I LEALI E CARI AMICI

La mattina del 20 dicembre 1935 i contadini di Papasidero Angelo Antonucci, ventottenne, e Domenico Oliva, ventenne, vanno a Mormanno. Il primo porta sulle spalle un sacchetto con una piccola quantità di arance che vuole vendere al mercato ed il secondo per comprare un paio di scarpe con in tasca 50 lire fornitegli dai genitori. Arrivati a Mormanno i due si separano per sbrigare le loro faccende.

Anche il cinquantanovenne Enrico Grassato, che risiede abitualmente nella contrada Savelli, è andato a Mormanno per prender parte ad una festa di famiglia, cioè alla richiesta di pubblicazione del matrimonio di una sua figliuola. Per combinazione, quando tutti e tre hanno sbrigato i propri affari si incontrano e siccome Grassato e Antonucci sono amici, Grassato, essendo persona di indole gioconda e molto incline alla socievolezza ed all’ospitalità, fa loro le più liete accoglienze e li invita a bere vino in una bettola. Poi li invita a pranzo in casa sua, dove bevono altro vino. Verso le tre di pomeriggio Grassato, dovendo pagare il prezzo di certe lastre di vetro, va con i due amici dal commerciante Gaetano Sarno e gli consegna una moneta d’argento da lire 20, che prende da una delle tasche del corpetto, facendo tintinnare le altre monete simili in quello contenute.

Antonucci e Oliva capiscono che l’anziano ha una discreta quantità di monete d’argento, si guardano, si fanno un cenno e decidono, senza nemmeno parlarsi, di derubarlo, confidando che non avrebbe opposto resistenza e, nella peggiore ipotesi, non li avrebbe denunziati per la sua indole bonaria ed anche in considerazione dell’amicizia che corre con Antonucci.

È ora di tornare a casa. Pioviggina, fa freddo e Grassato propone ai due amici di partire insieme, così tutti e tre si avviano, mentre un figlio dell’anziano, Domenico, ed il futuro genero Salvatore Bloise, li seguiranno dopo poco. Verso le 18,00 i tre arrivano nella proprietà di Luigi Pandolfi, poco distante dalla casa di Grassato, e poiché la pioggia è aumentata di intensità cercano riparo in casa di Bloise, che li accoglie amichevolmente e li invita a dormire lì, visto che ormai si è scatenato un forte temporale.

– Grazie, stai tranquillo, adesso andiamo a casa mia, che ci vuole? Non ci sono nemmeno trecento metri e se non smette di piovere i miei amici saranno miei ospiti per la notte – rifiuta cortesemente Grassato.

Dopo una mezzoretta i tre amici si congedano per riprendere il cammino e Pandolfi vorrebbe almeno dargli una lanterna. La prende, ma manca un vetro ed il vento la spegnerebbe subito, così prende un lume a petrolio e li accompagna per il breve tratto che separa la casa dalla via comunale, poi gli viene in mente che nelle vicinanze c’è un pericolo e li avvisa:

– Vedete che qui intorno c’è un pozzo artesiano senza protezione, state attenti a dove mettete i piedi perché potreste precipitarci dentro e lasciarci la pelle!

– Stai tranquillo, conosco bene l’ubicazione del pozzo perché ci ho lavorato quando è stato scavato – risponde Grassato e Pandolfi si ritira a casa chiudendo la porta.

Giunti nelle vicinanze del pozzo, Antonucci e Oliva, trasformandosi da leali e cari amici in brutali delinquenti, aggrediscono l’anziano, lo fanno stramazzare a terra, lo malmenano per vincerne l’inattesa resistenza e, per impedirgli di gridare, gli turano la bocca ficcandogli dentro un lembo del mantello che la vittima indossa.

L’impressione pungente, triste, sconfortata, risentita dal misero uomo pel tradimento e l’inaudita sfrontatezza ed audacia dei due malfattori, le strette, gli urti, gli spintoni, le percosse di ogni specie subite prima di cadere a terra, dove viene calpestato e preso a calci, gli provocano un forte shock nervoso, che agendo su di lui sessantenne, stanco del cammino, delle emozioni della giornata, indebolito dal vino bevuto e con l’azione esterna esercitata sulle vie aeree, lo portano alla morte.

Quando i due malviventi si accorgono che stanno infierendo su di un cadavere, bestemmiano.

– E ora che facciamo?

– Prendiamogli i soldi e sbarazziamoci subito del cadavere, il figlio ed il genero potrebbero arrivare da un momento all’altro.

– E come?

– Lo buttiamo nel pozzo così non lo troveranno.

– Va bene.

Così prendono il cadavere uno per le spalle e l’altro per i piedi, lo avvicinano alla pozza di acqua che si è formata intorno alla bocca del pozzo per la pioggia, ve lo adagiano e poi con un palo lo spingono fino all’apertura e lo fanno scivolare nel pozzo. Buttano dentro anche l’ombrello e il cappello della vittima, dopo avere in ciascuno di essi collocato un sasso a fine di farli affondare. Poi dividono il bottino, si salutano e si allontano.

Intanto a Mormanno Domenico Grassato ed il futuro cognato decidono di non partire a causa della pioggia battente. E non partono nemmeno il giorno dopo, 21 dicembre, perché pioggia non accenna a smettere di cadere a dirotto. Domenico è ben sicuro che il padre sia giunto a casa in contrada Savelli e che Oliva e Antonucci hanno proseguito il cammino fino a Papasidero. Il 22 il tempo si rimette e Domenico torna in contrada Savelli, ma con grande sorpresa il padre a casa non c’è e nessuno dei vicini sa che fine abbia fatto. Poi va a casa di Luigi Pandolfi.

– Avantieri sera si è fermato da me una mezzoretta. Era in compagnia di due giovanotti di Papasidero, coi quali poi si è diretto verso casa.

Domenico a questo punto si convince che Antonucci e Oliva debbano per forza sapere qualcosa su suo padre e va a Papasidero a cercarli. Oliva non c’è e Antonucci gli dice:

Io e Oliva ci siamo congedati da tuo padre fin da quando siamo partiti da Mormanno, non so dove sia potuto andare…

Ma Antonucci non sa che Domenico ha parlato con Pandolfi e quindi sa che ciò che gli ha detto è falso. E se è falso, è ovvio che Antonucci e Oliva debbono essere i responsabili della sparizione del padre o, quanto meno, debbono sapere molto sulla sparizione e così va immediatamente dai Carabinieri per informarli dei gravi sospetti che nutre su Antonucci e Oliva.

Le accurate indagini e ricerche, aiutate dai particolari che Luigi Pandolfi racconta sul pozzo artesiano, sono ben presto coronate dal successo e, dopo aver effettuato nel pozzo alcuni sondaggi calandovi una corda con un gancio, riescono a portare fuori prima il mantello e poi il cadavere di Enrico Grassato.

Nella tasca interna della maglia trovano il portafoglio di cuoio rosso che Enrico soleva portare con sé; dentro ci sono alcune bollette pagate di tasse ed un biglietto di banca da lire cento. Niente altro.

Immediatamente vengono emessi i mandati di cattura nei confronti dei due assassini, altrettanto immediatamente assicurati alla giustizia.

Gli imputati, interrogati con cura e solerzia, si dichiarano innocenti, ma ammettono che Grassato, nel precederli per indicare loro il sentiero sicuro nel buio fitto della notte, cadde nel pozzo ed annegò. Poi Oliva, credendo erroneamente che Antonucci avesse riversato su di lui la responsabilità del delitto, addebita ad Antonucci di avere depredato Grassato e di averlo gettato vivo nel pozzo.

L’esame autoptico viene eseguito il giorno di Natale e mette in evidenza che esternamente non ci sono segni di violenza, la pelle è rosea e le pupille sono irregolari e oblunghe. Nessun liquido fuoriesce dalla bocca chiusa e dalle cavità nasali; nessun segno di perturbamento nei lineamenti del viso. Normale è lo stato del cervello, come quello delle vie respiratorie, mentre i polmoni hanno colorito brunastro ed il destro è più voluminoso, più edematoso e più consistente dell’altro a causa della posizione assunta dal cadavere nel pozzo. Asportato il cuore, invece, si vede subito fuoriuscirne abbondante sangue brunastro – piceo frammisto a coaguli.

Principalmente in base a questi dati, i periti giudicano che la morte è avvenuta sicuramente fuori dal pozzo; che il cadavere è stato dolcemente buttato nel pozzo, come si evince dall’assoluta mancanza di segni di violenza sulla superficie esterna del corpo; la morte è avvenuta per asfissia da soffocazione per imbavagliamento, giudizio per il quale non contrasta il colorito roseo della pelle, dovuto ad emolisi dell’emoglobina, disciolti per imbibizione dell’acqua da parte della cute e dalla successiva ossidazione dell’ossigeno contenuto nell’acqua stessa. Essendo tale l’unica causa della morte, devesi escludere qualsiasi altra causale.

Ma qualcosa sembra non quadrare e i periti sono chiamati a chiarire. L’8 febbraio 1936 chiariscono di non potere escludere che alla causa dell’asfissia si fosse potuto aggiungere anche lo strozzamento per compressione delle dita alla gola, purché si fosse esercitata non sulle nude carni della vittima ma mediante l’interposizione del mantello, in modo da non lasciare tracce di ecchimosi sulla carne stessa. Ma ciò che ritengono più probabile è che fosse avvenuta compressione sul torace, sulla gola (con le dita attraverso il mantello) ed occlusione della bocca e delle narici mediante il mantello stesso, sì da abolire in breve ogni atto respiratorio e cagionare la morte in brevissimo tempo.

Quando vengono resi noti i risultati della perizia e delle precisazioni, Antonucci e Oliva cominciano ad addebitarsi l’un l’altro l’uccisone di Grassato, prima per strozzamento con le mani e poi di aver premuto sulla gola della vittima non direttamente con le mani, ma col mezzo interposto del bavero del mantello. Anche riguardo alla rapina delle monete d’argento i due si accusano reciprocamente, mostrando chiaramente che l’impressione della grave imputazione li induce a dichiarazioni, confessioni e chiamate di correo che non rispondono a verità.

A questo punto i difensori dei due nominano un consulente che confuta i risultati dei periti d’ufficio e giunge alla conclusione che deve essere esclusa la morte per asfissia da soffocamento ed ammettersi, invece, che Grassato sia morto per shock o per sincope cardiaca determinata dalla brusca aggressione da parte di persone robuste ai danni di un vecchio debole e malfermo.

L’istruttoria può considerarsi conclusa ed il Giudice Istruttore di Castrovillari, il 22 agosto 1936 li rinvia entrambi al giudizio della Corte d’Assise locale per rispondere delle terribili accuse di: a) avere, in concorso tra loro, allo scopo di derubarlo del denaro che aveva indosso, cagionato la morte di Enrico Grassato mediante soffocamento e strozzamento e gettandolo in un pozzo; b) per essersi impossessati unitamente e mediante il delitto di che avanti, di una somma imprecisata tra le cento e quattrocento lire che, con altro denaro, Enrico Grassato portava indosso. Potrebbe scapparci la condanna a morte.

La causa si discute a partire dal 24 novembre 1936 e i due imputati ritrattano tutte le reciproche accuse, confermando i primi interrogatori, quando dichiararono che, passando presso il pozzo, intesero Grassato esclamare “Ohimè!” ed immantinenti udirono il tonfo della caduta di lui nel pozzo. Poi Oliva chiarisce che, per avere saputo che Antonucci lo accusava, aveva pensato di addossare a lui tutta la responsabilità del fatto, ma ciò che aveva narrato era tutto falso, come era falso che Antonucci gli avesse proposto di concorrere nella rapina. Da parte sua Antonucci spiega che nella caserma dei Carabinieri addebitò il fatto ad Oliva unicamente perché aveva saputo che costui lo aveva accusato di aver gettato Grassato nel pozzo. Chiamati i periti che effettuarono l’autopsia per dar giudizio se la morte di Grassato potesse attribuirsi a shock o sincope, come sostenuto dal perito della difesa, questi negano assolutamente tale possibilità perché la morte per shock avrebbe causato il rilassamento degli sfinteri, fenomeno non riscontrato sul cadavere, e quella per sincope perché avrebbe cagionato estremo pallore della cute e miosi pupillare.

Di fronte a tali emergenze processuali, la Corte osserva che sulla responsabilità di Oliva e Antonucci in ordine al delitto di rapina, non cade dubbio. E spiega che Enrico Grassato aveva lavorato con l’aratro per circa un mese nel comune di Firmo e per diversi giorni in compagnia del figlio Domenico, sicché, ad opera compiuta, aveva riscosso tutti i suoi salari, nonché lire duecento per conto del figlio ed aveva portato in casa circa lire cinquecento, tutti in moneta d’argento, come aveva confidato alla moglie ed alle altre persone di famiglia. Tornato da Firmo il 2 dicembre, aveva dovuto pagare alcune tasse per complessive lire 148,75 ed aveva dovuto sostenere altre spese pel matrimonio della figlia Filomena, poi, volendo colmare il vuoto fatto nel suo peculio e tenersi pronto per altre spese, aveva venduto un maiale pel prezzo di lire centotrenta, formato da un biglietto di banca da lire cento e da monete d’argento. Il 20 dicembre egli era provvisto di tali monete e, secondo il suo costume, le custodiva in un borsellino di cuoio (per quanto quello poteva contenere) e, pel rimanente, nelle tasche del corpetto, mentre serbava le carte monete in un portafoglio che riponeva nella tasca interna della maglia di lana da lui indossata sotto il corpetto. I due imputati, come essi stessi riconoscono negli interrogatori, vennero presto a conoscenza che egli possedeva le monete d’argento. Nella bettola egli aveva pagato il vino con monete metalliche ed al commerciante Sarlo aveva dato una moneta d’argento in pagamento del prezzo delle lastre di vetro alla presenza di uno degli imputati. In quella occasione le monete metalliche tintinnarono nella tasca del corpetto. Gli imputati rimasero sorpresi. Oliva era malcontento dei suoi genitori benestanti che lo fornivano appena del denaro necessario per i suoi bisogni urgenti (lire 50 per un paio di scarpe) e desiderava assai fare un po’ di vita scelta, specialmente in quel tempo quando erano imminenti le feste del Natale e del Capo d’Anno. Antonucci viveva in disagiate condizioni economiche, tanto che aveva dovuto, il 2 dicembre, vendere un asino per provvedere ad alcune necessità di famiglia e quindi, essendosi privato della cavalcatura, era costretto a portare sulle spalle, al mercato di Mormanno, le derrate che doveva vendere. Si presentava un’occasione felice per fare un buon colpo ed i due s’intesero ben presto sul fine da raggiungere e sui mezzi da adoperare. L’impresa non sembrava difficile né pericolosa. Quando si avvidero di trovarsi tra le mani un cadavere ebbero subito il pensiero di farlo scomparire per eliminare qualunque traccia del nuovo reato e quindi, senza neanche perquisirlo bene tanto che gli lasciarono nella tasca interna della maglia il portafoglio con lire cento, fecero dolcemente scendere il cadavere nella gora, lo sospinsero con un palo o bastone sin presso la bocca del pozzo e lo fecero sprofondare nell’acqua, dove poi gettarono anche il cappello e l’ombrello della vittima. In tal modo non solo risulta chiaramente dimostrata la rapina commessa dagli imputati, ma viene anche provato che essi commisero ai danni di Grassato anche atto di violenza diretto a cagionare lesioni personali e ne produssero invece la morte, rendendosi pertanto colpevoli del delitto di omicidio preterintenzionale.

E se è andata così, va esclusa l’ipotesi dell’omicidio volontario, sia perché l’uccisione di Grassato non doveva ad essi apparire necessaria né per commettere la rapina, né per disperderne le tracce per assicurarsi l’impunità (una volta che quegli non avrebbe opposto resistenza, né li avrebbe denunziati), sia se essi avessero avuto intenzione di uccidere (al quale scopo avrebbero agito con premeditazione come appunto fecero per la rapina) non si sarebbero fermati nella casa colonica del Pandolfi, che avrebbe poi reso contro di essi la più grave e schiacciante testimonianza, e tanto meno avrebbero scelto per l’omicidio un sito assai vicino alla casetta colonica della vittima designata. Oltre a ciò, nella ipotesi che le loro mire fossero rivolte all’omicidio, essi, piuttosto che ricorrere al mezzo inusitato e, per un adulto, incerto, dell’omicidio per asfissia da soffocazione, avrebbero seguito il metodo ordinario dei malfattori sanguinari, cioè all’uso del coltello, del pugnale, dello stile, con un colpo delle quali armi avrebbero potuto conseguire l’effetto rapidamente e senza il minimo strepito o rumore. Se l’idea dell’omicidio fosse loro sopravvenuta anche negli ultimi momenti, cioè durante la consumazione della rapina, non avrebbero mancato di estrarre i coltelli e di farne uso, essendo costante abitudine dei contadini di questa regione di andare sempre muniti di armi (persino l’innocuo e mite Grassato era munito di rasoio). A ciò si aggiunga che se Grassato era, sia pure lievemente, eccitato dal vino, anche gli imputati avevano bevuto.

È tutto, non resta che determinare le pene da infliggere agli imputati. La Corte, avuto riguardo alla gravità dei due delitti, alle relazioni corse precedentemente tra gli imputati e Grassato, alle circostanze di luogo e di tempo in cui il fatto avvenne, al grado elevato di pericolosità dimostrato dai giudicabili (malgrado i loro buoni precedenti penali), sembra giusto applicare per ciascuno di essi le misure massime stabilite dalla legge e cioè anni 15 di reclusione per la rapina (partendo da anni 10 ed aumentandoli della metà pel concorso di più persone) ed anni 18 per l’omicidio preterintenzionale. La pena da applicarsi, in definitiva si determina però in anni 30 per ciascuno degli imputati, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

È il 27 novembre 1936.

Il 22 marzo 1938 la Corte d’Assise di Castrovillari, in applicazione del R.D. di indulto 15 febbraio 1937, dichiara condonati anni 4 della pena ad entrambi i condannati.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.