L’ODORE DEL MOSTO ANNACQUATO

La sera del 4 maggio 1894 il cinquantatreenne Vincenzo Rossi sta camminando lungo la strada che dal rione Motta sale verso Rovito. È appena passato davanti alla chiesupola della Madonna di Loreto e sta per imboccare il ponticello che c’è subito dopo, quando alle sue spalle qualcuno gli spara due colpi di rivoltella: il primo lo colpisce quasi all’attaccatura del braccio destro con la spalla ed esce dall’altra parte, mentre il secondo lo colpisce tra la scapola e la colonna vertebrale, facendolo stramazzare a terra. Vincenzo prova a girarsi sulla sua destra, è da lì che ha sentito le detonazioni, per cercare di capire chi gli abbia sparato, ma riesce solo ad emettere un paio di urla, vuoi per il dolore, vuoi per chiamare al soccorso, poi sviene. Quando riapre gli occhi è steso sul letto di casa, trasportatovi da molti compaesani accorsi sul posto. I Carabinieri della stazione di Celico, subito avvisati, arrivano ma è buio pesto e per effettuare i primi rilievi bisognerà aspettare il mattino successivo. Però il ferito è lucido ed è il caso di ascoltare subito le sue categoriche parole:

L’autore del mio ferimento, non è dubbio, fu Gaetano Arnone e ciò posso dichiarare con ferma coscienza, sebbene per verità non lo abbia visto sparare perché nessuno vidi e nessun testimonio fu presente al fatto. La certezza mia non è basata sopra vani elementi di fatto, ma su dati certi e concrete minacce, che ora vado ad esporre. Premetto che prime dell’ottobre dell’anno decorso 1893 non vi era tra di me e Arnone alcun motivo di dissidio, che però si fece ben presto palese nell’occasione in cui acquistai da lui una certa partita di mosto. Il giorno in cui mi fu eseguito il trasporto del mosto nella mia proprietà, alcune donne mi fecero avvertito come il mosto apparisse annacquato e, sebbene per precauzione lo avessi collocato in botte separata, pur tuttavia non diedi conoscenza ad Arnone del dubbio che era sorto in me e, anzi, gli pagai totalmente il prezzo pattuito, come se il mosto fosse stato genuino. Non so come Arnone sia venuto a sapere del trattamento fatto al vino vendutomi, fatto sta che una quindicina di giorni addietro entrò in un basso di una mia casa domandandomi in modo mellifluo, così usava di solito, come avessi trovato il vino del suo mosto, al che io risposi di non avervi fatto osservazione. Allora Arnone si cominciò ad irritare dicendo che con la voce che io avevo fatto correre nel paese, quella cioè riferentesi all’annacquamento del mosto, io lo avevo screditato presso il pubblico e la sua irritazione si portò al punto di chiamarmi “traditore”. La scena non ebbe più seguito, anche per volere io evitare quistioni con un uomo della sua fatta, sebbene gli potessi domandare conto di alcune minacce da lui espresse contro di me. Maria Iaccino, alias Marcone, mi disse di aver sentito per caso circa tre mesi addietro, salendo le scale dell’abitazione di Arnone, un dialogo tra lui e sua madre nel quale manifestava apertamente l’intenzione di ammazzarmi, motivo per cui la Iaccino mi consigliò di non andare più alla terra per evitare che Arnone mettesse in atto le minacce. Ma un altro fatto doveva avvenire, tale da accrescere nell’Arnone l’odio contro di me, cioè l’acquisto da parte mia di una piccola zona di terra detta Pezze e situata tra il mio fondo “Ferraiuolo” e quello attiguo di Arnone. Costui voleva ad ogni costo il possesso di quel terreno, ma non offrendo punto garenzie al venditore, questi lo vendette a me. Di qui l’ira di Arnone che, prendendo pretesto che i rami di alcune querce sporgevano su una piccola cava che lui aveva fatto coprire di terra, mi fece sapere che non avrei punto goduto del frutto di quelle piante e che le ghiande se le sarebbe fatte sue, cosa questa che in parte eseguì, danneggiandomi non poco. Ma ciò non bastava perché Arnone continuava nelle sue minacce di morte che mi venivano riportate ora da una, ora da un’altra persona, tanto che cominciai davvero ad intimorirmi, specialmente dopo che il mio colono Michele Sprovieri mi riferì come, al tempo delle ghiande, Arnone, in una sua torre colonica, gli ebbe a mostrare alcune armi e cartucce, dicendo che con quelle mi avrebbe ammazzato… nessun altro individuo all’infuori di Arnone mi è nemico in paese… solo lui deve essere stato a ferirmi e ciò lo dico anche perché Arnone sapeva che mi ero portato alla Motta avendomi incontrato mentre esso trovavasi in compagnia di Pasquale Grandinetti. Solo quest’ultimo mi salutò e mi domandò dove fossi diretto, al che io risposi di voler andare alla Motta per procurarmi l’opera di alcune donne per la costruzione di un muro. Arnone si stette muto, né punto mi diede il saluto, ma un po’ brillo, anzi, mi guardò con gli occhi biechi. In quel momento, certo, gli nacque l’idea di ammazzarmi

Dopo aver acquisito la denuncia, il Brigadiere Giuseppe Munizio va a casa del sospettato, ma non lo trova e i sospetti su Gaetano Arnone aumentano.

È la mattina del 5 maggio e le attività di indagine si svolgono in più direzioni: il sopralluogo nel punto in cui è stato trovato il ferito per scoprire eventuali tracce utili, l’accertamento delle sue condizioni di salute, l’ispezione delle lesioni per capire che tipo di arma è stata usata e infine la ricerca del sospettato. Partiamo dal sopralluogo del Brigadiere Munizio.

Dalla parte dove sarebbe stato appiattato per un tempo più o meno lungo l’individuo che impugnò l’arma contro Rossi non vi è traccia di piedate, ma poco più sotto vi è un terreno zappato dove si sono riscontrate le impronte delle scarpe di un uomo che fugge. Passato questo terreno zappato si prende un segreto viottolo di campagna che mena dentro Rovito e la prima casa che si incontra è proprio quella di Gaetano Arnone, denunciato sospetto. Da questa casa al punto dell’appiattamento vi sono pochi minuti. Essendosi l’Arnone reso irreperibile e fatto domandare non si presentò e né le nostre ricerche poterono rintracciarlo; presente sua moglie, abbiamo passato minuta perquisizione al domicilio dell’Arnone ed in una casa rurale in agro di Rovito per rinvenire la rivoltella, ma l’esito fu infruttuoso. Poi rinvenimmo e sequestrammo una rivoltella calibro dodici con fodera, carica di tutte e sei le cariche ed impolverata. Sequestrammo pure in casa dell’Arnone un paio di stivalini che calzano il suo piede, li abbiamo misurati con le orme lasciate nel terriccio di cui sopra e combaciano perfettamente.

Intanto il Pretore del Mandamento di Spezzano Grande procede, con il dottor Francesco Salerno, a verificare le condizioni del ferito, che appaiono molto più serie di quanto si pensasse, a causa della lesione alle spalle: Sulla regione infrascapolare ed in corrispondenza della 4^ vertebra dorsale, due centimetri e mezzo a destra della spina, riscontriamo lesione di forma circolare del diametro di 12 millimetri, profonda da interessare la massa ossea vertebrale, che ha fratturato il midollo spinale con la completa paralisi ed anestesia di entrambi gli arti inferiori; paralisi ed anestesia osservasi nei muscoli dell’addome, della vescica e del retto. Entrambe le ferite sono state prodotte da proiettili di arma da fuoco, probabilmente rivoltella da 12 millimetri, esplosi alla distanza di sei metri circa. La ferita descritta sulla regione infrascapolare, avendo distrutto gran parte del midollo spinale, è di per sé pericolosa di vita.

E non si sbaglia perché le condizioni di Vincenzo peggiorano di giorno in giorno e sedici giorni dopo il ferimento muore. I periti che eseguono l’autopsia certificano che il proiettile non solo ha leso il midollo spinale, lesione incompatibile con la vita, ma penetrando nella cavità toracica ebbe pure ad offendere il polmone sinistro cagionando grave polmonite traumatica e lenta asfissia sia per la lesione del polmone, che per paralisi dei muscoli della respirazione. Adesso si procede per omicidio premeditato.

Le indagini per rintracciare Arnone continuano senza soste, ma il Brigadiere Munizio incontra mille difficoltà e le mette per iscritto al Pretore:

Pregiomi riferire alla S.V. il seguente risultato di ulteriori indagini che sin qui si sono potute fare. Pria di ogni altro debbo manifestarle che le indagini sono ostacolate dal piede libero cui si trova il denunciato Arnone Gaetano e se non prima potrà venire assicurato alla giustizia, ognuno ha paura di parlare finché corre che egli siasi dato ad incutere paura minacciando danni ed altro. lo Arnone, resosi fuggitivo nella flagranza, la continua ancora perché fugge quando vede agenti della forza, tanto vero che recentemente, essendomi trovato nelle campagne di Rovito insieme al dipendente Carabiniere Strambi Luigi, osservammo un tale che alla nostra vista si diè alle gambe e poi seppi che questi era lo Arnone. Fin qui non si è data alcun’altra versione al fatto, ma continua più incalzante la pubblica voce in Rovito nello accusare lo Arnone. Corre pure voce e mi riuscì di sapere che essendo stato detto allo Arnone di badare che realmente era stato lui il feritore del Rossi perché questi lo aveva visto, Arnone avrebbe risposto che nel punto dove stava nascosto non poteva essere visto. Poi indica i nomi di alcune persone che dovrebbero deporre, volendo significare che potrebbero anche mostrarsi reticenti per paura. Infine fa un’altra lista, questa di testimoni a discarico dell’inquisito, e aggiunge: alcuni che fin qui mi riuscì interrogare, come quelli che ho segnato con matita a colore, invece di un discarico, le loro asserzioni sembrano invece più incolpanti. È bene pure che la prevenisca che in essa lista vi sono testimoni intrinseci dello Arnone e che avrebbero subite delle preghiere, se non altro, perché corre anche voce di minacce.

Il terrore che le minacce di Arnone incutono sui possibili testimoni svaniscono solo quasi cinque mesi dopo, il 25 ottobre 1894, quando il ricercato, accompagnato dall’avvocato Francesco Nicoletti, si costituisce nelle mani del Procuratore del re di Cosenza. Interrogato, racconta la sua versione dei fatti:

Mi costituisco spontaneamente quale imputato del voluto reato di omicidio premeditato in persona di Vincenzo Rossi e porto d’arma da fuoco, non senza dichiarare di essere innocente e chiedo che sia con tutta sollecitudine espletato il relativo procedimento. Ritengo e suppongo che l’autore fosse stato Luigi Scarpelli, suo cugino ed inimico, il che peraltro non mi consta con certezza. Però Scarpelli m’insinuò a recarmi in America poiché altrimenti avrebbero a me attribuito quel ferimento. La famiglia di Rossi attribuiva a Scarpelli, soprannominato Feroce, tale omicidio. D’altronde nella sera dell’avvenimento io ritornai a Rovito dal rione Motta unitamente a Pasquale Grandinetti, sicché costui sa che io non commisi il reato attribuitomi. Invece Scarpelli quella stessa sera io lo rimasi unitamente a Salvatore Cagiulla a non molta distanza dal luogo dell’avvenimento ed avendogli detto che avesse atteso suo zio, mi rispose “te lo rendo curtelliatu sul collo”. Non è poi vero che io abbia, in precedenza, fatte delle minacce a Rossi per aver egli supposto che avessi messo dell’acqua in una partita di mosto a lui venduta, né che io mi fossi dispiaciuto di lui per aver comprato un pezzo di terra confinante con un mio fondo, anzi dissi al padrone di tale fondo che lo avesse pure venduto a Rossi, e ciò lo sa Pasquale Valente. Solo ho avuto delle parole col Rossi a motivo che gli dissi che non doveva raccogliere la ghianda che cadeva nel mio fondo, ma il fatto è che egli se la raccolse come volle, senza mia opposizione. Non è poi vero che avessi detto a Carminella Arnone che, dal luogo ove io ero quella sera, Rossi non avrebbe potuto vedermi e molto meno sussiste che io avessi detto a mia sorella “credetti che dopo i colpi fosse morto, altrimenti gli avrei tagliato la testa”. Ad escludere l’imputazione basta riflettere che la domenica precedente al ferimento di Rossi io fui nella sua cantina, ove egli mi complimentò del vino e ad un mio ragazzo che avevo fra le braccia complimentò del moscato, sicché da ciò apparisce che io ero amico allo stesso e non già inimico. Dichiaro, inoltre, che Rossi aveva delle inimicizie con Pasquale Lauro da Motta, cui da più tempo aveva impedito di vendere vino; con Tommaso Branca, cui aveva fatto un esproprio; con Antonio Bruno da San Pietro in Guarano, cui aveva fatto altro esproprio; con certo Pasquale, carbonaio da Serra Pedace, contro cui ha iniziato giudizio avanti la Pretura di Spezzano Grande; con Raffaele Gualtieri da Fravetto per dazio consumo e con Luigi Ciccantonio da Celico, cui per tre pose di lana fece pagare docati settantacinque e con altri. Sicché replico di essere innocente e mi riserbo di offrire, a suo tempo, dei testimoni a mia difesa.

I suoi problemi però sono che non dice dove si trovava all’ora del delitto e che, ora che è al sicuro in carcere, ai testimoni passa la paura e cominciano a parlare confermando, al contrario, il racconto fatto dalla vittima e quanto raccolto informalmente dal Brigadiere Munizio.

Gli elementi acquisiti per la Procura sono sufficienti per chiedere il rinvio a giudizio di Gaetano Arnone e la Sezione d’Accusa la pensa allo stesso modo, così l’imputato dovrà comparire davanti alla Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio premeditato e porto abusivo di arma da fuoco.

Il 16 febbraio 1895 la Corte, concesse le attenuanti generiche (che scongiurano l’ergastolo), condanna l’imputato ad anni 30 di reclusione, oltre alle pene accessorie, spese e danni.

Quattro mesi dopo la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Gaetano Arnone.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.