IN SEGNO DI OMERTÀ

È il 2 luglio 1926 e manca poco a mezzogiorno. Il Maresciallo Luigi Romano, comandante la stazione del quartiere Sbarre di Reggio Calabria, ed il Carabiniere Francesco Altomonte stanno tornando in caserma dopo aver effettuato un servizio, quando vengono fermati da alcune persone che li avvisano di ciò che è successo la notte precedente: certo Modafferi Umberto, agricoltore di anni 27 abitante in Via Graziella, per opera di un individuo sconosciuto aveva riportato una ferita da arma da fuoco, fucile, alla coscia destra ed era stato ricoverato poco prima all’ospedale.

Senza perdere tempo, i due militari vanno all’ospedale e interrogano il ferito:

Ieri sera alle 23,30, mentre eravamo intenti a cenare innanzi all’abitazione di mio cugino De Stefano Giorgio, improvvisamente udii due colpi di fucile, uno dei quali mi colpì alla coscia, ma non so dire chi sia stato a sparare

“Non sa o non vuole?” pensa il Maresciallo, che va a casa del ventiduenne De Stefano e interroga anche lui:

Mi trovavo davanti alla mia abitazione a mangiare unitamente a mio cugino, quando improvvisamente un individuo sconosciuto tirò due colpi di fucile, il primo alla mia direzione senza punto colpirmi, in secondo contro mio cugino, che lo colpì alla coscia destra producendogli una grave ferita. Pur avendo visto l’individuo che sparava a tre metri da noi, non mi fu possibile conoscerlo

Raccolta e trascritta la dichiarazione, i due militari tornano in caserma ed il Maresciallo annota sulla bozza del verbale: ciò non corrisponde a verità perché il De Stefano dichiarò di aver visto l’individuo a tre o quattro metri da lui ed è impossibile non averlo conosciuto, tanto più che in quell’ora vi era anche il chiarore della luna. Sia il Modafferi che il De Stefano non vogliono fare il nome del loro avversario in segno di omertà, essendo tutti e due affiliati alla locale malavita e perciò vogliono vendicarsi da loro stessi.

Ma se i due cugini non vogliono fare il nome di chi ha attentato alla loro vita, quel nome gira tra la gente e arriva inevitabilmente alle orecchie del Maresciallo Romano: Brigandì Domenico, fabbro ferraio di anni 30, da Sbarre Riformati. La voce pubblica che informa il Maresciallo riporta non solo ciò che sarebbe accaduto prima della sparatoria, ma anche il motivo che avrebbe indotto Brigandì a sparare contro i due cugini: tutti e tre si trovavano nell’esercizio con vendita di vino gestito da Rizzo Paola, quando fra di loro è sorta una discussione ed il Modafferi ed il De Stefano rivolsero al Brigandì delle ingiurie e cioè Cornuto ed altre. Brigandì, sentendosi offeso di ciò, per il momento non reagì perché inerme, ma subito dopo si allontanò e, armatosi di fucile, andò a raggiungere gli avversari e sparò contro di loro. Ora che si conosce il nome del feritore i Carabinieri possono andare a prenderlo a casa, ma non lo trovano e nessuno sa che fine abbia fatto. In questo frattempo ci sono altre incombenze da sbrigare, per esempio interrogare la sessantenne Paola Rizzo, la quale nega recisamente che la sera del primo luglio quei tre siano stati nella sua cantina. Però la Rizzo nega il fatto per non esporre ad una responsabilità il nipote Domenico Brigandì, verbalizza il Maresciallo appena tornato in caserma.

Purtroppo la ferita riportata da Umberto Modafferi è più grave del previsto, il ferito peggiora di giorno in giorno e la mattina del 6 luglio muore. Da questo momento l’ipotesi investigativa iniziale di tentate lesioni con arma e lesioni con arma, diventa tentato omicidio volontario e omicidio volontario.

Continuando le indagini, il Maresciallo Romano scopre che la voce pubblica lo ha ingannato perché la questione tra Brigandì e gli altri due non si svolse nella cantina di Paola Rizzo, ma in quella di Demetrio Pansera. Ecco perché la donna negava ostinatamente di non aver visto i tre! Comunque, accertato il luogo del diverbio, il Maresciallo individua anche le persone presenti nel locale la sera del primo luglio e le interroga tutte, ottenendo una ricostruzione dei fatti sostanzialmente uniforme: nella cantina arrivò per primo Brigandì e si mise a sedere da solo ad un tavolo, poi entrò un amico comune, Paolo Arrighetta, e i due si misero a giocare a carte. Sopraggiunti Modafferi e De Stefano, i quattro cominciarono una partita a carte: Brigandì e Modafferi contro Arrighetta e De Stefano, con questi ultimi vincitori. A questo punto i perdenti decisero di giocare tra di loro per stabilire chi dovesse pagare per intero il conto, ma De Stefano intervenne bloccando tutto e dicendo a Brigandì “se vuoi continuare a giocare provvediti di carte perché con queste devo giocare io!”. Brigandì non volle cedere e si accese un vivace diverbio durante il quale De Stefano chiamò l’avversario “cornuto, sdisonesto e miserabile”. Tutto finì per l’intervento dei presenti, ma poco dopo si riaccese con la ripetizione degli stessi epiteti, lite anche questa volta sedata dai presenti, con conseguente allontanamento dal locale. Veramente tutto troppo banale per giustificare ciò che è accaduto dopo, se non fosse che gli epiteti di “cornuto” e “miserabile” hanno provocato la morte di molte persone. Magari Brigandì, quando sarà arrestato, potrà spiegare se sotto c’è dell’altro o è solo una questione d’onore tra ndranghetisti, perché ciò che riesce difficile da capire è il motivo per il quale Brigandì sparò anche a Modafferi, visto che ad offenderlo fu il solo De Stefano, ma nessuno si pone questo problema. A proposito di De Stefano, ciò che racconta quando viene ascoltato per la seconda volta è l’esatto contrario di ciò che dovrebbe dire un uomo d’onore. Dopo aver ricostruito con dovizia di particolari il diverbio accaduto in cantina, dice:

Dopo circa mezz’ora, mentre io col Modafferi innanzi alla mia abitazione eravamo intenti a mangiare, improvvisamente Brigandì, armato di fucile, tirò due colpi, uno contro di me senza punto colpirmi ed altro contro Modafferi colpendolo alla coscia destra.

Cosa c’è che non va? Ha fatto il nome di Brigandì come colui il quale sparò e questo va contro le regole degli uomini d’onore.

Poi la sera del 9 luglio un uccellino cinguetta all’orecchio del Maresciallo Romano che Brigandì si aggira nei pressi di Ravagnese. Immediatamente Romano ed il Carabiniere Francesco Rodomonte si precipitano sul posto e, giunti nei pressi del torrente Menga, alle ore 1,00 si imbattono nel ricercato e lo arrestano. È arrivato il momento di vedere se sotto c’è dell’altro oltre alle offese ricevute nella cantina.

De Stefano m’impose di lasciare le carte, io gli chiesi il motivo per cui dovevo lasciarle e lui mi chiamò “strunzu”. Io risposi che strunzu non lo ero, ma che in questo caso poteva esserlo lui. Egli replicò ingiuriandomi di essere “cornuto, sdisonesto e infame”, tirandomi uno schiaffo. Io non reagii per l’intervento dei presenti. Ognuno ci avviammo per le proprie case, quando fuori dell’esercizio Umberto Modafferi e Giorgio De Stefano ridevano alle mie spalle come se mi volevano burlare. A ciò gli ho detto “ridete pure ché avete ragione perché non posso difendermi perché non ho armi” e allora mi replicarono “vai, vai cornuto e sdisonesto, domani verremo a casa tua e lo mettiamo in culo anche a tua moglie!”. A queste parole mi alterarono i nervi vedendomi oltraggiato l’onore. Mi recai a casa fuori di me; senza dire niente a mia moglie presi il fucile ed andai a raggiungerli; trovatili innanzi all’abitazione di De Stefano tirai due colpi per darci una lezione, dato che loro poco prima mi avevano oltraggiato. Dopo di ciò, vinto dal vino e dai nervi, mi misi a correre e non so neppure dove ho messo il fucile.

– Conoscevi già De Stefano e Modafferi? Durante il gioco avete avuto parole?

– Li conoscevo e con essi non avevo mai avuto alcun incidente. Nemmeno durante il gioco vi fu alcun incidente.

Raccontata così, il colpo esploso contro Modafferi assume un senso (se un senso può avere sparare contro i propri simili), cioè avere pesantemente offeso l’onore di sua moglie, ma il problema di Brigandì è che non trova un testimone che sia uno disposto a confermare il suo racconto.

Quando, il 20 luglio 1926, De Stefano è chiamato a confermare la denuncia contro Brigandì, cerca di porre rimedio all’errore commesso e dice:

Dopo oltre un’ora mi trovavo innanzi alla mia abitazione insieme col Modafferi, quando fummo fatti segno a due colpi di fucile. Posso assicurare che per il buio di quell’ora ed essendo quel punto privo di luce elettrica, io non riconobbi l’aggressore. Si disse poi dal pubblico che era stato Brigandì. Ciò io dichiarai al Maresciallo di Sbarre ed egli, forse, nel raccogliere la mia dichiarazione avrà confuso quella diceria con una mia constatazione personale che non vi fu. Lascio libera la giustizia punitrice nel suo corso, io mi regolerò se dovrò rivolgere in seguito istanza contro l’autore dell’aggressione.

Eppure in calce al verbale del Maresciallo c’è la sua firma, non il segno di croce da analfabeta.

A questo punto le cose sono chiare: c’è stato un litigio, ci sono state delle pesanti offese riferite da molti testimoni, c’è stato un ferito, che per questa causa è deceduto, c’è un reo confesso che ha fornito un movente che non può essere verificato per mancanza di testimoni. In queste condizioni la richiesta della Procura è di rinviare a giudizio Domenico Brigandì per rispondere di tentato omicidio in persona di De Stefano Giorgio, omicidio in persona di Modafferi Umberto e porto abusivo di arma da fuoco.

Il 14 dicembre 1926 la Sezione d’Accusa di Messina, in difformità con le richieste della Procura rinvia l’imputato al giudizio della Corte d’Assise di Reggio Calabria per rispondere di omicidio preterintenzionale in persona di Umberto Modafferi, tentate lesioni con arma in persona di Giorgio De Stefano e porto abusivo di arma da fuoco.

Per tenere il dibattimento in aula bisognerà aspettare un anno, il 16 dicembre 1927 e viene posta particolare attenzione alla circostanza se quella sera Brigandì fosse o meno ubriaco. Secondo l’accusa, no; secondo la difesa, si e per confermarlo presenta un testimone, Antonio Labate, che dichiara:

Nel giorno in cui i fatti si svolsero, mi recai alla bottega di fabbro di Brigandì e per deciderlo a consegnarmi un arnese di ferro, gli procurai di fargli bere una bottiglia di buon vino se detto arnese me lo avesse portato a casa quel medesimo giorno. Brigandì me lo portò ed io gli diedi una bottiglia da un litro, che bevve tutta.

Funzionerà la strategia della difesa, volta a dimostrare che quella maledetta sera Brigandì, essendo ubriaco, non era nel pieno delle sue facoltà mentali?

Quattro giorni dopo, il 20, viene emessa la sentenza:

Ritenuto che i Signori giurati col verdetto odierno hanno affermato che Brigandì Domenico, per ferire, esplose un colpo di fucile contro Modafferi Umberto cagionandogli però la morte, fatto che costituisce il reato di omicidio preterintenzionale, punibile da 12 a 18 anni di reclusione. Il Presidente crede partire, per le modalità del fatto, da anni 16 che si riducono a metà per il vizio parziale di mente per ubriachezza volontaria, concesso dai Giurati e poi da un sesto per le attenuanti generiche pure concesse, scendono così ad anni 6 e mesi 8 di reclusione. I signori Giurati hanno ritenuto altresì che il Brigandì, a fine di ledere, esplose altro colpo contro De Stefano Giorgio senza attingere la vittima, concedendo per questo reato anche la provocazione lieve. La pena per il reato di mancate lesioni con arma va da anni 7 ad anni 4, mesi 3 e giorni 20. Il Presidente crede partire da mesi 19 e giorni 6, che si riduce a anni 1 e giorni 24 per la provocazione lieve e poi a mesi 6 e giorni 12 per il vizio parziale di mente e quindi a mesi 5 e giorni 10 per le attenuanti generiche e poi a mesi 2 e giorni 20 per il cumulo giuridico.

Ricapitolando, la pena totale che Domenico Brigandì è chiamato a scontare è di anni 6, mesi 8 e giorni 20 di reclusione, oltre alle pene accessorie, spese e danni.

Il 9 maggio 1928 la Suprema Corte di Cassazione prende atto della rinuncia al ricorso fatta da Brigandì.[1]

Non sappiamo di eventuali, future vendette da parte di Giorgio De Stefano.

[1] ASRC, Atti della Corte d’Assise di Reggio Calabria.