Verso le quattro pomeridiane del 18 marzo 1890, il ventottenne bovaro Baldassarre Prete viene sorpreso a far pascolare abusivamente i suoi buoi nella proprietà del barone Adolfo Vercillo, in contrada Sanbiase di Rende, dal quarantenne guardiano Raffaele Iantorno il quale, assistito dai due testimoni Luigi Cosentino e Michele Cesario, lo dichiara in contravvenzione, intimandogli di far allontanare immediatamente gli animali, cosa che Prete esegue.
Il giorno dopo, festa di San Giuseppe, Prete si presenta a Iantorno e Cosentino offrendogli un complimento purché non fosse elevata contravvenzione, ma i due rifiutano sdegnati e Iantorno dice:
– Abbiamo ricevuto ordine dal nostro padrone di procedere per legge.
Prete se ne va con la coda tra le gambe, ma il giorno dopo, mentre Iantorno si accinge a recarsi a Rende per dare querela a Prete, viene raggiunto a casa dal contravventore per offrire un altro convegno, invitandolo ad andare con lui per accomodare la cosa. Iantorno accetta e si avviano passando davanti la casa rustica di Natale Perri, il quale, prima nota che Prete ha in mano un palo e Iantorno è armato di fucile a due canne, poi li ferma e domanda:
– Dove state andando? Avete accomodato la cosa?
– A Sanbiase – rispondono.
Verso mezzogiorno Gaspare Conforti, un altro guardiano del barone Vercillo, tornato da Marano Marchesato viene informato che Iantorno è andato verso Sanbiase con Prete e non è ancora tornato a casa, ha il sospetto che possa essergli accaduta qualcosa e lo va a cercare, ma non riesce a trovarlo e, siccome piove a dirotto, suppone che si sia ritirato per altra via. Ma passano tutto il resto del giorno e tutta la notte e di Iantorno non c’è nessuna notizia, così Conforti, la mattina del 21 marzo in compagnia di Natale Perri riprende le ricerche andando da Baldassarre Prete.
– Dove lo hai lasciato ieri? Che cosa vi siete detti? – gli chiede e Prete risponde:
– Mi sono diviso da lui al punto detto Timpone della Corte dopo avergli dato in transazione della contravvenzione quindici lire…
– Verso dove si è diretto? A casa non è tornato e pensiamo che gli sia accaduta qualcosa di brutto…
– Ah! Se l’hanno ammazzato io me ne scuotulo! Io non c’entro! – ahi! Chi mai ha parlato di omicidio? Conforti resta a bocca aperta e, senza dire altro, corre a San Fili dal barone per raccontargli l’accaduto e per evidenziargli i suoi sospetti sul fatto che Prete sa molto sulla scomparsa di Iantorno, probabilmente ucciso da lui. Il barone non perde tempo e va personalmente dai Carabinieri di San Fili per denunciare la scomparsa del guardiano ed esprimere i suoi sospetti sulla sua probabile morte violenta. I militari vanno nel posto dove Iantorno sarebbe stato lasciato da Prete, ma possono solo dare un’occhiata veloce, dato il temporale che impedisce di inoltrarsi nella contrada, così il Brigadiere Aniceto Costa, comandante la stazione di San Fili, va da Prete e lo porta in caserma per interrogarlo.
– Gli ho dato quindici lire in tre distinti biglietti da cinque lire ciascuno e l’ho lasciato seduto in contrada Timpone della Corte, mentre io mi sono ritirato nella mia masseria – si ferma un attimo e poi aggiunge –. Se non si ritrova che qualcuno si vuole cacciare la zirra con me, ma io sono libero come l’aria!
A chi allude? Mistero.
Il giorno dopo, cessata la pioggia, il Brigadiere Costa con tre Carabinieri, alcuni parenti ed amici dello scomparso e persone di servizio del barone Vercillo riprendono le ricerche, ma purtroppo senza esito. Ma i sospetti sono fondati? Siamo sicuri che Iantorno non si è allontanato volontariamente? Secondo i parenti, si ed il giorno dopo ancora riprendono da soli le ricerche e trovano un palo gettato in un cespuglio lungo il sentiero che dalla contrada Timpone della Corte va alla masseria dove abita Prete, ma non danno importanza al rinvenimento e lo depositano innanzi le caselle dei bovari del barone Vercillo, credendolo di loro pertinenza, poi tornano alle loro case. La sera i bovari Luigi Cosentino e Michele Cesario tornano dal pascolo alle caselle e trovano il palo, che Cesario riconosce subito per quello che Prete aveva in mano la mattina della scomparsa di Iantorno. Cosentino corre a San Vincenzo la Costa per chiedere in quale punto è stato trovato il palo e, immediatamente dopo esserne stato informato, va a San Fili a renderne intesi il barone ed i Carabinieri. La notizia si diffonde ed i soci della Federazione Operaia di San Fili, di cui Iantorno fa (o faceva) parte, decidono che il mattino successivo all’alba andranno sul posto e, distribuendosi per diverse contrade, faranno le ultime ricerche. Mentre il corteo di operai e contadini si avvia, arriva la notizia che il giorno prima è stato visto da Michele Cesario un cane di mandria col muso sporco di sangue. Forse ci siamo e i soci della Federazione, divisi in squadre, battono palmo a palmo la contrada Sanbiase, dove suppongono che sia stato commesso il delitto. Dopo qualche ora, le urla di Michele Cesario riecheggiano per le campagne, ripetute a squarciagola dalle singole squadre: il cadavere di Raffaele Iantorno è stato ritrovato! Subito vengono informati sia i Carabinieri di San Fili che quelli di Rende, che provvedono ad informare il Pretore, ma il primo ad arrivare sul posto è il barone Vercillo, che ordina ad alcuni suoi dipendenti di operarsi affinché Baldassarre Prete non sfugga alla cattura, invitandolo a seguirli colà con la scusa di farsi indicare il punto preciso dove aveva lasciato Iantorno.
Quando Prete arriva sul posto ed il barone gli fa vedere il punto dove sta il cadavere, impallidisce e quando gli mostrano il palo, urla:
– Non è il mio! Non è il mio!
Quattro braccia robuste lo afferrano e non lo lasciano finché arriva il Brigadiere Aniceto Costa, che lo dichiara in arresto, lo porta in caserma e lo interroga.
– Il giorno 18 fui sorpreso da Raffaele Iantorno nell’atto che facevo pascolare i bovi nel fondo di proprietà del barone Vercillo, suo padrone, e mi disse che mi avrebbe fatto una contravvenzione. Io risposi che avrei pagato il danno bonariamente. Iantorno se ne andò con Luigi Cosentino e Michele Cesario senza rispondere. La sera del 19 vidi Iantorno con Cosentino e mio fratello Gaspare gli si avvicinò chiamandolo in disparte e gli disse che avrebbe pagato il danno fatto dai bovi. Iantorno, come mi disse mio fratello, chiese trenta lire. La mattina del 20 andai in cerca di Iantorno e lo trovai in una casella non molto discosta dalla mia torre. Gli offrii quindici lire pel danno e mi rispose “andiamo per questa via che me le prenderò”. Ci avviammo e giunti poco sopra il fiume gli diedi la somma, che si conservò nella tasca del gilé, dicendomi di non far conoscere niente ai suoi colleghi, ai quali avrebbe dovuto dare parte. Poscia ci dividemmo, rimanendo il Iantorno in quel luogo ed io ritornai in mia casa.
– Abbiamo accertato che ti aveva sorpreso anche in passato…
– È vero che tre anni fa mi sorprese con i bovi nel fondo di Vercillo e gli diedi sei lire per non parlarne.
– Questo palo è tuo? Te lo hanno visto in mano il 20.
– Non è mio. Il 20 avevo ne avevo uno piccolo in mano, che serve a spingere i bovi quando sono attaccati al carro.
Il cadavere, difficile da vedere perché nascosto sotto alcune frasche ai piedi di una specie di strapiombo, è in condizioni pietose: la testa, fino al tubercolo occipitale, si presenta denudata del cuoio capelluto; la faccia si presenta priva dei tessuti molli, mancano gli occhi, le orecchie, i tessuti molli del naso, del mento, lasciando vedere le ossa denudate; sulla regione anteriore del collo manca la laringe e porzione della trachea; sulla regione laterale destra della testa notiamo mancante l’osso temporale, porzione dello zigomatico e l’osso parietale fino al sincipite e ai suoi punti di attacco in avanti coll’osso frontale ed indi dietro con l’occipitale, lasciandovi una larghissima apertura dalla quale è stata vuotata l’intera massa cerebrale; lungo la linea sagittale, a partire dalla sutura temporo frontale destra, si nota l’osso tagliato inegualmente per la lunghezza di sette centimetri, da dare tutte le mote di un trauma caduto in quel punto con frattura ed avvallamento dell’osso sottostante; dell’arto toracico destro non resta che il braccio e porzione dell’antibraccio, essendo il resto interamente mancante.
Colpi così violenti da aprire letteralmente il cranio e lasciarlo per giorni in balia degli animali, che ne hanno completato lo scempio. Tuttavia, anche se appare chiaro che Iantorno è stato ucciso a bastonate, è opportuno fugare ogni dubbio e verificare se fosse stata possibile la morte a causa di una caduta accidentale dall’altezza di due metri, tanto è alto lo strapiombo, ai piedi del quale giaceva il cadavere. No, in quel punto il terreno è molle e le lesioni non sono assolutamente compatibili con una caduta. Ma potrebbe essere possibile che a sfondare il cranio siano stati gli animali che ne hanno fatto scempio. No, la dentatura dei nostri animali carnivori non ha potuto forare l’osso ed asportarne la materia cerebrale, senza che l’osso stesso fosse stato precedentemente rotto, certifica il dottor Giuseppe Martini.
Ma i Carabinieri non sono convinti che Prete abbia ucciso Iantorno nel posto dove è stato trovato il cadavere, magari nell’impeto di rabbia per il rifiuto di Iantorno di non accettare l’offerta, ma che il delitto sia stato premeditato, così il 27 marzo arriva da Cosenza il Tenente Efisio Fadda ad esperire indagini più approfondite e viene fuori che, dall’accurato esame della topografia del terreno, dallo stato inalterato in cui vi trovammo ancora abbandonata la giacca della vittima, accanto a cui giaceva intatto il cappello, ci convincemmo che Iantorno non fu ucciso in quel luogo, ma che vi fu trasportato col concorso di più persone, tanto più che un legno rinvenuto presso quella località lascia credere che sia servito ad appoggiare il tronco della vittima, sorreggendolo da due individui, mente un terzo poteva tenere per i piedi la vittima. Coordinando questo fatto all’altro non meno importante qual è quello che un solo individuo, per quanto coraggioso e forte, non poteva cimentarsi con un altro che alla robustezza ed al coraggio aggiungeva il fucile carico di cui era armato, si può arguire che l’assassinio non sia stato opera di uno solo, ma che vi abbiano concorso più persone. Basandoci sulle prove di reità già raccolte a carico di Prete Baldassarre, ci siamo studiati di trovare chi, per avventura, poteva averlo coadiuvato nel mandare ad effetto il suo reo disegno. Ed il compito fu facile in quanto, tenuto calcolo della solitudine in cui vive la famiglia Prete per la ripugnanza che hanno gli abitanti della contrada Sanbiase di avvicinare i maschi della famiglia e considerato che l’ucciso godeva la stima dei suoi conterranei e nessuno l’odiava oltre i membri della famiglia Prete, ci convincemmo che complici del misfatto dovessero essere i fratelli dell’arrestato, Gaspare di 24 anni e Gabriele di 21, impregiudicati.
I due vengono convocati in caserma e interrogati separatamente. Dopo esser caduti in mille astruse contraddizioni, messi alle strette, Gaspare e Gabriele accusano Baldassarre di aver, a colpi di bastone e per la miseria di una “pigliatura”, finito i giorni del misero Iantorno e scagionando sé stessi di aver partecipato all’omicidio. A prova di ciò Gabriele si offre spontaneamente di accompagnare i Carabinieri dove lui stesso ha nascosto il fucile tolto alla vittima da Baldassarre. I militari, con Gabriele, corrono in contrada San Giovanni ed ivi, sulla sponda destra del torrente Settimo, a 6 chilometri circa da dove giaceva il cadavere di Iantorno, nel folto di una boscaglia, ricoperto da pietre, c’è il fucile, che presenta la cinghia tagliata di netto, segno che l’arma è stata tolta alla vittima dopo averla uccisa. Ma la collaborazione offerta dai due fratelli, invece di sviare i sospetti, convincono il Tenente Fadda del loro diretto coinvolgimento e li dichiara in arresto. Non solo: dalle indagini risulta che Iantorno la mattina del 20 marzo aveva in tasca almeno venti lire, composte da due biglietti di stato da dieci lire ciascuno, consegnatigli il giorno prima dal sessantenne barone Matteo Vercillo. Poiché all’atto del rinvenimento del cadavere nessuna somma gli fu trovata nelle tasche, si ipotizza che le due banconote gli siano state rubate da Baldassarre e dai suoi fratelli. Perquisita l’abitazione dei tre fratelli, nel portafoglio custodito nella giacca usata da Baldassarre nei giorni di lavoro, i Carabinieri trovano un biglietto da dieci lire, serie 143, N. 037224, riconosciuto dal barone Matteo Vercillo per un timbro a secco impressovi in color rossastro nel lato superiore sinistro e rappresentante un indistinto stemma gentilizio.
Ora le cose si sono fatte veramente molto serie e Baldassarre pensa bene di negare tutto anche quando viene interrogato dal Giudice Istruttore: lui e i fratelli non c’entrano con la morte di Iantorno e non cede nemmeno quando gli mostrano il fucile che sua fratello ha fatto recuperare. Ammette che il portafoglio trovato nella sua giacca è il suo, come anche il biglietto da dieci lire col timbro impresso e spiega di averlo avuto, insieme ad altri biglietti per un totale di sessanta lire, da Pietro Filippo, forese del barone Vercillo, nel mese di novembre 1889 in pagamento di lavoro fattogli con i suoi buoi.
I suoi fratelli invece lo accusano nuovamente di avere ucciso Iantorno da solo. Racconta Gabriele:
– Il giorno 20 marzo Baldassarre tornò a casa portando seco un fucile a due canne e ci disse di avere ucciso Iantorno e di avergli tolto il fucile, raccomandandoci il silenzio ed incaricando me di andare a nascondere il fucile. Io lo presi e lo nascosi. Ricercato sul fatto dal Tenente dei Carabinieri, finii per confessare a lui l’accaduto ed a sua richiesta insegnai il luogo dove trovare il fucile. I Carabinieri hanno ritenuto pure me colpevole della uccisione di Iantorno, ma io ne sono innocente.
– E secondo te come ha fatto Baldassarre ad ucciderlo e trasportarlo da solo?
– Non so dirvi come Baldassarre potesse da solo uccidere Iantorno e nasconderlo nel burrone.
– Questo bastone è di Baldassarre? – se rispondesse di si, sarebbe l’ultima conferma necessaria.
– Si, è suo.
Amen.
Anche Gaspare accusa Baldassarre, ma fornisce un possibile movente per un delitto d’impeto e non premeditato:
– Baldassarre tornò a casa alquanto conturbato. Gli chiesi ripetutamente come era andata la cosa con Iantorno e finalmente mi disse di avere avuto una questione con lui perché, mentre per combinare il fatto dei bovi avrebbe voluto dargli prima dieci lire e poi quindici, Iantorno aveva rifiutato le due offerte, pretendendo invece trenta lire. Aggiunse poi che, irritatosi col Iantorno per la sua pretenzione, lo aveva ucciso dandogli prima un colpo di bastone al capo per il quale era stramazzato a terra e poscia inferendogli, sempre sul capo, altri due o tre colpi. Resolo così cadavere, lo aveva buttato in un burrone lì prossimo trascinandovelo col prenderlo per la cinghia del calzone.
– E del fucile cosa mi dici?
– Nulla mi disse del fucile che avrebbe tolto a Iantorno. Ripeto di non avere avuto nulla da vedere nell’uccisione di Iantorno, della quale sono assolutamente innocente.
– Questo bastone è di Baldassarre?
– Rassomiglia a quello di mio fratello, ma non posso dirvi se veramente sia quello.
Poi Baldassarre chiede di essere interrogato dal Giudice Istruttore e dice:
– Meglio riflettendo ai casi miei, ho creduto miglior partito quello di farvi conoscere sul fatto che mi si addebita. Sono stato veramente io l’uccisore del guardiano Iantorno… la mattina del 20 marzo mi portai al casello di Iantorno col proposito di sistemare con lui la faccenda della contravvenzione ed insieme si uscì. Gli offrii prima dieci lire e poi quindici, ma esso le rifiutò pretendendo venticinque lire. Nacque così un diverbio ed io, accecato dalla passione perché ritenevo di non aver fatto alcun danno col bestiame, col bastone che tenevo, quello che mi avete fatto vedere stamattina, ammenai ripetuti colpi sul capo di Iantorno, finché non fu morto. Il fatto accadde poco distante da un burroncello, dove trascinai e nascosi il cadavere. In questa operazione non ebbero alcuna parte i miei fratelli. Solamente giunto a casa consegnai il fucile che tolsi a Iantorno a mio fratello Gabriele perché andasse a nasconderlo, come fece.
– Ma Iantorno aveva il fucile… è difficile credere alla tua versione…
– Lo colpii quando vidi che la quistione fra noi insorta sempre più s’accendeva e che egli fece atto di levarsi il fucile dalla spalla. Supponendo così che volesse con l’arma offendermi, gli ammenai il primo colpo sul capo col bastone, facendolo cadere a terra e uccidendolo poi con un altro colpo sul capo. Presente non fu alcuno e questo che dico è la pura verità, nella quale persisto non avendo altro da aggiungere se non che il foglio delle dieci lire contenuto nel portafoglio è mio per averlo avuto da Pietro Filippo, come ho già detto. Nulla tolsi a Iantorno dopo averlo ucciso, oltre al fucile, del quale non so spiegare come si trovi tagliata la correggia.
Il barone Matteo Vercillo, chiamato nuovamente a riconoscere la banconota da dieci lire, conferma che è proprio quella che diede a Iantorno il giorno prima del delitto, come acconto sullo stipendio e questo potrebbe essere il colpo di grazia sulla credibilità della confessione di Baldassarre Prete.
Il 23 maggio 1890, la Sezione d’Accusa, su richiesta della Procura che ha prosciolto in istruttoria Gabriele e Gaspare Prete per insufficienza di prove, rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza Baldassarre Prete per rispondere di omicidio volontario e furto ai danni di Raffaele Iantorno, commesso dopo l’uccisione dello stesso.
La discussione della causa è fissata per il primo luglio 1890 ed il giorno dopo la Corte emette la sentenza:
col verdetto dei giurati Baldassarre Prete è stato giudicato colpevole di avere cagionato la morte di Raffaele Iantorno vibrandogli, con fine di ucciderlo, più colpi di bastone sulla testa e di averlo consumato nell’impeto d’ira determinato da ingiusta provocazione o da intenso dolore e con la circostanza di essere stata la provocazione grave e col concorso di attenuanti generiche. Per questi motivi, la Corte condanna Prete Baldassarre alla pena della reclusione per anni 5, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.
La giuria ha creduto alla versione di Baldassarre.
Il 24 dicembre 1890 la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Baldassarre Prete.
L’11 settembre 1893 la Sezione d’Accusa, in virtù del decreto di amnistia del 22 aprile 1893, dichiara condonati mesi 6 della pena.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.