LA MATTINA DELLA VIGILIA

È la mattina del 24 dicembre 1935, alcuni bambini stanno giocando in una strada di San Giovanni in Fiore quando Mario Gallo, 8 anni, e Francesco Rosarino, 12 anni, litigano e si azzuffano. Le urla dei bambini richiamano l’attenzione delle loro madri, che accorrono e si azzuffano a loro volta cadendo a terra l’una sull’altra: la madre di Francesco sotto e quella di Mario sopra. Adesso le urla sono altissime e Antonio Gallo, il fratello ventitreenne di Mario, riconosciuta la voce della madre, esce sulla porta della sua bottega di calzolaio con il martello del mestiere in mano. Alla vista della duplice rissa (in quanto ad otto metri circa di distanza litiga il fratello e più vicino, a cinque metri, si trova la mamma accapigliata e formante groviglio con Francesca Romano, madre di Francesco), imprecando per aver dovuto lasciare il lavoro a metà lancia inconsultamente e repentinamente a volo il martello, che nella sua traiettoria, diretta non si sa contro chi, va a colpire in piena fronte la bambina di otto anni Giovanna Oliverio, la quale casualmente si trova a passare da lì. Le urla cessano di colpo mentre Antonio corre dalla bambina, la prende in braccio e la porta in casa sua per prestarle i primi soccorsi, poi manda a chiamare la mamma e il medico.

Frattura dell’osso frontale sinistro. La diagnosi è impietosa e Giovannina peggiora di giorno in giorno, terminando la sua agonia il 7 gennaio 1936.

Omicidio preterintenzionale è l’accusa che viene mossa ad Antonio Gallo, che si difende:

– Sono uscito per ingiungere al mio fratellino di rincasare… alzai con forza il braccio destro, nella cui mano tenevo il martello, ma il ferro, distaccandosi dal manico, roteò per l’aria andando poscia a cadere sulla bambina, la quale al colpo stramazzò al suolo, onde io, sollecitamente raccoltala, la ricoverai in casa mia apprestandole le prime cure fino a che la di costei madre, avvisata dell’accaduto, non venne a rilevarla.

Ma i testimoni oculari ascoltati lo smentiscono, non è vero che il ferro si distaccò casualmente dal manico, ma il martello fu lanciato intero. È questa la versione dei fatti accettata dagli inquirenti, Antonio viene arrestato ed il 30 aprile 1936 il Giudice Istruttore, ritenendo che il fatto avvenne per avere il Gallo voluto lanciare il martello contro Francesca Romano, colpendo per errore la bimba, lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio preterintenzionale commesso per errore.

La causa si discute il 26 giugno 1936 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva in linea di principio: è pacifico che a base dell’omicidio preterintenzionale debbono stare: 1) un fatto volontario e libero di aggressione alla persona fisica altrui; 2) l’intenzione di ledere; 3) l’evento della morte che avviene oltre l’intenzione per aver superato il fine che l’agente si era proposto. Consegue che se l’autore materiale del fatto arrecante la morte non ha avuto l’intenzione neppure di ledere, egli per mancanza di dolo (tanto specifico che generico) non può essere responsabile di omicidio perfetto, né di omicidio preterintenzionale. Ma se il fatto, nonostante la mancanza del dolo, si verifichi per una delle cause nelle quali riposa la colpa per negligenza, imprudenza, imperizia, eccetera, si risponderà di omicidio colposo a titolo di responsabilità obiettiva.

Questa introduzione di carattere generale serve alla Corte per estrinsecare ciò di cui è convita: in concreto è da escludere che Gallo Antonio abbia avuto intenzione di ferire, nonostante il Brigadiere dei Carabinieri e una testimone abbiano congetturato che egli lanciò il martello contro la Romano, poiché tutti i testi presenti al fatto hanno negato tale circostanza, affermando alcuni che il martello sfuggì di mano, altri di ignorare l’intenzione dell’imputato.

E spiega come è arrivata a questa conclusione: è intuitivo che se Gallo avesse voluto colpire, si sarebbe comportato assai diversamente perché, piuttosto che lanciare il martello a distanza con possibilità dell’aberractio ictus, si sarebbe avvicinato alla vittima designata superando i cinque metri che da questa lo dividevano e poscia colpirla direttamente ed efficacemente. Se così non fece è da dubitare della di lui intenzione di ledere. Peraltro mancava di causale proporzionata per essere trascinato per un tale fine, giacché, dopo tutto, si trattava di una incruenta baruffa fra donnicciuole; lè la di lui madre, in difesa della quale si suppone egli sia intervenuto, ebbe a correre alcun pericolo. Di vero, per le stesse dichiarazioni della Romano Francesca, colei che nella baruffa ebbe la peggio, fu proprio costei che cadde subito a terra e la madre di Gallo le fu addosso onde, anche per questa circostanza è da escludere che l’imputato avesse lanciato il martello contro la Romano poiché, stando di sotto, rimaneva coperta dal corpo dell’avversaria e quindi il lancio di cose (martello o altro) direttamente contro di lei non poteva che colpire chi le stava sopra, cioè la madre dell’imputato. E sarebbe azzardato supporre che Gallo di ciò non tenesse conto.

Adesso la Corte spende qualche parola per descrivere la personalità di Antonio Gallo: l’imputato, descritto come una persona eminentemente calma e pacifica, non deve avere la disposizione a consumare atti di violenza. Egli, troppo compreso dalla necessità di guadagnare il pane pei fratellini, di cui in seguito all’abbandono paterno ha assunto la protezione, ha ben altro da pensare che lanciar di proposito micidiali martelli sulle teste delle persone.

Ma c’è un ma: non può negarsi, è vero, ch’egli il martello l’abbia lanciato, ma ciò egli fece certamente per un gesto di irriflessa iattanza o forse anche per compiere una minaccia che valesse a far desistere tutti i contendenti, grandi e piccoli, dal litigare. Comunque il lancio di quel martello, fatto in un angusto spazio di strada, laddove trovavasi tanta gente, fu imprudenza e quindi il non voluto evento della morte della bambina deve andargli attribuito a titolo di colpa. Doveva, infatti, egli prevedere che il martello poteva colpire qualcuno ed astenersi dal lanciarlo a volo, ma, sovratutto, egli col suo atto contravveniva al divieto che è nelle norme generali per cui è proibito il lancio di oggetti o cose là dove vi è assembramento di persone. Né è da credere quel che nelle esagerazioni delle sue discolpe il prevenuto ha creduto opportuno di affermare e cioè che il fatto è dipeso dall’inopinato distaccarsi del martello dal manico, essendo stato ciò negato dai testi presenti. Egli deve rispondere di omicidio colposo, ma in considerazione degli ottimi precedenti penali dell’imputato, che dimostrano che egli ha sufficiente conoscenza dei suoi doveri e non è affatto pericoloso, credesi equo condannarlo alla pena di anni 1 di reclusione, col beneficio della sospensione condizionale della pena per cinque anni. Oltre, ovviamente alle spese ed ai danni.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.