L’AGGRESSIONE

È la mattina del 10 giugno 1947. Stella Cava, 28 anni, sta togliendo il mattone che dal canale principale della sorgiva Colletta, nella proprietà di Cristoforo Perrone, farà scorrere l’acqua nel suo terreno, sito in contrada Malinieri di Mormanno.

– Che fai? Non permetterti di deviare l’acqua se no perlamadonna ti rompo il culo! – le ingiunge Perrone.

– Metti il mattone dov’era! Non hai diritto alla nostra acqua! – rincara Giuseppe Apollaro, il genero di Perrone.

Il mio terreno è sempre stato irrigato con quest’acqua e quindi non sto facendo nessun abuso!

– Chiudi il canale sennò… – insiste Perrone mordendosi una mano in segno di minaccia.

– Ancora? Non lo sai che mio marito ha pure chiesto la concessione all’autorità? – Stella non ha nessuna intenzione di sottostare a quella ingiusta imposizione.

Perrone e suo genero, maggiormente irritati da tali risposte, si scagliano contro Stella malmenandola con pugni e schiaffi e, dolorante, deve battere in ritirata. Tornata in paese va dal dottor Longo che le riscontra graffiature lunghe e diverse nella regione laterale del collo, contusioni al gomito sinistro, contusioni multiple sul torace e sull’addome, in soggetto al quinto mese di gravidanza, guaribili entro i dieci giorni, salvo complicazioni. Poi col certificato medico Stella va dai Carabinieri e querela i due aggressori.

Passano cinque giorni, Stella non si sente bene e torna dal medico che, dopo averla visitata, storce il muso e sulla sua carta intestata certifica di aver riscontrato sulla paziente segni di minaccia di aborto consistenti in dolentia continua ai quadranti inferiori dell’addome ed al sacro, maggiormente intensa, però, al quadrante inferiore sinistro, che ad intervalli acquista carattere di veri parossismi dolorosi, in perdita di sangue dall’orifizio uterino e modica dilatazione del medesimo, minaccia determinata dal traumatismo subito il 10 dello stesso mese. La questione si fa seria, sia per Stella e la sua creatura e sia per Perrone e suo genero Giuseppe Apollaro. E diventa drammatica il 26 giugno, quando il dottor Longo comunica ai Carabinieri l’avvenuto aborto di Stella Cava per traumatismo placentare a seguito dei maltrattamenti subiti e delle contusioni corporee patite fra cui, principalmente, quella al quadrante inferiore sinistro.

Perrone e Apollaro vengono arrestati ma negano di aver colpito con calci e pugni all’addome Stella Cava e attribuiscono l’aborto allo shock subito dalla donna all’annunzio della caduta del marito da un ciliegio la sera del 10 giugno o da un male preesistente di cui Stella era affetta.

Io non vidi cadere mio marito dal ciliegio e fui avvertita da mia figlia Maria mentre mi trovavo nella mia casetta – dice Stella e le sue parole vengono confermate da due testimoni, che aggiungono:

Non subì per tale fatto una emozione tanto profonde e intensa da influire sul suo stato gravidico, rassicurata anche dal marito.

Il marito, a sua volta, racconta:

Non ritenni nemmeno necessario l’intervento di un medico e mi curai da me stesso.

Gli imputati, però, insistono e affermano, sostenuti da un paio di testimoni:

La donna si portò sul luogo ove era caduto il marito e se lo caricò sulle spalle sforzandosi moltissimo. Poi, la sera del 10 giugno, lavorò pesantemente.

No, le asserzioni degli imputati non convincono nessuno e non convince nemmeno il presunto male preesistente da loro addotto come probabile causa dell’aborto, perché il dottor Longo non ha rilevato l’esistenza di malanni nella Cava che siano potuti essere stati causa o concausa dell’evento. Ma se ciò non bastasse, per smontare il teorema della difesa basta dare un’occhiata agli orari della successione degli eventi di quel tragico 10 giugno 1947: il dottor Longo visitò Stella verso le ore 13 o 14 e rilevò, certificandole, le contusioni con dolenzia all’addome, cioè parecchie ore prima che il marito cadesse dall’albero. Ma per essere certi, gli inquirenti nominano un perito d’ufficio per controllare il lavoro svolto dal dottor Longo e il risultato è identico: solo dopo breve lasso di tempo dalle percosse ha avvertito dolori addominali, da riferire ad incipienti contrazioni uterine.

Allora gli imputati cercano di spostare ancora più indietro nel tempo le minacce di aborto e lo fanno per mezzo della futura suocera di Cristoforo Perrone:

Stella Cava ebbe una forte emorragia il primo giugno

– Siete certa della data?

– L’emorragia l’ebbe in un giorno di giugno che non so precisare, ma probabilmente nei primi del mese – detta così e senza riscontri, la testimonianza non ha alcun valore. L’unico fatto certo e documentato è che Stella ebbe una prima perdita di sangue il 15 giugno, quando fu visitata per la seconda volta dal dottor Longo e non nei primi giorni del mese.

Falliti tutti i tentativi di dimostrare di non essere i responsabili dell’aborto, Perrone e Apollaro vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari, che discuterà la causa l’11 marzo 1949.

Alla Corte, dopo aver letto gli atti ed ascoltati i testimoni, basta ripercorrere date e orari per convincersi della responsabilità degli imputati in merito alle lesioni procurate a Stella Cava, che ne hanno provocato l’aborto. Per quanto riguarda la pena da infliggere, la Corte ritiene di concedere ai due imputati il beneficio delle attenuanti generiche, posto che uno, Giuseppe Apollaro, è incensurato e l’altro, Cristoforo Perrone, ha precedenti solo per pascolo abusivo ed è padre di più figli. Ritenuto che il fatto si sia svolto come denunziato dalla parte lesa, non può competere agli imputati l’attenuante della provocazione, considerato che sin dal 1940, epoca dell’acquisto da parte della Cava e del marito del fondo in questione, questo è sempre stato irrigato (come anche per il passato) con l’acqua della sorgiva Colletta, onde ingiustamente quel giorno Perrone ed Apollaro si erano opposti a che la donna rilevasse, come per l’addietro, l’acqua medesima. Pena equa stimasi anni 4 di reclusione per ognuno degli imputati, partendo da anni 6, diminuiti di un terzo per le attenuanti generiche, oltra alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 16 novembre 1949, rigetta il ricorso degli imputati.

Con Decreto Presidenziale del 12 luglio 1950, è stato concesso agli imputati il condono del resto della pena di anni 4 di reclusione cui furono condannati.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.