IL FICO CONTESO

Sono le sei di pomeriggio del 27 ottobre 1917 quando due contadini si presentano alla caserma dei Carabinieri di Cetraro e dicono al Maresciallo Maggiore Giuseppe D’Arpini:

Nella località Gaffaro Grande, situata tra Bonifati e la frazione Difesa, nell’unico sentiero che discende da Sant’Agata e proprio al bivio che da una parte porta a Bonifati e dall’altra a Cetraro, abbiamo trovato il cadavere di Gioacchino Bianco e siccome vicino al cadavere vi era l’asino fermo con due sacchi pieni di castagne, abbiamo pensato ad una disgrazia

– Ma il cadavere era nel comune di Bonifati o di Cetraro? – chiede il Maresciallo, perché proprio in quella località c’è il confine tra i due comuni e se il cadavere fosse nel territorio di Bonifati, non sarebbe competenza di D’Arpini.

– No, non lo sappiamo…

Stando così le cose, D’Arpini deve intervenire e per mancanza di personale fa chiamare due militari in licenza, che accompagneranno sul posto il Carabiniere Vito Muti, con precise istruzioni onde regolarsi.

Quando Muti ed i due soldati arrivano alla frazione Dattolo vengono informati da Annibale Tripicchio che non si tratta di una disgrazia, ma di un delitto e che altri non potevano esserne autori, se non il venticinquenne Francesco Cosentino. Come fa Tripicchio ad essere così sicuro?

Per motivi d’interesse – poi racconta nel dettaglio –. Ieri mattina verso mezzogiorno, mentre mi trovavo a passare nella contrada Gaffaro Grande del Comune di Bonifati con un somaro carico di castagne, seppi da mia moglie che Gioacchino Bianco si trovava morto per terra nella suddetta località. Poco prima in quella località avevo visto un soldato armato di fucile corto a due canne, tanto da farmelo sembrare un moschetto da Carabiniere. Il soldato, vistomi passare, si voltò di spalle per non farsi conoscere ed io nulla presagendo non vi badai. Il soldato era piuttosto scarno, di statura media piuttosto bassa, seco aveva le mollettiere [fasciature per proteggere i polpacci, in uso durante la Grande Guerra. Nda] vecchie, vestiva grigio verde, salvo poi che non siano stati i calzoni di tela perché, avendolo notato alla distanza di circa quaranta metri, tanto bene non potei osservare. Aveva il tascapane a borsa di tela grigio verde. Quando passai gli rivolsi la voce, ma egli non mi rispose. Pensai subito che Bianco potesse essere stato una vittima del soldato, il quale perché disertore avesse tentato di rapinarlo e, senza frapporre tempo, corsi il quel luogo. Insieme a me corsero anche Domenico Losardo, Pietro Tripicchio, Mariantonia Tripicchio e Angelo Cosentino. Giunti sul posto notammo ad un paio di metri dal sentiero il cadavere del mio compare Gioacchino e poco distante l’asino fermo coi sacchi di castagne sulla schiena. Il cadavere giaceva bocconi e aveva alla guancia destra una grossa ferita d’arma da fuoco. Essendo sopraggiunta la moglie dell’ucciso, a nome Rosa Antonucci, questa, visto il marito ucciso, esclamò subito che autori altri non potevano essere se non tal “Pracchiatta” [il soprannome della famiglia Cosentino. Nda] Antonio o suo figlio Francesco perché costoro, per motivi d’interesse derivanti dalla contesa precedente di un albero di fichi, situato sul confine dei fondi da loro posseduti con quello dell’ucciso, domenica scorsa 21 ottobre furono visti appostati nelle vicinanze della sua casa nella frazione Dattilo e siccome Gioacchino non uscì, Antonio Cosentino, mordendo con rabbia il beretto e guardando in aria, espresse feroce minaccia.

D’Arpini non perde tempo, va a casa di Francesco Cosentino e poco prima di mezzanotte lo arresta, sequestrandogli un tascapane, una giubba ed un paio di pantaloni grigio verde da soldato. Non solo: qualcuno soffia al Carabiniere Muti che in casa di Antonio Cosentino c’è un fucile corto a due canne. Muti va ad effettuare una perquisizione e trova il fucile appeso dietro la porta.

Se avessi potuto, lo avrei nascosto – dice Cosentino, visibilmente turbato.

Visto che è notte inoltrata, meglio riordinare le idee con una dormita e ad interrogare Francesco Cosentino si penserà domani.

– È tuo questo fucile? – gli chiede il Maresciallo.

Il fucile che mi fate vedere è di mio padre ed assicuro che non è stato mai sparato da circa un anno ed è stato sempre pulito. L’ultima volta l’ho pulito il giorno venticinque.

– Cosa hai fatto ieri?

Ieri non mi mossi da casa, se non per andare da mio padre, che sta poco distante da casa mia nella contrada Dattilo, a circa venti minuti di cammino.

– Come eri vestito?

Io uscii da casa vestito da borghese.

– Ci sono testimoni che giurano di averti visto indosso, la mattina del delitto, abiti militari…

Non ho mai indossato gli abiti militari dal giorno della mia riforma – in effetti Francesco Cosentino fu riformato per tubercolosi.

– E dell’omicidio di Gioacchino Bianco che mi dici?

Riguardo all’omicidio di Bianco, quantunque fosse mio nemico tuttavia vado innocente del fatto che mi si addebita e cioè che sia stato io ad ucciderlo con la complicità di mio padre.

– Però ci sono state delle minacce di morte…

Io non avevo risentimento contro il defunto Bianco, bensì contro la moglie perché, quistionando ella con me circa la proprietà del famoso albero di fico, mi aveva dato del “cornuto” ed in dipendenza delle parole avute mi aveva anche fatto buttar sangue, data la malattia di cui soffro. Nego, perciò, di avere pronunziato parole di minaccia contro Bianco. Alle minacce di domenica sera io non ero presente e non so niente altro.

A questo punto viene richiamato Annibale Tripicchio per mostrargli gli indumenti militari sequestrati a Francesco Cosentino:

Ora, sotto la santità del giuramento che dovrò rendere al Tribunale degli uomini e sotto la santità della mia coscienza, dichiaro che la giubba che mi mostrate non mi sembra quella che indossava il soldato, così pure i pantaloni non mi sembrano quelli, ma potrei anche sbagliarmi perché non badai poi tanto bene. Però il tascapane mi pare come quello che indossava il soldato, solo che quello mi pareva più vecchio. Se ciò fosse dipeso dal fatto di averlo visto nel bosco e di rivederlo qui, poi non lo so. Il fucile mi sembra quello che viddi al soldato e anche il Cosentino mi fa nascere la convinzione che sia proprio lui quel soldato che viddi ieri mattina sotto un albero a circa quaranta metri dal luogo ove fu ucciso Gioacchino Bianco – poi aggiunge qualcosa di clamoroso –. Soggiungo che nelle vicinanze del cadavere si notavano, e sono ivi rimasti, frammenti di giornale e di lettere scritte, anzi su un pezzo di carta si leggeva il nome “Benedetto”. In quei frammenti si avvertiva il tampo della polvere da sparo e se dalla autopsia risulta che il colpo avuto da Gioacchino sia di palla, allora detti frammenti erano preparati ad arte per far conoscere che l’arma era ad avancarica e di conseguenza deviare le indagini, oppure messi in cartuccia in sostituzione del feltro.

Sottoposto il fucile a perizia, le canne, nonostante risultino essere state ingrassate per circa cinque centimetri, presentano tracce freschissime di polvere da sparo, così fresche da far pensare che il fucile è stato usato il giorno prima, cioè quello del delitto.

Intanto arrivano i risultati dell’autopsia: alla regione frontale diverse lesioni, piccole, circolari, alcune interessanti semplicemente la cute, altre penetranti fino all’osso. Alla metà destra della faccia si nota una gran quantità di sangue aggrumito e alla regione temporale dello stesso lato una ferita di forma circolare, della grandezza di due centesimi, interessante cute e connettivo sottocutaneo, a margini netti, bruciacchiati. Tutta la parte superiore sinistra del corpo è disseminata di piccoli forellini. Alla base del collo, lato destro, da uno di questi forellini della grandezza di un centesimo, per i movimenti impressi alla testa del cadavere e per la pressione esercitata sul punto stesso, fuoriesce del sangue nerastro. Lesioni anche alla spalla sinistra e nella regione sotto ascellare sinistra. Sollevato il cuoio capelluto, in corrispondenza della vasta lesione della larghezza di due centesimi, troviamo una soffusione sanguigna. In mezzo ad essa notasi un forellino che attraversa il muscolo temporale in tutto il suo spessore e che ha leso l’arteria temporale profonda. Tolta la calotta cranica, questa ha delle aderenze in toto colla dura madre e si nota una soffusione sanguigna tra la dura madre e l’aracnide. Ispezionando il tragitto della lesione alla base del collo, si nota che la giugulare interna è stata perforata. Lo stesso pallino, poi, deviando verso il basso, ha leso il polmone destro. Quindi i colpi sparati contro Gioacchino Bianco furono due e le lesioni mortali, secondo i periti, sono state tre: quella alla regione temporale destra, quella alla base del collo e quella al polmone, prodotte da arma lunga caricata con piombo usualmente adoperato per la caccia alla lepre ed i colpi furono esplosi certamente a distanza più o meno grande, probabilmente 15 o 20 metri.

Tripicchio, quindi, si è sbagliato, volutamente o per eccesso di zelo non si sa, ma l’impressione che ha il Maresciallo D’Arpini è che non sa forse decidersi a dire di più, chi sa per quale motivo.

Dalle verifiche fatte sul luogo è emerso che l’omicidio è avvenuto in territorio di Bonifati e quindi la competenza è dei Carabinieri e del Pretore di Belvedere Marittimo, che cominciano anche loro ad indagare ed interrogano Antonio Cosentino:

Io nulla sapevo di quanto era accaduto. Solo verso le quattro e mezzo mia moglie mi disse di aver saputo che al compare Gioacchino, tornando da Sant’Agata, ci era preso un dolore. Allora mi avviai verso quella località per aiutarlo, ma fatti appena due chilometri di strada incontrai due persone, di cui non ricordo i nomi, che tornavano da Sant’Agata e gli domandai se dietro veniva compare Gioacchino. Quelli mi risposero “Che vuoi che viene, quello è buttato a terra!”. Io aggiunsi “Ma parla?” e quelli di risposta “Che vuoi che parla, quello ha avuto un colpo e non si muove più”. Non mi dissero che colpo era ed in che punto l’aveva avuto. Saputo ciò me ne tornai a casa perché ero senza camicia ed era ormai notte.

– È vero che la sera di domenica 21 ottobre siete andato davanti la porta di Bianco per invitarlo ad uscire per aggiustare i confini e siccome non uscì avete morso il berretto e lo avete minacciato?

– Si, è vero, ma lo invitai con buoni modi e non feci minacce e non morsi il berretto.

Poi il Pretore di Belvedere raccoglie il racconto di Rosa Antonucci, la vedova:

Nell’estate scorsa mio marito prima e poi io venimmo a quistioni per motivi di confini con Francesco Cosentino. Da quell’epoca Cosentino, dopo aver minacciato querele, tenne gravi rancori contro il mio povero consorte, tanto che non si rivolgevano più la parola. Il ventidue corrente venne in casa mia il padre a nome Antonio ed invitò mio marito a sistemare i confini. Era tardi ed il mio consorte, dubitando qualche tranello, non aderì all’invito. Fu allora che il Cosentino padre prese il cappello, lo strinse raggomitolandolo e volgendo gli occhi al cielo andò via dicendo all’indirizzo di mio marito: “Va bene, porco”, intendendo con tali parole di minacciarlo. Il ventisette corrente seppi da alcuni paesani che mio marito era stato ucciso e allora pensai che autori dell’omicidio avevano dovuto essere Francesco Cosentino, istigato dal padre. Escludo altri sospetti e ciò perché il mio povero consorte non aveva altri nemici… era da tutti ben visto e da tutti voluto bene.

– Quando uscì vostro marito per andare a castagne?

Andò via il ventisei e gridando mi disse che sarebbe rincasato il giorno successivo. Tali parole furono udite da Francesco Cosentino, che ha la casa contigua alla mia e che di certo andò ad appostare mio marito e lo freddò.

Ma al momento non c’è niente di più contro Francesco Cosentino, che comunque resta in carcere, e suo padre. Poi, il 17 dicembre, nel palazzo comunale di Cetraro, il sessantenne Felice Grosso dichiara al Maresciallo D’Arpini, in presenza della Guardia Municipale Achille Cerbelli e di Francesco Patera, maestro della Banda Comunale di Cetraro:

Sul far del giorno del ventisette ottobre mi trovavo a zappare patate in un mio fondo sito nella contrada Nucilla, quando vidi Francesco Cosentino vestito da soldato, col fucile a due canne in spalla e con un cane, dirigersi verso la montagna nella contrada Gaffaro Grande di Bonifati, dove verso le undici fu poi rinvenuto ucciso Gioacchino Bianco.

– Siete sicuro che fosse proprio Francesco Cosentino? – gli chiede D’Arpini.

L’ho ben riconosciuto e credo che anche Annibale Tripicchio lo abbia riconosciuto perché recatomi sul luogo del delitto a vedere l’ucciso, Tripicchio mi disse che chi aveva sparato a Gioacchino era stato un soldato con un cane.

E siccome Annibale Tripicchio nelle sue dichiarazioni il cane non lo ha mai nominato, la prima impressione avuta da D’Arpini su di lui ha fondamento e lo classifica come reticente o complice. Dalla dichiarazione di Felice Grosso le indagini riprendono vigore perché è la smentita alla dichiarazione di Francesco Cosentino di non essersi mosso da casa la mattina del 27 ottobre 1917. Per mettere l’indiziato davanti alle sue responsabilità, il Pretore di Belvedere Marittimo lo mette a confronto con Felice Grosso, che gli ripete in faccia di averlo visto la mattina del 27 ottobre vestito da soldato, col fucile ed il cane. Cosentino, ovviamente, nega e Grosso, ribadendo la sua accusa, aggiunge:

Capisco che tu sostieni il contrario a tua difesa, ma non per questo posso tradire la mia coscienza e mentire.

Niente di fatto, ci vuole altro. Ed esce fuori che la sera del 21 ottobre, quando Antonio Cosentino andò a casa di Gioacchino Bianco per farlo uscire non era da solo, ma con lui c’era suo figlio Francesco e lo giurano cinque testimoni, quindi è smentita anche l’affermazione che l’indiziato non era presente alle minacce fatte la sera del 21 ottobre. Adesso che gli indizi sono più gravosi, il Sostituto Procuratore Coscarella prende in mano l’istruttoria e ricostruisce alcuni passaggi chiave nel passato dei rapporti tra le famiglie Bianco e Cosentino. Per esempio, pare che la famiglia Bianco pacificamente aveva raccolto i fichi dell’albero controverso e solo dopo che Francesco Cosentino sposò Teresa Cianni, proprietaria del fondo sul cui confine è l’albero, sorsero le liti, dato il carattere risentito e litigioso di costui. Per esempio esce fuori che Francesco Cosentino, nei primi di ottobre, dichiarò al Maresciallo D’Arpini che per la questione del confine avrebbe tirato a Bianco una schioppettata. Per Coscarella non ci sono dubbi, l’omicida è Francesco Cosentino e ne chiede il rinvio a giudizio per omicidio premeditato. È l’8 marzo 1918. Esattamente un mese dopo la Sezione d’Accusa accoglie la richiesta e ad occuparsi del caso sarà la Corte d’Assise di Cosenza.

Ma non ci sarà nessun dibattimento perché Francesco Cosentino viene stroncato dalla tubercolosi e muore in carcere.

Tuttavia Rosa Antonucci non si arrende ed il 2 ottobre 1919 presenta un esposto contro Antonio Cosentino, sostenendo che il figlio Francesco non si sarebbe deciso ad uccidere il marito se non vi fosse stata l’istigazione del padre a commetterlo. A suffragare l’accusa ci sarebbe soprattutto il fatto che l’arma usata era di proprietà di Antonio Cosentino, nella cui casa fu sequestrata. Poi ci sarebbero degli altri fatti: tempo dietro, nelle fasi del processo, Cosentino Antonio, ritornando da Cosenza, nel parlare vicino la casa di Antonia Vattimo, stanco del viaggio si fermò e allora costei disse: “Hai visto, Antonio, rovinato tu e rovinata quella povera sventurata, perché andare ora a Belvedere, ora a Cosenza è per te un guaio”. A questo Cosentino rispose: “È morto e si striche perché ho visto che oggi o domani mio figlio era alla morte e mi ho fatto cacciare un capriccio!”. Dopo morto Francesco Cosentino nelle carceri di Cosenza, ebbi occasione di passare davanti la casa di Maria Vattimo e, lamentandomi contro la nuora di Antonio Cosentino, lei mi soggiunse: “Con la nuora non ce la devi avere perché non ha nessuna colpa, invece deve piangerlo Antonio” e mi raccontò il fatto. La sera del 21 ottobre 1917, mentre Luigi Spaccarotella si ritirava, s’incontrò con Antonio Cosentino, col figlio e la nuora e lo udì proferire la seguente minaccia: “Stasera si deve finire, dobbiamo andare e ci l’amu d’ammazzare duvi lu fini (cioè dove la pianta di fico).

Le indagini condotte dal Maresciallo D’Arpini, però non portano ad una conferma delle accuse avanzate da Rosa Antonucci: le dichiarazioni raccolte dallo scrivente, non possono, per coscienza, fare affermazioni veraci che potessero valere a far ritenere la colpabilità vera come complice del Cosentino Antonio nel delitto commesso da suo figlio e, per quanto si è indagato, non è stato possibile all’Arma di Cetraro di trovare altri elementi a carico di Cosentino Antonio.[1]

La questione è chiusa.

[1] ASCS, Processi Penali.