LE DUE TESTE DI BRIGANTI

Il 27 settembre 1861 viene ritrovato nel bosco detto Fialà (a 4 miglia dall’abitato di Maida) un cadavere quasi del tutto putrefatto e deformato a segno da non poter essere trasportato in paese, né riconosciuto. Il cadavere appalesasi di un uomo d’anni 30 circa, con capelli bianchi, vestito di giacca di lana, calzone corto di velluto nero, calzette di lana nere, scarpe ai piedi ed una statura giusta.

La soluzione al problema è che bisogna andare sul posto e cercare di capirci qualcosa. No, il tanfo è così forte che i medici si rifiutano di sezionare il cadavere, limitandosi ad una frettolosa osservazione esterna, dalla quale si evince che l’uomo è stato colpito da una fucilata al petto. Di trasportarlo non se ne parla nemmeno e viene deciso di scavare una buca per seppellirlo sul posto. Però, da alcuni pastori rintracciati nei dintorni, qualcosa filtra: nei giorni precedenti vi era stato un conflitto a fuoco fra la comitiva che s’annidava in quel bosco e si ritiene che il cadavere potrebbe essere quello di qualche brigante.

In questo frattempo, al giudice di Feroleto si presenta tale Domenico D’Amico, di quel Comune, gravemente ferito al braccio destro, il quale dichiara di essere stato ferito nel giorno del conflitto a fuoco nel bosco Fialà. Il racconto fa sorgere il sospetto che facesse parte della comitiva di briganti e viene arrestato. D’Amico viene tradotto nel carcere di Maida e, interrogato, rivela che il cadavere senza nome appartiene a Giuseppe Molinaro Tropea da Sambiase, ucciso da Gennaro Serianni da Gizzeria e che nello stesso giorno era stato ucciso anche l’altro brigante Pietro Brescia da Gizzeria, il capo della comitiva, ad opera di Giuseppe Cicco e Bruno Ianni, compaesani del morto. Poi D’Amico dice che Bruno Ianni tentò di uccidere anche lui, ma fortunatamente scampò alla morte e, seppure ferito, tornò a Feroleto.

Incalzato, D’Amico nega strenuamente di appartenere alla comitiva di briganti e ottiene in proposito le dichiarazioni del sindaco e di molti suoi compaesani; dice inoltre di dimorare in qualità di forese in territorio Sambiase e ne ottiene la conferma dal suo padrone, ma il fatto che si sia trovato in quel bosco, in quel giorno ed in quell’ora per il giudice significa tutt’altra cosa e, in attesa di approfondire la questione, resta in carcere.

Il giudice di Maida, dal racconto di D’Amico e da altre testimonianze, ricostruisce il motivo per cui la comitiva di gizzeroti:

Pietro Brescia (imputato di omicidio e per questo datosi a scorrere le campagne), Giuseppe Cicco (soldato borbonico sbandato, latitante), Bruno Ianni (pecoraio, soldato borbonico sbandato, latitante) e Gennaro Serianni (18 anni, mugnaio) tutti da Gizzeria, nonché Giuseppe Molinaro Tropea da Sambiase, da più tempo erano riuniti in comitiva e scorrevano la campagna nelle vicinanze del loro paese. Nel mese di settembre 1861, vedendosi perseguitati dalla forza pubblica, guidati da D’Amico, conoscitore del territorio di Maida, passarono nel bosco Fialà e D’Amico si trattenne con loro come uno della comitiva.

Da questo punto in poi ciò che accadde non è del tutto chiaro nemmeno al giudice perché D’Amico, al momento l’unico testimone presente al conflitto a fuoco, fornisce quattro versioni dei fatti.

Le prime due versioni le racconta al giudice di Feroleto appena arrestato, probabilmente le meno credibili perché sostanzialmente smentite dai rilievi effettuati sui luoghi e le altre al giudice di Maida:

Feroleto:

Mi trovavo al servizio del signor Tropea da San Biase nella qualità di giumentario in contrada Canestrano di Sant’Eufemia, propriamente alla sponda del mare, e risolvendomi di venirmene in Feroleto a prendere pane, cavalcai una giumenta e mi avviai per la contrada Fialà, precisamente accostandomi alla fontana per venire in Feroleto, quando vicino alla fontana vidi avvicinarmisi due persone e due altre restavano indietro. Io conoscevo le due che più a me si accostarono a nome Giuseppe Tropea e Pietro Brescia. Pietro Brescia mi chiese la giumenta e Tropea mi domandò se suo zio [il datore di lavoro di D’Amico. Nda] aveva ricevuto una lettera di Pietro Brescia. Si impossessarono della giumenta e mi lasciarono a piedi. Fatti pochi passi intesi le grida: “Ferma, ferma!”. Voltatomi, vidi sopraggiungere la Forza e Brescia mi tirò due colpi di fucile ferendomi al braccio con un colpo e bucandomi il cappello con l’altro e mi diedi alla fuga. Alla continuazione delle fucilate mi voltai e vidi cadere morti Brescia e Tropea.

Interrogato nuovamente cambia versione riguardo all’incontro con Brescia e gli altri della comitiva:

– Quattro giorni prima che il conflitto fosse avvenuto, i cinque individui si portarono nel mio pagliaio e mi obbligarono a seguirli onde imparargli la strada del bosco Fialà. Mi fecero credere non solo che Brescia scorresse con loro la campagna e la facesse da capo, ma anche che Giuseppe Molinaro Tropea era un di loro compagno.

Quest’ultima versione servirebbe a confermare che non faceva parte della comitiva e giustificherebbe la sua presenza nel bosco Fialà nel momento del conflitto a fuoco.

Maida:

Dopo quattro o cinque giorni di dimora in quel bosco, mentre Pietro Brescia era in un punto dello stesso sdraiato a terra sonnecchiando, gli si avvicinarono Cicco, Ianni e Serianni, ch’erano stati in perlustrazione nei dintorni, e gli dissero che essendosi imbattuti in una donna l’avevano tutti e tre violentata. Si dispiacque di ciò Brescia prevedendo che sarebbero stati subito scoperti in quel bosco e disse ai tre che si fossero allontanati dalla compagnia non volendo aver che fare con uomini di tanta imprudenza. I tre si offesero e rimproverarono Brescia dicendogli che fino a quel punto gli avevano guardato le spalle e che per una cosa da nulla li congedava. Finito l’alterco, Brescia e Tropea ripresero la primitiva posizione in cui erano onde di nuovo conciliare il sonno. Io mi appartai alquanto per far un bisogno naturale ed intesi due colpi di fucile uno dopo l’altro. Accorsi e vidi già morto Brescia; non vidi Tropea perché era alquanto più distante. Pensai di fuggire ed uno dei tre mi tirò una fucilata ferendomi al braccio destro. Per timore che gli uccisori di Brescia e Tropea fossero tuttavia in campagna occultai la verità facendo credere che Brescia e Tropea eran morti in conflitto colla forza pubblica.

Poi cambia versione relativamente alla dinamica dello scontro a fuoco tra i briganti:

Cicco, Ianni e Serianni si appartarono guardando con un cannocchiale se veniva gente. Assicuratisi che nelle vicinanze non c’era nessuno, Giuseppe Cicco imbracciò il suo fucile e tirò un colpo contro Brescia ferendolo al petto; Bruno Ianni si buttò sul ferito e, a corpo vivo, gli recise la testa. Al colpo accorse Giuseppe Molinaro Tropea in difesa del capo, ma Gennaro Serianni fu sollecito a scaricargli contro il fucile, uccidendolo. Ianni scaricò il suo fucile contro di me ferendomi seriamente al braccio destro e poi mi diedi alla fuga….

Il problema è che nel bosco Fialà il cadavere di Pietro Brescia, decapitato o meno, non c’è e quindi sorgono dei seri dubbi sul fatto che il capo banda sia stato realmente ucciso.

Ma torniamo indietro al giorno del conflitto a fuoco. Cicco, Ianni e Serianni, dopo aver realmente ucciso e decapitato Pietro Brescia, ne infiggono la testa su un palo, si incamminano verso Nicastro con l’intento di consegnarla alla Giustizia ed ottenerne così il perdono per avere eliminato il pericoloso brigante. Arrivati a Gizzeria, però, si imbattono nel Tenente della Guardia Mobile Nicola Aiello e la consegnano a lui, costituendosi nelle sue mani.

A questo punto le cose rischiano di ingarbugliarsi ulteriormente perché Cicco e Ianni, interrogati, forniscono una versione dei fatti diversa da quelle di D’Amico e Serianni ne racconta un’altra parzialmente diversa dai due suoi compari:

La discussione fra loro tre e Pietro Brescia non avvenne per aver violentato una donna, ma perché, volendo essi abbandonare la comitiva essendo Cicco e Ianni soltanto soldati sbandati e non avendo commesso reati, Brescia vi si oppose e per primo sparò un colpo di fucile contro Giuseppe Cicco senza ferirlo e, mentre avanzava contro di lui con lo stile, Cicco gli sparò e Ianni accorse a tagliargli la testa. Serianni nega di avere ucciso Giuseppe Molinaro Tropea; gli altri due confermano di non averlo visto sparare e sostengono che ad ucciderlo fu Pietro Brescia il quale, nel voler ferire i suoi aggressori, colpì invece Molinaro Tropea.

Ma ora nella già ingarbugliata faccenda c’è un altro problema. Per capire di cosa si tratta dobbiamo tornare indietro al momento in cui i tre si presentano a Nicastro con la testa di Brescia infissa su di un palo e portata come un trofeo per consegnarla al giudice. Bene, poco dopo davanti al giudice si presentano due soldati con un’altra testa mozzata e il magistrato ora si ritrova con due macabri trofei sul suo tavolo, in attesa che vengano esposti al pubblico come monito.

Ora partiamo da questo momento per raccontare la storia della seconda testa mozzata.

È il giorno dopo il conflitto a fuoco tra i componenti la banda di Pietro Brescia. Giuseppe Galettieri da Falerna si aggira nei boschi del Mancuso quando viene sorpreso da un drappello di forza militare. Che ci fa in quei boschi? Sicuramente è un brigante o un loro manutengolo. Viene arrestato e portato a Nicastro. Qui si scopre che è il fratello di Gennaro Galettieri, uno dei componenti la comitiva di Pietro Brescia, che al momento del conflitto a fuoco non era presente, come non era presente Antonio Pilleri di Nocera Terinese. Allora, forse, Giuseppe era in quei boschi per fare la spia a suo fratello, cioè avvisarlo di ciò che era successo e farlo mettere in salvo. La cosa strana è che Galettieri è disarmato.

Giuseppe si dichiara innocente da ogni accusa e racconta:

Sono stato arrestato sulla strada tra Gizzeria e Falerna mentre tornavo a Falerna dietro aver parlato con mio fratello Gennaro sulle montagne di Gizzeria, poiché là presso mio fratello era un soldato sbandato che si era gettato in campagna ed io lo avevo persuaso a presentarsi, perciò andavo a Nicastro per avere un salvacondotto dall’autorità competente.

È un racconto incredibile, ma da ogni parte cominciano ad arrivare conferme: dal Comune di Falerna, dai compaesani che firmano più petizioni in suo favore e, piano piano, anche da organi militari e di polizia.

Il 2 ottobre 1861, il Comandante Militare del Distretto di Nicastro, nel trasmettere al Giudice Istruttore una petizione di molti notabili di Falerna a favore di Galettieri, aggiunge:

Nella congiuntura cade in acconcio che io partecipi alla S.V. come il Galettieri si presentò personalmente a me qualche giorno innanzi e mi pregasse di rilasciarli un foglio di sicurezza pel fratello suo Gennaro, facendomi conoscere essere intenzione di lui (Gennaro. Nda) di presentarsi a me e di ritornare sulla retta via. A tale domanda di Giuseppe Galettieri io risposi che ove suo fratello Gennaro fosse veramente intenzionato di costituirsi, poteva farlo avanti il signor Ufficiale Comandante la forza mista in Colonna Mobile nel territorio di Gizzeria, dal quale sarebbe stato accolto e ritirato senza nessuna molestia. Ciò premesso, e confrontata la data di tempo in cui Giuseppe Galettieri si presentò a me con quella del giorno che venne arrestato, emerge essere probabile che sia conforme a verità quanto il medesimo asserisce, cioè che quando venne arrestato andava in traccia del fratello all’oggetto sopra indicato.

Il giorno dopo, il Comandante invia un nuovo rapporto ed a proposito di Galettieri scrive:

Credo di dover richiamare particolarmente l’attenzione di V.S. sull’importante circostanza che il Galettieri Giuseppe, arrestato senz’armi di sorta sulla persona, ciò parendomi militar molto in favor suo e dimostrare sufficientemente non doversi egli annoverare fra gl’imputati di brigantaggio.

Cosa c’entra l’arresto di Giuseppe Galettieri con la seconda testa mozzata? C’entra perché la testa apparteneva a Gennaro Galettieri, il fratello di Giuseppe, sorpreso in armi nei boschi del Mancuso dalla forza armata mista, spedita in colonna mobile nel territorio di Gizzeria, fucilato sul posto e decapitato per esporne la testa in pubblico, secondo la legge. Anzi, dai rapporti di polizia Gennaro Galettieri viene indicato come sotto capo della comitiva e in seguito all’operazione che portò alla sua morte, vengono segnalati per attività e coraggio: Francescantonio Renda (Capitano della Guardia Nazionale di Gizzeria), Federico Maruca (Luogotenente), Feliceantonio Paonessa, Domenico Gunzo, Luigi Paonessa, i Carabinieri Borghesi di Feroleto, il 2° Sergente Gambera Giovan Battista del 7° Reggimento Fanteria.

Non solo: pare che della comitiva facesse parte anche tale Alfonso Mauro, arrestato in altre circostanze, denunciato insieme a Giuseppe Cicco, Bruno Ianni e Giuseppe Galettieri, da Alfonso Trapuzzano e Gaspare Franzé da Gizzeria per l’omicidio di Gennaro Paola, il sequestro di persona del signor Iannazzo, furti, vari casi di uccisione di bovi, pecore ed altri simili gesti.

Trapuzzano e Franzé si decidono a fare la denuncia temendo che Cicco e Ianni siano liberati dal Sotto Governatore di Nicastro come premio per avere ucciso Pietro Brescia e quindi quelle bestie ora avrebbero maggior vendetta a compiere.

Poi accade che, il 26 ottobre, Trapuzzano e Franzé, convocati dal giudice per confermare la denuncia, rispondono che il ricorso non fu formato da loro, né essi han dato incarico ad alcuno di foggiarlo e molto meno conoscono cosa circa il contenuto di esso, precisamente a carico di Alfonso Mauro. Evidentemente hanno paura.

Dopo avere ascoltato decine di testimoni, il 23 dicembre 1861 il Procuratore Generale chiede che Giuseppe Galettieri sia prosciolto dall’accusa di brigantaggio e scarcerato. In una comunicazione immediatamente successiva, il magistrato esprime seri dubbi anche sulla colpevolezza di Alfonso Mauro e il 31 dicembre la Gran Corte Criminale, con voto unanime, proscioglie entrambi dai reati rispettivamente contestati per insufficienza di prove e li scarcera.

Per quanto riguarda D’Amico, Cicco e Ianni, tutti e tre vengono rinviati a giudizio per Associazione di cinque malfattori ad oggetto di delinquere contro le persone e le proprietà; incendio volontario di cose ed abitazione in danno di Francesco e Alfonso Trapuzzano e Gaspare Franzè; tentata grassazione di denaro in pregiudizio dei medesimi.

Inoltre, il solo Giuseppe Cicco dovrà rispondere anche di complicità nell’omicidio premeditato e furto con grassazione in persona di Gennaro Paola, il 15 agosto 1861; mancato omicidio volontario in persona di Vincenzo Paola il 15 agosto 1861.[1]

Non conosciamo l’esito del processo, ma il fatto di avere eliminato Pietro Brescia certamente li ha salvati dalla pena di morte.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme.