IL LADRO DI PECORE

Nel mese di giugno del 1939, in contrada Zomaro di Gerace Superiore in provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Raso subisce il furto, ad opera di ignoti, di due pecore e tre agnelloni. Raso si mette alla ricerca degli animali nei fondi agricoli circostanti e viene a sapere che nei giorni immediatamente precedenti al furto il pastore Salvatore Bruzzese, riconosciuto con certezza perché  basso di statura e cieco da un occhio, è stato visto aggirarsi in atteggiamento sospetto nei pressi del suo gregge e così non ci mette molto a rintracciare il gregge di Bruzzese, nel quale, da alcuni contrassegni particolari ed alcune impronte dovute ad applicazione di ferro rovente, riconosce una delle sue due pecore.

– Quella pecora è mia, ladro! – gli urla Raso, che continua – Dove sono gli altri animali?

Bruzzese, colto alla sprovvista, non obietta nulla, ma poi, anche se un po’ imbarazzato, ribatte:

– Non l’ho rubata, me l’ha venduta il vostro guardiano Antonino Avenoso… degli altri animali non ne so niente…

Interpellato dal suo padrone, il giovane Avenoso nega recisamente di aver venduto la pecora a Bruzzese, ma Raso non è ancora contento e per mettere definitivamente con le spalle al muro Bruzzese, porta Avenoso alla sua presenza ed il giovanetto, con franchezza e fermezza, gli ripete in faccia che non gli ha venduto niente. La posizione di Bruzzese si fa difficile e Raso lo incalza:

– Adesso vado dai Carabinieri e ti denuncio per questa pecora e per gli altri animali!

– Ma che ci vai a fare? Aggiustiamoci tra noi. Ti do trecento lire per tutti gli animali!

Raso per il momento tergiversa perché pensa sia giusto avvisare i Carabinieri della cosa e va a parlare col Maresciallo Saverio Laganà, comandante la Squadra Mobile di Taurianova, chiedendogli le direttive per la condotta da seguire.

– Raso, in questo momento sono occupato nelle ricerche per un omicidio poco prima commesso e non mi posso interessare delle tue pecore, ma intanto faresti bene a ricevere provvisoriamente le trecento lire, con l’intesa che appena i miei uomini si liberano li mando a risolvere la tua questione.

Raso segue il consiglio di Laganà, va a trovare Bruzzese e gli dice che accetta la proposta fattagli e Bruzzese gli manda la cifra pattuita tramite i suoi fratelli.

Laganà mantiene la promessa fatta e non molti giorni dopo ordina all’Appuntato Fortunato Fogliaro ed al Carabiniere Salvatore Chiodo di accertare le singole circostanze relative al furto e riferirgli l’esito delle ricerche.

Così, la mattina del 24 settembre 1939, i due militari, vestiti in borghese (Fogliaro porta con sé anche il suo fucile) vanno in contrada Malafrenà e si presentano a Salvatore Bruzzese come macellai:

Andiamo in cerca di pastori disposti a venderci qualche animale minuto.

– Vi posso aiutare. Vi accompagno da un mio parente, Stefano Raschellà, che appunto vuole disfarsi di alcune pecore.

– Perfetto, andiamo! – gli fa Fogliaro fregandosi le mani in segno di soddisfazione.

Quando, però, i tre arrivano presso uno stagnone in contrada Malafrenà, Bruzzese si accorge che uno dei sedicenti macellai porta addosso una catenella di ferro da detenuti e capisce che i due non sono macellai ma Carabinieri che stanno per arrestarlo a causa del furto di pecore. Fogliaro, da parte sua, si è accorto di un repentino cambio di espressione sul viso di Bruzzese e ha capito che si è accorto di qualcosa, così quando il ladro accenna a scappare, è lesto a bloccarlo. Bruzzese capisce che per lui è finita e tenta la carta della disperazione: si mette ad urlare invocando l’intervento dei contadini che, lavorando nelle vicinanze e conoscendolo alla voce, sarebbero certamente accorsi per vedere cosa sta accadendo e nella confusione che si sarebbe creata avrebbe avuto modo di liberarsi e scappare.

Alcuni contadini infatti si avvicinano minacciosi, ma il Carabiniere Chiodo estrae la sua rivoltella e li tiene a bada, mentre Fogliaro e Bruzzese lottano furiosamente per obiettivi opposti. Ad un certo punto Bruzzese con una strattonata si libera dalle mani di Fogliaro e scappa. L’Appuntato si mette all’inseguimento ma scivola e cade ma nel cadere il fucile urta contro una pietra infissa nell’argine dello stagnone e, disgraziatamente, parte un colpo.

La scarica di grossi pallini forma un corpo unico per l’esplosione avvenuta a bruciapelo e penetra nella cavità orale di Fogliaro, gli spappola il cervello e infine perfora la base del cranio disperdendosi tutto intorno. Il povero Fogliaro non si è nemmeno accorto di morire.

Adesso accanto allo stagnone c’è una confusione incredibile: chi corre per acciuffare Bruzzese, chi scappa terrorizzato e chi, non avendo ancora capito che i due sconosciuti sono Carabinieri, aggredisce Chiodo, che se la cava con un occhio nero.

Arrestato, Bruzzese si difende:

Sono innocente tanto del furto delle pecore, che della resistenza ai Carabinieri e della morte dell’Appuntato. È stata una pura casualità l’esplosione del suo fucile, avvenuta senza alcun rapporto con gli atti che mi attribuite.

Le deposizioni di diversi testimoni e soprattutto quella del Carabiniere Chiodo lo smentiscono ed il primo luglio 1940, il Giudice Istruttore di Locri lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Locri per rispondere di: a) omicidio preterintenzionale in persona di Fogliaro Fortunato, commettendo il delitto in persona di un pubblico ufficiale (Appuntanto dei RR.CC.) nell’esercizio ed a causa delle sue funzioni e per procurare a sé l’impunità del delitto di furto. b) Violenza e resistenza in persona di Fogliaro Fortunato (Appuntato dei RR.CC) e di Chiodo Salvatore (RR.CC) per essersi opposto a costoro mentre, nell’esercizio delle loro funzioni, cercavano di arrestarlo quale autore di un furto. c) lesioni personali volontarie in persona del Carabiniere Chiodo Salvatore, che guarì in giorni 15, commettendo il fatto contro un pubblico ufficiale nell’atto ed a causa delle sue funzioni e per conseguire l’impunità dal reato di furto. In Mammola il 24/09/1939. Inoltre di furto aggravato di cinque pecore raccolte in gregge, in danno di Raso Giuseppe. In territorio di Gerace Superiore nel giugno 1939.

La causa si discute il 6 luglio successivo e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, decide di recarsi sul luogo dove avvenne il fatto per verificare, attraverso le posizioni dei Carabinieri e dell’imputato indicate sul luogo stesso dai testimoni, la corrispondenza con gli atti di indagine. Poi osserva: il giudicabile ha continuato a respingere da sé ogni responsabilità; i testimoni del carico hanno confermato le dichiarazioni rese nel periodo istruttorio, dando inoltre i chiarimenti che, per l’integrale accertamento della verità, sono apparsi indispensabili ed immutati sono rimasti i risultati delle prove. Di fronte alle emergenze del dibattimento, in ordine al furto delle pecore e degli agnelloni non cade dubbio sulla responsabilità dell’imputato: se egli fosse stato estraneo al furto, in nessun caso si sarebbe rassegnato a restituire la pecora e a versare la somma di lire trecento a titolo di risarcimento per gli altri quattro animali rubati. Infine, anche la condotta da lui serbata il 24 settembre quando si accorse che i Carabinieri stavano per arrestarlo, attesta che egli era a conoscenza della propria colpa ed era tutto inteso ad evitare l’arresto. Poi la Corte passa ad esaminare i fatti che portarono l’Appuntato Fogliaro alla morte e quindi all’imputazione di omicidio preterintenzionale e osserva: per configurarsi il delitto di omicidio preterintenzionale la norma richiede che l’atto sia diretto a commettere i delitti di percosse o di lesioni personali e non è questo il caso. Se nella specie è inapplicabile la figura giuridica dell’omicidio preterintenzionale, il fatto presenta invece gli estremi della morte come conseguenza di altro delitto, giacché non può impugnarsi che la morte del Fogliaro derivò dalla resistenza ad agenti della forza pubblica commesso da Bruzzese e preveduto dalla legge come delitto non colposo e ne seguì la morte quale conseguenza non voluta. Se è inoppugnabile il concorso del delitto doloso e della mancanza di volontà dell’evento letale, è del pari evidente la derivazione di tale evento dal delitto, in quanto se Bruzzese non avesse opposto resistenza all’arresto, nessun movimento disordinato si sarebbe compiuto, Fogliaro non sarebbe scivolato né caduto a terra e l’esplosione del fucile non sarebbe avvenuta. Tutte le circostanze che precedettero il mortale ferimento del Fogliaro mettono capo alla resistenza commessa dal Bruzzese, ond’è conforme a legge che egli risponda dell’evento letale a titolo di colpa, con l’aumento di pena previsto dalla legge. Essendosi la resistenza agli agenti della forza pubblica concretata in una strattonata o, tuttalpiù, in una breve colluttazione dal giudicabile sostenuta con l’appuntato, mancano al fatto gli estremi necessari per ritenere che il delitto sia stato continuato e pertanto tale circostanza va eliminata. Le considerazioni svolte in ordine alla morte del Fogliaro valgono anche per dimostrare che Bruzzese, nei riguardi del Carabiniere Chiodo, non deve rispondere di lesioni personali aggravate, ma di lesioni colpose, reato che, però, è rimasto estinto per effetto dell’amnistia del 24 febbraio 1940.

È tutto, si può passare a quantificare la pena da infliggere a Salvatore Bruzzese. La Corte osserva che deve aversi riguardo ai suoi precedenti penali, alla speciale natura del fatto e soprattutto al notevole grado di pericolosità da lui dimostrata. Tenuto conto di ciò sembra giusto infliggere anni 1 di reclusione e lire 1.000 di multa per il furto aggravato delle pecore; per la resistenza anni 1 di reclusione; per l’omicidio colposo sembra opportuno muovere da anni 5 di reclusione ed aumentarli di un quinto, portandoli così ad anni 6, sicché la pena da infliggere in totale all’imputato si determina in anni 8 di reclusione e lire 1.000 di multa, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

Poi la Corte, non ostando i precedenti penali dell’imputato, applica per la seconda volta il R.D. di indulto del 24 febbraio 1940, N. 56 e dichiara condonati anni 2 della pena inflitta, che scende definitivamente ad anni 6 di reclusione, nonché dichiara condonata l’intera multa.[1]

[1] ASCZ, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.