A Sant’Ippolito, frazione di Cosenza, Gaetano Filice si innamora di Graziella Gentile e la richiede in sposa. I genitori della ragazza, pur sapendo che i genitori di Gaetano sono fermamente contrari, con deplorevole leggerezza accolgono favorevolmente la proposta e, cosa inaudita, consentono a Gaetano di frequentare la loro casa.
Intanto Gaetano deve partire per il servizio militare e durante la sua assenza i due fidanzati si scambiano lettere d’amore. Anche i genitori di Graziella, sia perché si sono già affezionati a Gaetano e sia per il timore che la lontananza possa fargli cambiare idea, gli scrivono spesso e spesso gli mandano anche delle piccole somme di denaro.
Nel mese di settembre del 1933 Gaetano viene congedato e torna in paese continuando a frequentare la casa della fidanzata, ma dopo qualche mese, dando doverosamente ascolto ai consigli dei suoi genitori, decide di rompere il fidanzamento nonostante i genitori di Graziella gli confermino la promessa di dare in dote alla figlia le seimila lire che il giovane aveva richiesto. Gaetano però persiste nella decisione di rompere il fidanzamento e la cosa accende di sdegno gli ormai ex suoceri che però, per l’amore verso la numerosa loro prole e forse anche perché sono ben consapevoli del grave errore in cui sono incorsi permettendo a Gaetano di frequentare la loro casa contro il volere dei suoi genitori, invece di nutrire propositi di vendetta si limitano a chiedere indietro a Gaetano le seicento lire che gli hanno spedito durante il servizio militare, richiesta che viene parzialmente accettata dal padre del giovanotto, ma non soddisfatta forse anche a causa delle sue miserevoli condizioni economiche.
Evidentemente, sia per la rottura del fidanzamento, che per il mancato rimborso delle seicento lire, da questo momento tra le due famiglie comincia a serpeggiare un sordo rancore, acuito nei Gentile, giorno dopo giorno, dal comportamento di Gaetano Filice che, lungi dal tenere un contegno riservato e prudente, mantiene verso i genitori di Graziella, ogni qualvolta aveva l’occasione di incontrarli sulla pubblica via, un contegno irriverente e tale da ridestare nell’animo loro il dolore per il torto subito.
Sono le quattro e mezza pomeridiane dell’8 maggio 1934. Gaetano Filice sta passando davanti alla bottega di Pietro Gentile, il padre di Graziella, quando uno dei bambini di quest’ultimo lo vede, esce dalla bottega e gli rivolge qualche parola scorretta e se ne va.
– Finiscila perché se non la smetti ti tiro un calcio e ti faccio uscire la guallara a te e a tua madre! – gli risponde, infastidito.
Queste parole vengono sentite da un nipote di Pietro Gentile che corre ad avvertire lo zio, impegnato a giocare a carte con alcuni amici nella sua bottega, e per rincarare la dose gli dice:
– Che stai a fare? Perché non vai ad ammazzare questa gente? Io me ne mangerei il cuore!
Preso dal gioco Pietro non si muove, forse non ha nemmeno capito a cosa il nipote si stesse riferendo, ma appena finisce di giocare raggiunge suo nipote e suo figlio e si fa raccontare l’accaduto, cambiando l’espressione del viso, adesso visibilmente alterato ed in questo stato si mette a camminare avanti e indietro nella piazza del paese, vicinissima alla sua abitazione. Poco dopo sopraggiunge Gaetano e Pietro lo ferma con modi bruschi per chiedergli conto delle parole dette al figlio. Ne nasce un vivace diverbio, ma Gaetano, visto che in piazza stanno arrivando il nipote di Pietro armato di un grosso bastone, la moglie ed i figli del suo avversario, per sottrarsi al pericolo che lo sovrasta scappa ma dopo pochi metri inciampa cadendo a terra, così i Gentile gli sono addosso e Pietro, con un trincetto da calzolaio di cui si è armato, lo colpisce ripetutamente senza però riuscire a ferirlo perché le persone presenti alla lite sono pronti a deviargli il braccio armato e poi a trattenerlo. È andata bene, nessuno si è fatto male, ma Gaetano, dopo pochi minuti pensa che sia il caso di andare al posto telefonico pubblico per avvisare i Carabinieri del tentato ferimento e per farlo deve necessariamente passare davanti alla casa dei Gentile; Ippolito Rocchetti, l’uomo che poco prima si era dato più da fare per trattenere Pietro Gentile, temendo che la lite possa riaccendersi, cerca di dissuaderlo, ma Gaetano non se ne dà per inteso e, avviandosi, urla:
– Me ne frego dei Gentile!
Quando passa davanti alla casa dei Gentile, Pietro e sua moglie Giuseppina Coscarella lo vedono. La donna, indispettita per il contegno spavaldo manifestato da Raffaele, gli si lancia addosso afferrandolo per la testa e ingaggiando una furibonda zuffa con l’avversario. Intanto sopraggiunge Pietro Gentile con il suo trincetto in mano e questa volta non c’è nessuno a fermargli il braccio.
Tre colpi alla parte sinistra del torace, tutti penetranti in cavità. Gaetano boccheggia, è grave e viene immediatamente portato in ospedale, dove dopo giorni di agonia, il 12 maggio, purtroppo muore.
– Andiamocene perché l’ho finito! – dice Pietro, ansimando, alla moglie, che ha le mani tra i capelli e, come inebetita continua a ripetere
– Sciuallu miu c’haju patutu! – poi Pietro l’afferra per un braccio e la trascina via.
I Carabinieri, raccolte alcune deposizioni, arrestano Pietro Gentile con l’accusa di omicidio volontario, sua moglie Giuseppina Coscarella e suo nipote Luigi con l’accusa di concorso in omicidio volontario.
– Io mi ero rassegnato alla sorte toccata a mia figlia in seguito alla rottura del progettato matrimonio e avevo semplicemente preteso la restituzione delle somme date al giovane Filice; il padre me ne aveva promesso una parte ma non mi ha dato niente e quando Gaetano vedeva mia figlia sulla via, era così irriverente che mi addoloravo per quanto ci avevano fatto subire e ho sempre ingoiato il rospo. Stamattina ha offeso e minacciato mia moglie e mio figlio e dopo avermi provocato gli ho dato tre colpi di trincetto, che, lo ammetto, portavo abusivamente – Pietro Gentile cerca così di giustificarsi.
– Io sono innocente, sono intervenuta nella rissa all’unico fine di fare da paciere e di evitare le tristi conseguenze che ne derivarono – dice Giuseppina.
– Io non ero presente quando accadde l’omicidio, sono innocente! – giura Luigi e ha ragione, come deve riconoscere il Giudice Istruttore che lo proscioglie, sia pure per insufficienza di prove.
Ad affrontare il processo in aula saranno Pietro Gentile, che deve rispondere di omicidio volontario e porto di trincetto senza giustificato motivo, e sua moglie Giuseppina Coscarella, che deve rispondere di concorso in omicidio volontario.
La causa si discute il 21 novembre 1934 davanti alla Corte d’Assise di Cosenza che ascolta le richieste della difesa tendenti ad ottenere la concessione delle attenuanti di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale e dello stato d’ira provocato da fatto ingiusto della vittima. Poi, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, accertato che a causare la morte di Gaetano Filice è stato Pietro Gentile per la sua confessione, oltre che per le univoche deposizioni dei testimoni oculari, la Corte osserva: l’indagine della Corte è limitata a stabilire se il Gentile, nel vibrare i tre colpi di trincetto al suo avversario abbia avuto la volontà e la coscienza di cagionare la di costui morte ovvero di lederne soltanto l’integrità fisica e se, nell’affermativa di una qualsiasi delle predette due ipotesi, competano a suo favore le attenuanti invocate dai difensori. Ora, della volontà omicida non può menomamente dubitarsi, desumendosi essa, oltre che dalla specie dell’arma adoperata, della reiterazione dei colpi inferti in parti vitali del corpo, dalle gravi cause che lo spinsero al delitto, anche, e soprattutto, dalle parole che il Gentile rivolse alla moglie immediatamente dopo la consumazione del delitto: “andiamocene perché l’ho finito”. In ordine, poi, alle attenuanti richieste, la Corte, in via preliminare osserva che, dovendosi in base alle risultanze processuali concedersi al Gentile quella della provocazione essendo rimasto accertato che l’ucciso Filice, troncate le sue relazioni amorose con la giovane Graziella, serbò verso i genitori della ex fidanzata un contegno irriverente e tale da ridestare nell’animo loro il dolore per il torto subito; il giorno del fatto, dando eccessiva importanza a qualche frizzo lanciatogli dal decenne figlio dei giudicabili, rivolse all’indirizzo di costui delle gravi ingiurie e minacce; che, infine, lo stesso ucciso immediatamente dopo la prima rissa avvenuta tra lui e l’imputato, rimasto fortunosamente illeso, volle, resistendo alle vive preghiere dei suoi amici e dando prova di riprovevole tracotanza, transitare per la via ove è sita la casa degli imputati e rendere così possibile il riaccendere della rissa nella quale fu mortalmente ferito.
Poi passa ad esaminare la seconda attenuante richiesta: per contrario non può concedersi l’altra attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale. La difesa ha dedotto che per effetto dell’improvvisa ed ingiustificata rottura del fidanzamento tra l’ucciso e la Graziella rimasero non solo sensibilmente scossi la reputazione e l’onore della famiglia, ma anche seriamente compromesso l’avvenire della giovane, tanto più che il fidanzato per diversi mesi aveva frequentato la di lui casa e che, avendo l’imputato agito in preda al dolore suscitato nell’animo suo dalla grave offesa patita e dal danno irreparabile risentito dalla propria figlia, sia meritevole dell’attenuante richiesta. La Corte, però, ritiene giusto respingere siffatta richiesta non solo perché l’imputato nel suo interrogatorio ha esplicitamente dichiarato che si era rassegnato alla sorte toccata alla figlia in seguito alla rottura del progettato matrimonio e che aveva semplicemente preteso la restituzione delle somme date al giovane Filice, ma altresì perché, se indubbiamente riprovevole fu il comportamento dell’ucciso il quale, resistendo agli amorevoli consigli ed alle giuste pretese dei suoi genitori, volle scambiare ad ogni costo promessa di matrimonio con Graziella Gentile, ne frequentò la casa per diversi mesi e poi, facendo tardivo ossequio alla volontà dei suoi genitori, recedette dal proposito di sposarla, dall’altro canto non meno biasimevole fu la condotta dell’imputato il quale, conoscendo il dissenso dei coniugi Filice al matrimonio del loro figliuolo, anziché farsi vincere dall’egoistico desiderio di maritare la propria figlia avrebbe dovuto, come gli consigliava la più elementare prudenza e doverosamente, rispettando la volontà dei genitori dell’ucciso, respingere la richiesta fattagli, evitando così le dolorose conseguenze derivate dal mancato matrimonio, conseguenze a lui in grandissima parte imputabili e che non può, quindi, utilmente invocare per attenuare la sua responsabilità.
Chiariti tutti gli aspetti, la Corte passa a determinare la pena da infliggere a Pietro Gentile, che è anche responsabile del porto di trincetto senza giustificato motivo: avuto riguardo alle modalità del fatto delittuoso, alla causale di esso, ai precedenti incensurati dell’imputato ed alle sue condizioni familiari e sociali, stimasi equo infliggere per l’omicidio volontario anni 21 di reclusione, riducendoli ad anni 14 per la concessa attenuante della provocazione e per il porto di trincetto mesi 1 di arresto, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie. Non opponendosi i suoi precedenti penali, la Corte deve dichiarare condonati anni 2 della pena in virtù del R.D. 25 settembre 1934.
Ma c’è ancora da esaminare la posizione di Giuseppina Coscarella. Secondo la Corte c’è il dubbio sulla sua partecipazione materiale al reato perché, mentre due testimoni deposero che stando affacciati dalla finestra della loro casa, alquanto lontana dal luogo dove fu commesso il delitto, videro l’imputata che tratteneva fermo per la gola Gaetano Filice e suo marito che lo colpiva col trincetto, altri due testimoni hanno escluso categoricamente che Giuseppina trattenne la vittima, agevolando il marito nell’esecuzione del delitto. Ma data e non concessa la partecipazione materiale della Coscarella al delitto, tuttavia resta dubbia la sua partecipazione morale al delitto. La Corte spiega questa affermazione: non si ha la prova certa e sicura ch’ella avesse volontariamente e consapevolmente concorso al delitto e tale dubbio è generato sia dalla fulmineità con cui il delitto fu commesso, sia dalla posizione in cui ella si trovava, davanti al feritore, giacché, secondo le affermazioni dei due primi testimoni, ella mentre tratteneva il Filice per la gola voltava le spalle al marito e quindi era nella quasi impossibilità di constatare che costui ferisse col trincetto l’avversario e sia, infine, dal contegno vivamente sorpreso e addolorato non appena si avvide che il Filice stramazzò per terra gravemente ferito, mettendosi le mani nei capelli ed esclamando: “sciuallu miu c’haju patutu!”. Per queste ragioni Giuseppina Coscarella va assolta per insufficienza di prove.[1]
[1] ASCZ, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.