LA NOTTE DEL PRIMO DELL’ANNO

È la sera del primo gennaio 1935 e i soldati del 16° Fanteria di stanza a Cosenza Vincenzo Timpani, Gregorio Garzo, Francesco Galluccio e Luigi Napoli, tutti provenienti da paesi della Piana di Gioia Tauro, sono in libera uscita. Dopo aver bevuto un paio di litri di vino nella bettola di Filippo Scarpelli decidono di andare a fare una visitina in casa della prostituta Assunta Russo, dove qualche giorno prima avevano avuto congresso carnale con Filomena Colosimi.

Vincenzo Timpani bussa violentemente ed insistentemente alla porta finché Assunta non apre.

– Vogliamo Filomena! – dice il soldato facendo l’atto di spingere di lato la padrona di casa per entrare.

– Per stasera ve ne potete andare, Filomena non c’è! – gli risponde resistendo alla spinta.

– E noi come facciamo?

– Vi arrangiate da soli! – gli risponde la donna con un sorrisetto ironico sulle labbra.

– Fammi entrare, non ti credo! – le fa, di rimando. A questo punto dietro Assunta appaiono le figure di due uomini e una donna – e questi chi sono?

– Lei è Elisa e loro due sono i nostri amanti, perciò adesso ve ne potete andare!

– E va bene… però fatemi accendere la sigaretta – fa il soldato e uno dei due uomini, Vincenzo Dimattia, gli porge un fiammifero e gli dice:

– Ma vi pare civile il modo come avete bussato? – il tono della voce è alterato e la cadenza appare strana a Timpani, che replica:

Amico, vi siete prolungato abbastanza per questo bussare, favorite fuori che vi debbo pregare una parola!

Dimattia raccoglie la sfida ed esce, seguito da Timpani, Napoli e Garzo. Dopo un brevissimo parlamentare, Timpani gli chiede, quasi a pretesto per alzar le mani:

– Di che paese siete? –

– Rocca Santa Maria vicino Tera.. – gli risponde, ma Timpani non gli fa nemmeno finire di pronunciare l’ultima sillaba che gli molla uno schiaffo. Un attimo di sorpresa e lo schiaffo viene sonoramente ricambiato. È quello che i tre soldati stavano aspettando. In un batter d’occhio estraggono le baionette e feriscono l’avversario. Intanto Assunta, prevedendo che le cose si faranno molto serie, afferra la scure che tiene in casa e accorre in soccorso dell’amante, urlando e roteando minacciosamente l’arma, ma viene subito disarmata da Francesco Galluccio, il quarto soldato, finora rimasto in disparte.

Richiamato dalle urla accorre il Caporal Maggiore Giuseppe Pellegrino, che ordina ai quattro soldati, a Dimattia e ad Assunta Russo di seguirlo in caserma. Mentre si avviano, dietro di loro si forma un corteo di un centinaio di persone che commentano in vario modo l’accaduto; quando arrivano in Piazza Piccola, Pellegrino vede passare l’appuntato Giovanni Russo e lo ferma:

– Aiutatemi a portare questi due soldati in caserma – gli dice indicandogli Timpani e Galluccio – gli altri li porto io.

In questo momento, la folla simpatizzante verso Dimattia e Assunta Russo comincia a vociare pretendendone il rilascio e nel tempo stesso urla contro i soldati, onde Timpani e Galluccio che, per essere rimasti indietro agli ordini dell’appuntato, vengono a trovarsi quasi a contatto con la folla e credono opportuno, per farla allontanare, di estrarre le baionette, roteandole. Ai margini della folla, poggiato ad un muro all’angolo di Via Gaeta, c’è un uomo, Pietro Pappadà, uscito in camicia per cercare suo cognato Giuseppe Capizzano e riportarlo a casa. Timpani lo vede e pensa che sia uscito dal bordello in maniche di camicia, quindi causa della punizione che gli daranno, gli si scaglia contro e, senza dire una parola, gli pianta la baionetta nel petto. Pappadà barcolla, si appoggia al muro e si porta le mani al petto, ma Timpani, che lo crede suo nemico e che forse non crede di averlo colpito gravemente, per giunta gli assesta due ceffoni sul viso. Tra la folla cala il gelo e ciò permette all’appuntato, che quasi brillo non si è reso esatto conto di ciò che è accaduto, di prendere Pappadà e trascinarlo per portarlo in caserma, ma il pover’uomo gli cade ai piedi quasi esanime. Mentre sta accadendo la tragedia, il soldato Garzo viene alle mani con Giuseppe Capizzano, il cognato di Pappadà, e lo colpisce due volte ad un braccio e all’addome con la baionetta, senza però ferirlo. Timpani, accortosi della lite tra il commilitone e Capizzano, corre e colpisce alla testa quest’ultimo con la baionetta adoperata come corpo contundente. Per fortuna il Caporal Maggiore Pellegrino torna sui suoi passi e riesce a trascinare tutti in caserma, dove il soldato Napoli arriva in tale stato di eccitazione, da rendersi insubordinato e per giunta bestemmiando e imprecando. Ma poco dopo arrivano i Carabinieri e l’eccitazione viene sedata perché c’è poco da scherzare, visto che Pappadà non è nemmeno riuscito a varcare il portone dell’ospedale perché è morto e viste le decine di testimonianze a carico dei militari, soprattutto a carico di Timpani, in riferimento all’omicidio, di cui gli è stato appena fatto carico:

Sono stato schiaffeggiato da persona sconosciuta e poscia aggredito da un uomo armato di coltello o di rasoio… mi sono dovuto difendere, perciò l’ho colpito…

Ovviamente non può essere andata così perché, come dicevamo, sono decine le deposizioni che ricostruiscono i fatti in modo opposto. Le cose sono così chiare che anche il soldato Galluccio pensa bene di raccontare i fatti esattamente come sono avvenuti:

Quando Timpani si scagliò contro l’uomo, questi se ne stava distante, poggiato alla cantonata di Via Gaeta ed esso Timpani, raggiuntolo, gli vibrò il colpo

Può bastare, ma i tempi si allungano e solo il 2 dicembre 1935 il Giudice Istruttore emette la sentenza di rinvio a giudizio: Vincenzo Timpani dovrà rispondere di omicidio volontario ai danni di Pietro Pappadà e lesione con arma ai danni di Vincenzo Dimattia; Gregorio Garzo, Francesco Galluccio e Luigi Napoli di lesione con arma ai danni di Vincenzo Dimattia; Gregorio Garzo anche di tentate lesioni con arma ai danni di Giuseppe Capizzano; Assunta Russo di minaccia di un ingiusto danno in pregiudizio dei quattro soldati. Tutti gli imputati, più Vincenzo Dimattia e Giuseppe Capizzano, di partecipazione in rissa.

La causa si discute il 21 ottobre 1936 davanti alla Corte d’Assise di Cosenza.

Letti gli atti ed ascoltati i testimoni, la Corte affronta la richiesta della difesa di Vincenzo Timpani per il riconoscimento dello stato di legittima difesa e l’assoluzione per tutti i capi d’imputazione. La Corte osserva che in merito all’omicidio sulla materialità del fatto non possono sorgere dubbi perché lo stesso imputato confessa di aver ferito Pappadà. Egli vuole però andare esente da pena sostenendo maliziosamente di avere agito in stato di legittima difesa. Egli ha ben compreso che se non ricorrono il pericolo di un’offesa ingiusta e la necessità di difendersi, è vano invocare la discriminante della legittima difesa. Però, per disperata risorsa difensiva è costretto a creare, con la fantasia, le condizioni per le quali la sua asserita difesa sarebbe divenuta legittima. Il povero Pappadà, che era accorso in camicia fra la folla per cercare il di lui cognato ed indurlo a rincasare, non aveva armi di sorta, né fece minaccia alcuna, nemmeno verbale, né tampoco si trovò fra quelli che stavano alle calcagna di Timpani difatti, per quel che si apprende dal teste oculare Antonio Selvaggi, il Pappadà stava a distanza di quattro o cinque metri dal punto in cui l’imputato, estraendo la baionetta, allontanava coloro che gli stavano dappresso. E per le affermazioni dell’altro imputato Galluccio, il quale non può davvero essere sospettato di calunnia ai di lui danni, ci è dato conoscere che quando Timpani si scagliò contro Pappadà, questi se ne stava, distante, poggiato alla cantonata di Via Gaeta ed esso Timpani, raggiuntolo, gli vibrò il colpo. Ciò posto, egli non fu spinto dalla necessità di difesa perché, sbandata la ciurma, nessuna offesa gli venne da Pappadà, né poteva ragionevolmente pensare che dalla presenza di costui, inerme e non minaccioso, dovesse temere per la propria incolumità.

La Corte, però, ritiene che Vincenzo Timpani non ebbe la volontà di uccidere, ma solo di ledere: lo dimostrano l’unicità del colpo inferto ed il fatto di avere schiaffeggiato l’avversario dopo averlo ferito. Poi, sorprendentemente, afferma che Timpani è meritevole delle attenuanti di avere agito in stato d’ira per fatto ingiusto altrui (il fatto di avere scambiato la vittima per un cliente del bordello col quale pensava di aver già litigato) e per motivo di particolare valore morale (la difesa dell’onore della divisa che indossa), attenuanti prevalenti sull’aggravante dell’arma.

Nessun dubbio, inoltre, sulla responsabilità di Timpani, Luigi Napoli e Gregorio Garzo in merito al reato di lesioni con arma commesso in concorso tra loro in danno di Dimattia Vincenzo.

Detto ciò, la Corte condanna Vincenzo Timpani, concesse le attenuanti, alla pena complessiva di anni 4 e mesi 10 di reclusione; Luigi Napoli e Gregorio Garzo a mesi 4 di reclusione. Per tutti le spese, i danni e le pene accessorie.

Poi c’è il reato di rissa per tutti gli imputati e la Corte, non ritenendo di ravvisare gli estremi del reato, li manda tutti assolti.

Assolve Francesco Galluccio dalla imputazione di lesione in danno di Vincenzo Dimattia e assolve Gregorio Garzo dal reato di tentata lesione in danno di Giuseppe Capizzano.

Infine, assolve Assunta Russo dal reato di minaccia a mano armata perché il fatto non costituisce reato.

È il 21 ottobre 1936.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.