo una quindicina di metri in ripida pendenza, imbocca la mulattiera che porta in paese.
– Prego, favorite a casa mia! – li invita tutto giulivo e saltellante, mentre la compagnia canta la strina.
Al suono dell’organetto scende anche Giuseppina e anche lei ripete l’invito:
– Sì, favorite a casa nostra!
In questo momento, però, Vincenzo si affaccia da un finestrino di casa e urla:
– Figliuoli, badate che qui sotto non voglio sentir suoni! – e subito fa partire un colpo di rivoltella che sibila sulla testa dei suonatori, andandosi a conficcare nel muro di una casa ad una ventina di metri di distanza.
– Vincenzo, che fai? Non vedi che sono tutti tuoi fratelli? – urla suo fratello Francesco, che fa parte dei suonatori.
Francesco Saporito, che è quasi di fronte al finestrino, dice al cugino:
– Che fai? Attento che ci ammazzi!
Per tutta risposta Vincenzo spara ancora due volte ad altezza d’uomo e colpisce Francesco tra la clavicola sinistra e lo sterno, facendolo stramazzare al suolo esanime, poi entra in casa, chiude il finestrino e da questo momento di lui si perdono le tracce.
Il sangue zampilla dal foro sul petto di Francesco seguendo i battiti del cuore che si affievoliscono secondo dopo secondo. I suonatori lo prendono e lo portano a casa, giusto in tempo di fargli esalare l’ultimo respiro disteso sul letto, con Giuseppina ed i figli che gli si buttano sopra piangendo disperatamente.
Due vicini di casa corrono in paese ad avvisare i Carabinieri ed il Maresciallo Enrico Andreani con i suoi uomini si precipita sul posto per iniziare le indagini ed arrestare l’assassino, che però non è né a casa sua e né dai genitori.
È un delitto inspiegabile perché, come abbiamo visto e come accerta anche il Maresciallo, tra l’omicida e l’ucciso non esisteva ombra di rancore poiché pochi istanti prima del fatto le due famiglie trascorsero circa un’ora in buona compagnia.
Una ipotesi potrebbe essere quella che riconduce al periodo di lutto in casa di Vincenzo Palummo per la improvvisa morte, nove mesi prima, di una sua cognata. Potrebbe, ma sembra troppo poco. Una spiegazione, terribile, la dà Giuseppina Lenti, vedova Saporito quando viene ascoltata:
– Secondo me egli non voleva i suoni per prepotenza più che per altro. È vero che nove mesi dietro gli era morta una cognata a Longobardi, ma egli non portava nemmeno il lutto!
– E per questo avrebbe sparato a vostro marito?
– Vincenzo è stato sempre poco di buono e prepotente; più volte minacciò diverse persone col revolver: un venti giorni dietro allo zio Raffaele Palummo e, nell’epoca della vendemmia scorsa, a mio cognato Giovanbattista, al punto che il povero mio marito avea dovuto disarmarlo…
– Ma a casa vostra aveva bevuto molto? Era ubriaco?
– In casa mia poté bere un ottavo di litro di vino perché poco più di mezzo litro fu diviso tra due donne, tre uomini ed un ragazzo. Egli era tornato dalla casa paterna dove avea mangiato ed era completamente serio.
– E la moglie? Sapete se ha fatto qualcosa per trattenerlo?
– La moglie era al suo fianco e non mi accorsi punto se avesse cercato di trattenere il marito, tantomeno avvertì gli altri del pericolo che correvano…
Intanto arrivano i risultati dell’autopsia che stabiliscono la causa esatta della morte, determinata esclusivamente e solamente e quasi istantaneamente da grave emorragia interna per rottura dell’arco dell’aorta e dell’aorta discendente in seguito a colpo d’arma da fuoco (revolver), di cui è prova il proiettile rinvenuto nella cavità pleurica di sinistra del cadavere. Il colpo dovette essere esploso a breve distanza e da buona arma.
Arma che l’omicida ha portato con sé, ma di cui si può stabilire, attraverso una perizia, il calibro attraverso il proiettile, deformato per aver urtato violentemente contro parti durissime come ossa: calibro 32, corrispondente al 7 ½ comunemente inteso. Inoltre il perito afferma che l’arma usata dovette essere assolutamente buona, come tutte le armi americane di questo calibro.
Il giorno di Santo Stefano, davanti al fabbricato dove è avvenuto l’omicidio, il Pretore delegato alle indagini ha davanti a sé una lunga fila di testimoni da ascoltare per cercare di capire il motivo per cui Vincenzo Palummo ha ucciso suo cugino. Il primo a parlare è Raffaele Molinaro, colui il quale suonava l’organetto:
– Il 24 a sera, preso il mio organetto, mi avviai insieme ai miei amici Gennaro Molinari, Vincenzo Saporito, Giovanbattista Mazza, Francesco Molinari e mio fratello Francesco alla volta della casa di Domenico Palummo, padre dell’uccisore, per adempire alla promessa fatta al figlio Francesco di andare a suonare quella sera a casa sua. Quando giungemmo al punto ove dalla mulattiera si diparte la via di accesso alle abitazioni di Francesco Saporito e di Vincenzo Palummo, ci venne incontro Francesco Palummo, che non so come si trovava a casa del fratello, dicendo che ci aveva atteso tanto, ma che s’era sempre in tempo di andare a divertirci. Contemporaneamente venne pure, tutto giulivo e saltellante, Francesco Saporito il quale lo stesso giorno mi aveva pregato di recarmi da lui a suonare, a cui non avevo però fatto alcuna promessa perché non sapevo se i miei lo avrebbero consentito, avendo fino a quel tempo serbato il lutto per uno stretto congiunto defunto. Nel vedermi, Saporito ripetette l’invito e simile invito faceva la moglie sua. Io intanto suonavo assiso sulla stradetta, mentre gli amici sulla mulattiera comunale saltellavano al mio suono. M’ero appena alzato all’invito di Saporito per contentarlo, quando vidi dal finestrino di casa Palummo un lampo e subito intesi un colpo di rivoltella. Francesco Saporito subito esclamò “Vincenzo, che fai?”, ma prima che terminasse di profferire queste parole intesi un secondo colpo e, mentre come gli altri cercai di mettermi al di sotto del ciglione per evitare di essere colpito, vidi stramazzare al suolo il povero Saporito. Visto che colpi non ne venivano più, corremmo in aiuto di Saporito, che più non parlò e spirò appena lo poggiammo sul suo letto…
– Non avete sentito quello che disse Vincenzo Palummo prima di sparare? E non avete sentito tre colpi?
– Siccome suonavo non intesi che cosa avesse detto Vincenzo prima o durante l’esplosione dei colpi, che io intesi in numero di due, ma che alcuni compagni e la vedova dissero che furono tre…
– Secondo voi Palummo sparò per uccidere il cugino? Poteva distinguerlo bene?
– In cielo splendeva la luna quasi piena e per giunta Saporito era in maniche di camicia bianca e con pantaloni bianchi… però non so precisare se Palummo volesse colpire proprio il cugino o indistintamente la comitiva.
– Sapete se Palummo Vincenzo era a lutto?
– So che sua moglie aveva perduto, qualche tempo fa una sorella, ma non mi pare che egli serbasse più il lutto perché so che sere prima aveva invitato degli amici a bere fuori casa e un’altra sera ballò in casa sua…
– Che tipo è Palummo?
– Sentii dire che una volta sparò a Giovanni Malito ed un’altra volta, recentemente, avrebbe minacciato Giovanbattista Saporito…
E Giovanbattista Saporito, uno dei fratelli della vittima, viene chiamato a confermare, o meno, la minaccia fattagli da Vincenzo Palummo:
– È di carattere risentito. Seppi di beghe con Giovanni Malito, con lo zio Raffaele Palummo e, nell’ottobre scorso, sol perché gli osservai che non doveva prendersela con un ragazzo, si rivolse male a me, impugnando una rivoltella americana…
Giovanni Malito e lo zio Raffaele confermano le minacce ricevute da Vincenzo e tutti gli altri testimoni raccontano il fatto come lo ha descritto Raffaele Molinaro.
Ma il problema, nonostante le ricerche e le perquisizioni che i Carabinieri fanno senza sosta, è sempre lo stesso: non si riesce ad arrestare Vincenzo Palummo e questo scatena le ire del Giudice Istruttore che scrive una lettera di fuoco al Comandante Provinciale dei Carabinieri ed al Commissario di Pubblica Sicurezza di Cosenza:
A 25 dicembre 1909 fu spiccato mandato di cattura contro Palummo Vincenzo, responsabile di omicidio in persona di Saporito Francesco, reato commesso in Fiumefreddo Bruzio la sera del giorno antecedente. Trattasi di reato sfornito di qualsiasi causale ed è assolutamente deplorevole che né nel primo momento, né in seguito, si sia riusciti a catturare l’autore di così efferato delitto.
Voglia la S.V. eccitare lo zelo degli agenti suoi dipendenti perché non resti impunito il Palummo, se non è sinora riuscito a riparare all’estero indisturbato.
Il Commissario di Pubblica Sicurezza risponde immediatamente:
La cattura del Palummo è difficile perché i campagnoli abitanti nelle contrade di Fiumefreddo Bruzio, ove egli si aggira, anziché interessarsi per assicurarlo alla Giustizia, celatamente lo favoriscono e non forniscono alcun indizio neanche alla parte lesa. Qualcuno vuol far credere che il Palummo sia stato visto a Napoli per emigrare in America, ma nulla di positivo si è potuto assodare al riguardo. Ad ogni modo è stato disposto un continuo e speciale servizio da parte dell’Arma dei Carabinieri per riuscire a catturare il detto latitante.
Più sintetica è la risposta del Maggiore dei Carabinieri:
Partecipasi che nessun indizio si è potuto raccogliere sinora in merito al catturando in oggetto. La parte lesa è convinta che egli sia riuscito a nascondersi in qualche sito di questo territorio, mentre dalla voce pubblica è ritenuto emigrato in America. Tuttavia le ricerche saranno proseguite con speciale impegno.
Ma per quanto l’impegno promesso sia mantenuto, i mesi passano e Vincenzo Palummo non si trova. Poi l’11 aprile 1910 la Camera di Consiglio presso il Tribunale di Cosenza rompe gli indugi e trasmette gli atti al Procuratore Generale del re a Catanzaro, che chiede alla Sezione d’Accusa di rinviare l’imputato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per essere giudicato in contumacia. La richiesta viene accolta il 18 maggio 1910 e la causa viene messa a ruolo per 5 dicembre del 1910.
Il Collegio Giudicante, ascoltati i testimoni e le parti, assodata la responsabilità dell’imputato latitante, osserva: ritenuto in diritto che la reiterazione dei colpi, la breve distanza, la direzione di quello che attinse il Saporito, l’indole prepotente del Palummo, dimostrano in costui il fine di uccidere, onde il fatto di che trattasi integra il reato di omicidio volontario, per il quale si stima applicare il massimo della pena, cioè anni 21 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.
Ma si riuscirà a stanarlo? È sempre questo il problema.
No, Vincenzo Palummo resta latitante almeno fino al 30 giugno 1930, data in cui il Procuratore del re di Cosenza scrive alla Corte d’Assise di Cosenza:
Visti gli atti processuali a carico di Palummo Vincenzo, poiché nella specie trattasi di processo contumaciale e quindi di azione penale superando la condanna i 5 anni di reclusione; poiché la sentenza è stata notificata il 25 gennaio 1911 e il 31 gennaio del detto anno; considerato che sono trascorsi i termini di cui all’art. 91 n. 2 del Codice di Procedura penale, chiede che l’Onorevole Corte d’Assise voglia dichiarare prescritta l’azione penale nei confronti del Palummo, revocando i relativi mandati di cattura emessi a suo carico.[1]
Aveva ragione chi sosteneva che Vincenzo Palummo era emigrato clandestinamente e indisturbato in America. Ma poteva una persona andarsene così, da un giorno all’altro al di là dell’oceano? Sì, se aveva i soldi contanti necessari per comprare un passaporto. D’altra parte ci sono decine di altri casi documentati che lo certificano.
[1] ASCS, Processi Penali.