ILLEGITTIMA DIFESA

Dal mese di febbraio alla fine di aprile1936 una impressionante serie di furti – solo quelli commessi da ignoti assommano a 74 – investe la cittadina di Palmi. Anche la bella palazzina sita nei pressi del giardino pubblico che i ricchi signori di Gioia Tauro Rodolfo e Carlo Castellani hanno a Palmi, dove vanno di tanto in tanto e specialmente d’estate, è stata “visitata” più volte nello stesso periodo dai ladri, che hanno involato utensili da cucina, vino, olio, sapone, un materasso di lana, un guanciale di lana e perfino il sifone di un lavandino col relativo tubo di piombo, il tutto per il valore di ottocento lire. L’assiduità dei furti e la roba portata via cominciano a far sospettare che tra i ladri, o forse l’unico ladro, possa esserci un vicino di casa. Perché questo sospetto? Per la conformazione del fabbricato, che è composto da molti vani distribuiti in scantinato, pianterreno e primo piano, coperta parte a tetto e parte a terrazza. Proprio la terrazza è il punto debole in quanto vi è una botola (che si chiude mercé uno sportello con semplice maniglia) nella quale si dirama un grosso tubo di scarico del cesso che, quasi dal piano della terrazza scende al sottostante pianterreno, onde chi penetra nella botola può, aggrappandosi al tubo, accedere ad un vano del pianterreno e da questo spaziarsi per tutta la casa. Va bene, ma come salire sulla terrazza? Semplice, scalando il discendente della grondaia.

Dicevamo dei sospetti su un vicino di casa come possibile autore dei furti. Secondo i fratelli Castellani si tratterebbe dello stagnino Egidio Genovese, detto Carmelo, ma meglio conosciuto col soprannome di Suricillo, dovuto alla sua statura. Suricillo ha una piccola baracca che gli serve da laboratorio accanto alla casa di sua nonna, sita nel vicolo a nord della palazzina dei Castellani e, di più, conosce bene il fabbricato perché ha realizzato per i proprietari l’impianto idrico e gli scarichi fognari. Ma, ovviamente, è solo un sospetto perché contro di lui non c’è il benché minimo indizio.

Quando Girolamo Castellani torna a Palmi il 30 aprile e scopre l’ultimo furto, va a sporgere l’ennesima denuncia e formalizza ancora una volta i suoi sospetti su Suricillo e per l’ennesima volta i Carabinieri procedono a perquisire sia l’abitazione che il laboratorio senza trovare nulla di compromettente. Tornato alla palazzina (ancora non del tutto rifinita e senza l’allaccio della corrente appunto perché i Castellani risiedono abitualmente a Gioia Tauro) a Girolamo viene consegnato un biglietto indirizzato a suo padre, con l’invito da parte del Sindacato Agrario di recarsi quello stesso pomeriggio alle 18,00 alla sede del fascio “per comunicazioni che la riguardano”. Tornato a Gioia Tauro consegna l’invito ai fratelli Carlo e Rodolfo in considerazione che essi si occupano della gestione degli affari di campagna e delle pratiche relative.

Nel pomeriggio, Carlo e Rodolfo vanno a Palmi per sbrigare la faccenda, ma si mette a piovere a dirotto e la sede del fascio è chiusa. Decidono di andare alla palazzina per aspettare che spiova ma, dopo un’ora di attesa vana pensano sia inutile attendere ancora e, prima di mettersi in viaggio per tornare a Gioia Tauro, fanno il giro della palazzina per controllare che tutto sia in ordine. Rodolfo controlla le stanze di un lato facendosi luce con una lampadina tascabile e Carlo quelle dell’altro lato facendosi luce con dei fiammiferi. Mentre Carlo sta controllando le imposte della prima stanza, si avvede che la terza stanza in fondo improvvisamente si illumina, riuscendo a discernere la sagoma di un uomo che porta in mano una candela accesa. Un ladro! Sgomento, urla al fratello di aiutarlo e nello stesso tempo imbraccia un fucile che da tempo si trova in quella prima stanza e spara due colpi, senza però colpire lo sconosciuto, che immediatamente spegne la candela e si nasconde.

Da questo momento in poi non c’è certezza su ciò che accade nella palazzina. Cominciamo con la versione dei fratelli Castellani: Carlo, sparati i due colpi di fucile abbandona l’arma ed apre la finestra per far luce nella stanza. Alle sue grida ed alle detonazioni interviene Rodolfo che spara, a brevissima distanza, due colpi di rivoltella – presa da un tavolo posto nella stanza dove si trovava – alle spalle dello sconosciuto e poi entra in colluttazione con lui, dandogli una buona serie di cazzotti. Lo sconosciuto, riesce a svincolarsi, ad uscire da una porta di servizio e nel darsi alla fuga passa sotto alla finestra aperta, inseguito da Rodolfo, che è saltato da quella finestra, alta dal suolo poco più di un metro. Lo sconosciuto corre sulla strada rincorso da Rodolfo, che lo raggiunge dopo circa 130 metri, nei pressi di casa Militano e lo blocca. Anche Carlo scavalca la finestra e corre dietro ai primi due e quando arriva davanti al portone di casa Militano trova il fratello che ha acciuffato il ladro, che altri non è se non Suricillo. Insieme lo spingono nello studio dell’avvocato Alessi e, dopo averne assicurato la custodia, Carlo va a chiamare i Carabinieri, che dichiarano il ladro in arresto. Poi Rodolfo torna alla palazzina, chiude la finestra e i due fratelli tornano a Gioia Tauro.

Suricillo gronda sangue dalla testa e viene portato nella farmacia Duccisano per essere medicato, ma gli vengono riscontrate anche due ferite da arma da fuoco e viene trasportato in ospedale per un delicato intervento chirurgico all’addome. Ripresosi dall’anestesia, racconta le cose in modo completamente diverso (tralasciando la parte con la quale tenta di nascondere di essere entrato in quella casa per rubare): intesi tre colpi di arma da fuoco e, preso dal panico, fuggii. Rodolfo mi tirò due colpi di arma corta in strada, poscia mi raggiunsero entrambi i fratelli e mi percossero; Rodolfo mi morse anche al mento e al naso.

In effetti il dottor Alessio Hembert gli riscontra, oltre ad una ferita da rivoltella al braccio destro con foro di entrata dalla faccia latero posteriore e senza foro di uscita, ad un’altra ferita da rivoltella sparato a pochi metri, entrando il proiettile in corrispondenza della spina iliaca antero superiore destra, penetrò in cavità con percorso da destra a sinistra, leggermente dal basso in alto, cagionando lesione del colon ascendente, sia i segni dei morsi e contusioni multiple alla testa prodotte da corpo contundente (la canna della rivoltella), nonché all’emitorace destro ed alla coscia sinistra. Cosa vogliono dire le ferite da arma da fuoco? Vogliono dire che Rodolfo ha mentito. Intanto perché non ha sparato a bruciapelo con la sua calibro nove caricata con proiettili corazzati, altrimenti non si spiegherebbe la ritenzione del proiettile nel braccio. Ha mentito perché non ha sparato entrambi i due colpi alle spalle in quanto la ferita all’addome è segno inequivocabile che Suricillo gli stava di fronte. Ha mentito perché, essendo stati i colpi sparati dal basso in alto, vista la differenza di statura tra Rodolfo, alto, e Suricillo, basso, non è possibile che i colpi siano stati esplosi in casa, dove i due si trovavano sullo stesso piano, mentre è evidente che, al momento degli spari, Suricillo si trovava più in alto di Rodolfo e cioè sulla strada sulla quale correvano in leggera salita. La dinamica più probabile è che durante la fuga, Suricillo si voltò per controllare se fosse ancora inseguito e a che distanza, eventualmente, fosse l’inseguitore e proprio mentre si girava fu raggiunto prima al braccio e poi all’addome. Intanto Suricillo si aggrava e l’8 maggio muore per le conseguenze della ferita all’addome e i fratelli Castellani vengono arrestati con l’accusa di concorso in omicidio volontario.

Ma il dubbio è se Rodolfo Castellani sparò, come dicono lui e suo fratello Carlo, in casa oppure mentre inseguiva Suricillo per strada, come sostiene quest’ultimo. La questione non è da poco perché nel primo caso si tratterebbe di legittima difesa, come sostengono gli imputati, nel secondo di omicidio volontario, come sostengono gli inquirenti. Un testimone oculare, Salvatore Gullì, potrebbe risolvere la questione quando si presenta agli inquirenti:

La sera del 30 aprile, trovandomi in vicinanza del giardino pubblico, preso dal bisogno di orinare mi diressi all’orinatoio posto quasi all’ingresso principale del giardino; vidi un individuo inseguito da due giovani che gli sparavano colpi di rivoltella, onde io, impaurito, invece di proseguire verso il giardino cambiai strada imbattendomi in Raffaele Campanella, che mi domandò cosa fosse successo ed io gli risposi che si stavano sparando. Non conobbi né l’inseguito e né gli inseguitori e non so precisare se entrambi gli inseguitori sparavano o uno soltanto: i colpi furono quattro o cinque.

Quindi i colpi di rivoltella furono esplosi per strada e non furono due, ma quattro o cinque e così la versione dei fratelli Castellani perde di credibilità e la credibilità è quasi nulla quando si scopre che Gullì, dopo aver ritrattato la sua dichiarazione ed essere stato denunciato per falsa testimonianza, fa un passo indietro, conferma la sua prima versione e confessa di essere stato indotto a ritrattare da tal Giacinto Giuseppe, il quale gli promise che i Castellani lo avrebbero compensato con lire duemila.

I fratelli Castellani vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Palmi e la causa si discute nelle udienze dal 17 al 21 giugno 1937. Lungo il corso del dibattimento depongono tre testi auricolari i quali dichiarano che la sera del fatto, trovandosi nella vicina sede della Società Elettrica, verso le 19,30 sentirono cinque colpi consecutivi di rivoltella provenienti dalla villa comunale. Uno dei testi aggiunge che, tosto uscito, vide un individuo che attraversava di corsa la seconda traversa di Via Roma e lo seguì fino a che il detto individuo raggiunse e si accostò ad altri due, che sembravano afferrati come se colluttassero. Nei tre riconobbe i fratelli Castellani e Carmelo Genovese alias Suricillo. Quindi questa testimonianza implicitamente conferma che le revolverate furono esplose da Rodolfo Castellani a centinaia di metri dalla palazzina. La Corte vuole vederci chiaro e ordina un esperimento sui luoghi indicati dai testi per verificare se gli spari esplosi dentro il fabbricato sono udibili dall’interno della sede della Società Elettrica ed il risultato è che, sebbene le detonazioni siano udibili, non hanno la stessa tonalità e cioè quelli uditi dai testi la sera del 30 aprile furono più forti di quelli sentiti nell’esperimento.

Dovrebbe essere tutto chiaro, ma al termine del dibattimento la Corte di Palmi giudica che tanto le fucilate quanto le revolverate furono esplose in casa, poggiandosi sulle affermazioni dei Castellani, che considera ben motivate mentre, al contrario, opina che tanto il Genovese nelle sue affermazioni, che il teste Gullì nelle sue dichiarazioni non meritino alcuna credibilità. Perciò, motivando che i due prevenuti agirono nello stato di legittima difesa quanto meno putativa ed escludendo che avessero imprudentemente varcato i limiti della difesa o che, comunque, ci fosse stata sproporzione tra il supposto pericolo alla vita e la loro difesa, assolve i fratelli Carlo e Rodolfo Castellani.

Il Pubblico Ministero ricorre immediatamente contro la sentenza, motivando che i Castellani non corsero pericolo e che essi aspettavano il ladro, diversamente non avrebbero avuto motivo di recarsi a Palmi, né di stare in casa al buio; che la lettera del Sindacato, agli atti, non è autentica; che non si dovevano ispezionare le finestre essendo state già tutte chiuse dal fratello dei prevenuti in quella stessa giornata; che essi ben sapevano che il ladro era Suricillo e quindi non avevano di che temere; che, anzi, essi avevano preparato le armi per ucciderlo; che il decorso della ferita dal basso in alto dimostra che Genovese – piccolo di statura – fu sparato mentre trovavasi in un piano più alto e quindi non nella stessa stanza, diversamente il decorso sarebbe stato dall’alto in basso; che i colpi di rivoltella non furono sparati a bruciapelo, né alle spalle come ha affermato l’imputato Rodolfo Castellani, essendo stata la ferita al braccio cagionata da arma esplosa a distanza e quella in corrispondenza alla spina iliaca da arma sparata quasi di fronte.

L’8 aprile 1938 la Corte di Cassazione accoglie il ricorso e annulla la sentenza della Corte d’Assise di Palmi motivando che non si può non rilevare il manifesto difetto di motivazione, non avendo la Corte d’Assise esaminate le circostanze in cui erano state prodotte le ferite di rivoltella, limitandosi ad affermazioni apodittiche che, come quella di aver dato senz’altro la taccia di falso testimone al Gullì e non avendo neppure esaminato con la dovuta accuratezza le altre ipotesi che sul fatto potevansi raffigurare. Ad occuparsi del nuovo processo sarà la Corte d’Assise di Cosenza nelle udienze dal 3 all’11 luglio 1939 ed il primo atto che la Corte compie è quello di trasferirsi a Palmi per effettuare un sopralluogo e constatare, così, l’esattezza dei precedenti verbali e schizzi topografici agli atti. Poi, ascoltati i testimoni e letti gli atti, la Corte osserva: è pacifico che quando i Castellani si accorsero di essere stati rubati pensarono che i furti fossero stati commessi da più persone e che non fosse estraneo il Genovese. Niente di più naturale, pertanto, che quando in quella sera burrascosa Carlo Castellani vide improvvisamente illuminarsi un angolo della sua casa, terrorizzato, intuisse l’intervento di una masnada di ladri e di uno di essi ne intravide la sagoma. È spiegabile, quindi, l’angoscioso grido di aiuto da lui emesso e la concitazione che lo assalse fu così grave da fargli fare cattivo uso dell’arma. Evidentemente, quando egli reagì sparando dovette credere già minacciati non solo il diritto all’inviolabilità del domicilio, ma anche la sua vita e quella del fratello, nonché i suoi beni. I beni costituiscono un interesse così grande che la necessità di conservarli fa parte del retaggio più sensibile della società attuale, onde il difenderli è quasi un dovere. Per negare ch’egli corresse o credesse di corre pericolo, si è dovuto gratuitamente affermare che tanto egli che il fratello si trovassero in agguato aspettando l’arrivo del Suricillo che, per essere un misero essere non poteva divenire aggressivo né pericoloso. La supposizione dell’agguato è erronea!!! Essa è smentita dagli avvenimenti e dalla logica. Escluso l’agguato, si deve convenire che Carlo Castellani, all’improvviso bagliore della candela accesa dal ladro, dovette rimanere sinistramente impressionato e non sarebbe far giustizia se si negasse che quando sparò le fucilate egli agì per legittima difesa, quanto meno putativa. La privata accusa vorrebbe negargli la discriminante per l’atteggiamento successivo alle fucilate e precisamente perché egli avrebbe rincorso il ladro nell’atto che veniva fatto segno a revolverate ad opera di Rodolfo. Non si ha alcun elemento per affermare che anch’egli saltò dalla finestra al fine di inseguire e fare violenza al ladro o non piuttosto per correre dietro al fratello, come era più logico, ed impedire che quistionasse o per proteggerlo da eventuale aliena violenza. Sapeva, forse, Carlo Castellani che suo fratello inseguiva il ladro per ucciderlo? È da escluderlo, quindi non gli si può fare carico di concorso nel delitto che il fratello poscia ebbe a consumare e deve andare assolto perché non punibile.

Da queste parole è evidente che il ragionamento fatto per Carlo Castellani non può valere per suo fratello Rodolfo, il quale sparò contro al ladro che fuggiva, senza che vi fosse costretto dalla necessità di difendere alcun diritto suo o di altri. Bastava che egli si fosse fermato in casa per essere al riparo da qualsiasi pericolo che potesse provenirgli dal ladro che, con la fuga, disertava il campo! Rodolfo, accortamente, a scopo difensivo si è affannato di far credere che sparò contro lo sconosciuto entro la di lui casa nel momento che accorse al richiamo del fratello invocante aiuto, che suppose in imminente pericolo. Ma, viceversa, tutto induce a giudicare che egli sparò contro al ladro, che fuggendo era divenuto manifestamente innocuo, esplodendo l’arma dalla strada mentre lo inseguiva per acchiapparlo, riconoscerlo e consegnarlo ai Carabinieri e, poiché il ladro non si faceva raggiungere, lo sparò. Per raggiungere il fine di fermare il ladro non badò ai mezzi. Superò ostacoli scavalcando finestre, sparò iteratamente sul bersaglio pur non ignorando la fatale efficacia della sua arma di grosso calibro e con i proiettili blindati. Non sospese l’inseguimento, anche a rischio di scivolare e farsi male, finché non raggiunse la preda e quando le fu addosso, saturo di odio, la percosse più volte con la canna della rivoltella e perfino lo morse. Egli, così agendo, non si difendeva, ma aggrediva perché la sua azione veniva a svolgersi al di fuori e contro le condizioni che legittimano la difesa, non sussistendo il pericolo, né era ragionevole immaginarlo mancando la necessità della reazione e non essendo più in giuoco alcun diritto tutelabile. Tutti gli elementi convincono che Rodolfo sparò dalla strada su vittima che fuggiva.

Pare che le cose si mettano molto male per Rodolfo, ma la Corte ha un dubbio: egli sparò per uccidere? La risposta non può essere che negativa. E spiega: il di lui atteggiamento durante e dopo il delitto e le parole da lui pronunziate tosto venuto a contatto con la vittima “farabutto, eri tu il ladro, dopo che ti abbiamo cresciuto!”, dimostrano che egli sparò per fermare lo sconosciuto al fine di identificarlo e consegnarlo ai Carabinieri, come in effetti fu subito consegnato. A lui dovette sembrare umiliante di non riuscire ad acciuffare il ladro, quel ladro che aveva osato sfidare la sua collera e quella del fratello fin nella loro casa. Spinto da questo ulteriore rimprovero, si lanciò all’inseguimento e pur di ottenere il fine non badò ai mezzi. Se avesse voluto uccidere avrebbe continuato a sparare quando acciuffò il ladro (in realtà aveva finito i colpi. nda) e non si sarebbe limitato a percuoterlo con la canna dell’arma e morderlo. Non avendo avuto l’intenzione di uccidere, devesi degradare la rubrica in omicidio preterintenzionale e poiché a tale delitto fu trascinato dall’opera illecita della stessa vittima, devesi concedergli il beneficio dello stato d’ira determinato da fatto ingiusto della vittima nell’applicazione della pena deve essere bandita ogni severità, non dovendosi trascurare che l’imputato è senza precedenti penali, che fu trascinato al delitto più dall’apprezzabile fine di consegnare il ladro alla Giustizia punitiva, che dal piacere della personale vendetta. Ma tale finalità, poiché non è perfettamente monda da fine egoistico, non merita il beneficio della diminuente del particolare valore morale e senza dubbio impone benignità di misura nei riguardi della pena. Credesi equo pigliare come pena base il minimo legale di anni 10 di reclusione che, diminuiti di un terzo per la provocazione, si riducono ad anni 6 e mesi 8. E poiché la degradazione della rubrica in omicidio preterintenzionale fa rivivere l’aggravante dell’arma, credesi proporzionato, per questa aggravante, l’aumento di soli giorni 10, onde la pena complessiva sarà di anni 6, mesi 8 e giorni 10 di reclusione. Le pene accessorie seguono di diritto. Nulla osta all’applicazione del condono di anni 2 della pena ai sensi del R.D. 15 febbraio 1937, n.77.

Ci sono da rifondere i danni e la Corte osserva: i danni debbono andare liquidati, com’è costante giurisprudenza, tenuto speciale conto della condotta del danneggiato per cui, a seconda che questa abbia contribuito o non nella produzione dell’evento delittuoso, sarà liquidata una maggiore o minore somma, come insegna il Supremo Collegio.

Nella fattispecie, affermato che Rodolfo Castellani fu trascinato al delitto dal fatto ingiusto della vittima, i danni vanno liquidati complessivamente e definitivamente in lire ventimila in favore della vedova e dei tre figli, in ragione di lire cinquemila ciascuno. Altre lire cinquemila vanno alla madre della vittima, nonché lire dodicimila in favore degli avvocati Managò e Rovere, da dividersi in parti uguali. Per la salvaguardia degli interessi degli orfani, la Corte crede necessario ordinare che le lire quindicimila a loro spettanti siano depositati in tre libretti di un Istituto di Credito di lire cinquemila ciascuno e con vincolo pupillare sotto la personale responsabilità di chi redigerà l’atto e dello stesso debitore.

È l’11 luglio 1939.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.