UNA PERICOLOSA RELAZIONE A TRE

Nel 1941 l’anziano Antonio Soria, sua moglie Isabella Corno e i due figli Mario e Assunta (quest’ultima con un bambino, ma senza il marito perché prigioniero di guerra) vanno ad abitare in contrada Castagnola di Paola e subito instaurano rapporti di amicizia con la famiglia di Nicola Panaro, con frequentissimi scambi di visite. Dopo due anni, nel 1943, i rapporti tra i Soria ed il ventenne Orlando Panaro, primo degli otto figli di Nicola, sono diventati così intimi che spesso il giovane si trattiene nella casa amica fino a tarda sera e quando i bombardamenti alleati prendono di mira la cittadina di Paola addirittura si ferma lì quasi permanentemente a dormire.

Quest’ultimo fatto però fa sorgere al padre del giovane e nel vicinato il sospetto che tra Orlando ed Assunta vi sia una tresca.

– Disgraziato, dimmi la verità, tu e Assunta…

– Io e Assunta cosa?

– Tu e Assunta ve la intendete, altrimenti non ci sarebbe motivo perché tu rimanga a dormire dai Soria!

– Ma non è vero, rimango lì a dormire per i bombardamenti!

– Non ti credo, se bombardano o qui o lì sei morto, siamo morti, lo stesso, dimmi la verità!

Incalzato da padre, Orlando confessa che la tresca esiste per davvero. Poi lo confida anche a suo fratello Alessio e al suo amico Carabiniere Ugo Cassano, precisando che ha rapporti carnali non solo con Assunta, ma pure con la madre di lei, dormendo insieme nello stesso letto.

Ormai, verso la metà di settembre 1943, le incaute confidenze sulla tresca fatte dal giovane filtrano e adesso in contrada Castagnola tutti ne parlano non più come un sospetto ma come una certezza, così Isabella Corno (notoriamente conosciuta come donna di scarsa moralità, astuta e perfida, come la definiscono i Carabinieri) e suo figlio Mario la prendono malissimo ed i rapporti tra le due famiglie si raffreddano, finendo per passare in pochi giorni dall’intimità più stretta alla rottura completa dei rapporti.

Adesso è un susseguirsi di domande, chiacchiere e risatine per le vie e le campagne. Questo andazzo va avanti per un paio di mesi e, ai primi di novembre, Orlando, al suo amico ferroviere Aristide De Blasi che gli chiede conto degli sviluppi della scabrosa faccenda, oltre a confermare che la tresca sta andando avanti, fa leggere una lettera che gli ha fatto avere Assunta, nella quale lo assicura di amarlo come prima e lo esorta a non avere paura dei suoi familiari.

La sera del 12 novembre 1943 Orlando, forte della lettera di Assunta, si reca all’usuale convegno amoroso in casa Panaro. Sa come aprire l’uscio e sa che Antonio, Mario e il bambino di Assunta appena buio si mettono a dormire nella stanza a piano terra e non si accorgono mai di niente. Sale cautamente le scale per andare nella camera di Assunta e della madre, ma a metà dell’ascesa si trova davanti quest’ultima che, indispettita, gli dice:

– Che sei venuto a fare qui?

Fatti i fatti tuoi se vuoi dormire questa notte! – le risponde a muso duro continuando a salire, mentre la donna scende al piano terra. La porta della stanza dell’amante è chiusa a chiave, ma non è un problema, ne ha una copia ed entra. Assunta non c’è, è ancora giù. Orlando si leva il pastrano e le scarpe, poi si mette sul letto e attende. Poco dopo il rumore leggero di piedi nudi che salgono le scale, la porta che si apre e al tenue bagliore tremolante di un lumino appaiono le figure di madre e figlia che entrano e richiudono la porta alle loro spalle, senza però girare la chiave nella serratura.

Antonio Soria e suo figlio Mario si sono dati la buonanotte, il bambino dorme già, e stanno per addormentarsi quando voci concitate e rumori di qualcosa che sembra una colluttazione, provenienti dal piano superiore, li fanno balzare dal letto. Mario afferra un bastone e sale le scale a quattro a quattro, mentre suo padre deve fare lentamente a causa della sua voluminosa ernia che quasi gli impedisce di camminare.

La porta della stanza delle donne si spalanca e Mario vede Orlando che malmena sua madre e sua sorella. Urla di lasciarle, ma Orlando, molto più robusto e aitante, lascia, sì, le donne, ma gli si butta addosso, lo afferra per la gola ed entrambi cadono a terra lottando furiosamente. È in questo preciso istante che il settantacinquenne Antonio, ansimando per lo sforzo fatto salendo le scale, entra e vede suo figlio Mario che sta per soccombere. Cerca di liberarlo dalla morsa di Orlando, ma questi sembra una belva inferocita, gira la testa di scatto e gli assesta un terribile morso al pollice della mano destra, che per poco non viene reciso di netto.

Le due donne, finora rimaste ferme, capiscono che devono fare qualcosa e Isabella Corno, afferrato il bastone di suo figlio, comincia a colpire violentemente la testa di Orlando finché non lo vede accasciarsi tramortito.

La rissa potrebbe finire qui, basterebbe legare le mani e i piedi ad Orlando e poi andare a chiamare i Carabinieri, ma Isabella non è contenta e, presa tra le mani la testa di Orlando, la sbatte infinite volte sul pavimento con inaudita violenza senza che nessuno dei familiari la fermi. Anzi, adesso Assunta afferra il bastone e colpisce l’ex amante alla cieca, mentre Mario, ripresosi dopo essere stato quasi soffocato, comincia anche lui a infierire sull’avversario con calci e pugni. Tutti sembrano come invasati e, forse incoscienti dell’inutilità del loro accanimento su quel corpo che ormai sembra una marionetta rotta sbatacchiata di qua e di là, continuano e continuano ancora finché, finalmente, si accorgono che Orlando non respira più e si fermano ansanti, coperti di sangue.

Che fare adesso? Bisogna calmarsi un po’ e ragionare.

Ecco, la prima cosa da fare è togliere il cadavere dalla stanza, ripulire tutto a fondo e intanto pensare a come disfarsi del corpo. La soluzione migliore è trasportarlo per circa un chilometro fino al ponte Rotaro sulla strada verso San Lucido e buttarlo di sotto per simulare una disgrazia. E così fanno quando ormai la mezzanotte è abbondantemente scoccata, ma fanno un errore: lasciano il pastrano e le scarpe del morto in bella vista nella camera da letto dove si è compiuta la tragedia.

Quando la mattina dopo il cadavere straziato viene ritrovato, le sue condizioni incompatibili con una caduta accidentale dal ponte e la conoscenza della tresca da parte di tutti, fanno sì che nel giro di qualche ora tutti i Soria vengano arrestati con l’accusa di concorso in omicidio premeditato e occultamento di cadavere.

– L’ho trovato che picchiava mia madre e mia sorella nella loro camera da letto ieri sera. Mi ha aggredito e ha cercato di ammazzarmi strozzandomi… li vedete i segni? – si difende Mario Soria mostrando le escoriazioni sul collo.

– Sono escoriazioni prodotte da unghiate da persona che ha tentato di strozzarlo – conferma il dottor Misciasci dopo averlo visitato.

Era nascosto sotto il letto e appena siamo entrate ci ha aggredite… qualche ora prima ci aveva aspettate davanti casa minacciandoci con un coltello – dicono Assunta e sua madre Isabella.

Non è una ricostruzione plausibile, invece è più probabile che Orlando Panaro sia stato attirato in una trappola e massacrato. Così il 20 febbraio 1945 tutti e quattro vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza, che discuterà la causa dopo appena tre settimane.

È piena convinzione della Corte che la morte del Panaro Orlando, giovane ventenne in piena salute, sia stata conseguenza dell’azione collettiva di tutti e quattro gli imputati i quali con le mani, coi piedi e col bastone gli infersero le molteplici lesioni riscontrate sul suo cadavere, che cagionarono la grave commozione cerebrale che gli tolse la vita. La loro azione fu cosciente, volontaria e diretta a cagionare la morte, come si evince dal fatto che, com’è loro confessione, desistettero dalle violenze solo quando potettero constatare che l’evento morte era stato conseguito, pertanto debbono essere ritenuti colpevoli d’omicidio volontario e non di omicidio preterintenzionale come è stato sostenuto dalla difesa, perché , come si è detto, essi hanno voluto l’evento, conseguenza della loro azione, mentre l’omicidio preterintenzionale si ha quando l’evento morte sia conseguenza non voluta di atti diretti a commettere percosse o lesioni.

L’esordio della Corte non promette nulla di buono, ma in ogni caso la pena capitale è scongiurata grazie al D.L.L. 10 agosto 1944 n. 224 a firma di Umberto di Savoia, Luogotenente del regno, che ha abolito la pena di morte in tutti i territori controllati dal governo legittimo del regno per tutti i reati che la prevedevano in base al codice penale Rocco in vigore dal 1930. Poi, però, la Corte ammette: deve escludersi, come è stato pur ritenuto dal P.M., l’aggravante della premeditazione la quale, caratterizzata da una risoluzione criminosa intensamente voluta, riflettuta, persistente nel tempo senza alcuna deflessione, mal si attaglia alla risoluzione del caso, che sorse improvviso a causa di un diverbio e di una colluttazione e durante lo svolgimento di essi. Anche l’ergastolo è scongiurato.

Adesso la Corte deve affrontare un argomento decisivo, cioè la richiesta della difesa dei quattro imputati tesa al riconoscimento di avere agito per legittima difesa, circostanza che sembrerebbe già essere stata esclusa, dal momento che la Corte ha dichiarato che la loro azione fu cosciente, volontaria e diretta a cagionare la morte. Ma vediamo a quali conclusioni arriva: l’assunto difensivo trova riscontro nelle circostanze di fatto soltanto nei confronti del Soria Antonio e del Soria Mario. Costoro, che erano a conoscenza delle dicerie sul conto della rispettiva figlia e sorella, come erano a conoscenza delle false asserzioni di costei che fosse persecutoriamente insidiata nell’onore, lei senziente, dal prepotente Panaro, onde avevano con lui raffreddati gli intimi rapporti, quando accorsero nella camera soprastante attratti dai rumori della colluttazione e trovarono il giovane in colluttazione con le due donne, dovettero dare credito alle false accuse della loro congiunta. Se avessero agito in questo momento non si potrebbe negare la sussistenza della difesa legittima putativa (quella esercitata in una la situazione di pericolo che non esiste obiettivamente, ma è supposta erroneamente dall’agente a causa di un erroneo apprezzamento dei fatti. Nda) della rispettiva figlia e sorella per un pericolo attuale. Ma come essi giunsero nella camera, il Soria Mario fu subito aggredito egli stesso e preso per la gola, onde cadde per terra aggrovigliato con l’avversario, sicché si trovò nella reale necessità di difendersi dall’attuale pericolo che minacciava la sua integrità personale. Così pure il Soria Antonio si trovò nella stessa necessità di difendere e l’integrità dei suoi congiunti e la propria perché anch’egli fu aggredito e si ebbe un morso. Né può giudicarsi sproporzionata la difesa all’offesa. Per il Soria Antonio è da tenere presente che nelle sue condizioni fisiche, sia per la sua vecchiezza, sia per la voluminosa ernia che l’affligge, non aveva nemmeno la possibilità di esercitare una difesa sproporzionata. Per il Soria Mario è pure da rilevarsi che egli agì soltanto con un bastone prima e poi coi piedi, onde non è da rilevarsi che egli volesse l’evento verificatosi, voluto invece dalle due donne e realizzatosi sia per le persistenti percosse di costoro, che cessarono soltanto quando constatarono la morte, della quale si mostrarono soddisfatte.

Quindi Antonio Soria e suo figlio Mario agirono in stato di legittima difesa (anche se sembra esserci una contraddizione nel ragionamento della Corte e cioè il fatto che Mario Soria colpì la vittima con calci e pugni quando ormai era tramortita dalle bastonate ricevute e quindi lo stato di legittima difesa era cessato), mentre Assunta e sua madre no perché, continua la Corte, esse non furono costrette ad una difesa attiva dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un diritto proprio od altrui. Il Panaro si trovava nella loro camera da letto perché era con loro in abituali congressi carnali e vi era stato implicitamente invitato con la lettera fattagli avere da Assunta, nella quale lo esortava a non aver paura dei suoi familiari. Ed il diverbio dal quale si trascese alla colluttazione dovette sorgere per il fatto della propalazione della tresca, la quale propalazione costituiva un fatto ingiusto della vittima che ha determinato nelle imputate uno stato d’ira, che integra la circostanza attenuante della provocazione. Le imputate, nel loro buon senso contadino, per suffragare la loro tesi di avere agito per legittima difesa, avevano negato la tresca, che è invece accertata, ed avevano parlato di disfida ed aggressione da parte della vittima armata di pugnale avanti la casa, circostanza smentita dalle risultanze processuali. Da questo ragionamento è chiaro che la Corte, pur non ammettendo la legittima difesa per le due imputate, concede loro l’attenuante di avere agito in stato d’ira per fatto ingiusto della vittima. Al contrario, non sono da concedere le attenuanti generiche perché non trovano fondamento in alcun elemento processuale e le modalità del fatto, e il comportamento delle imputate prima, durante e dopo il fatto non suscitano pietà.

Prima di emettere la sentenza, non resta che occuparsi dell’altro, odioso reato: l’occultamento di cadavere. Secondo la Corte tale delitto non sussiste perché ne mancano gli elementi obbiettivi e subbiettivi. L’elemento obbiettivo perché manca l’occultamento in quanto il cadavere fu portato all’aperto in vista di tutti in prossimità di una strada pubblica. L’elemento subbiettivo perché gli imputati, lungi dal voler recare offesa alla pietà dei defunti, agirono con la volontà e coscienza di simulare una disgrazia e non di occultare il cadavere.

Ora è tutto pronto: date le modalità del delitto e l’intensità del dolo, nonché il comportamento delle imputate prima del fatto perché furono esse, più avanti negli anni, che attirarono nelle loro spire velenose di cupidigia e di lussuria l’inesperto giovinetto ventenne, agendo durante il fatto con particolare crudeltà contro il loro amante, che pure era stato verso di loro generoso di denaro e d’amore, e dopo il fatto non mostrando alcun pentimento, la Corte ritiene pena adeguata, concessa l’attenuante, quella di anni sedici per ciascuna, oltre a spese, danni e pene accessorie. La Corte assolve Soria Antonio e Soria Mario dal delitto di omicidio volontario loro ascritto perché non punibili per avere agito in stato di legittima difesa e ne ordina l’immediata scarcerazione, se non detenuti per altra causa. Assolve tutti gli imputati dal delitto di occultamento di cadavere perché il fatto non costituisce reato.

È il 14 marzo 1945.

Il 18 febbraio 1946 la Suprema Corte di Cassazione annulla la sentenza con rinvio[1], ma non essendo stato possibile rintracciare gli atti del nuovo processo, non sappiamo di quale tenore sia stata la nuova sentenza.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.