INTOSSICAZIONE ALCOOLICA

È il 24 settembre 1946 e per Nicola Lombardi e sua moglie Antonia Marino è un giorno importante, il giorno della stipula dei capitoli dotali della figlia Rosina col giovane Francesco Gallo.

Di buon mattino sono già pronti e, dalla loro casetta colonica in contrada Parisi, si avviano verso Rocca Imperiale. Firmati gli accordi, intorno a mezzogiorno consumano una colazione in casa di Nicola Marino, il suocero di Lombardi, e per festeggiare il lieto evento stappano una bottiglia di liquore. Verso le 16,00 Antonia, Rosina, i due figli più piccoli, una di dieci e l’altro di sei anni, ed il futuro genero Francesco Gallo tornano in campagna, mentre Nicola, il capofamiglia, resta in paese per sbrigare un affare e poi approfitta dell’occasione per fermarsi in una cantina a bere qualche bicchiere di vino con gli amici. A casa arriva quando è quasi buio ed è evidente che è alquanto brillo. Sulla mensola del caminetto brilla una lucerna ad olio, lasciata accesa apposta per lui.

– Dov’è Domenico? – chiede appena entrato, riferendosi al figlio maggiore col quale  è arrabbiato perché si è sposato contro la sua volontà ed è andato ad abitare in una casetta vicina.

– Oggi non è a casa, deve dormire in una masseria qui vicino – gli risponde Antonia dal letto.

– Ah! Così è? E allora stasera devo fare una scenata!

Antonia sa che quando il marito beve diventa violento e potrebbe far del male ai figli. Così lei, che ha sempre cercato con le buone di indirizzare il marito sulla diritta via e che ha sempre sopportato pazientemente le sue scenate, per evitare possibili guai si alza e va a chiamare Domenico. Anche Rosina si alza dal letto preoccupata e, con tono sottomesso, gli chiede:

– Vuoi mangiare qualcosa?

– No! ho già mangiato in paese! – le risponde bruscamente. In questo frattempo Antonia rientra, si siede accanto al caminetto e prende sulle ginocchia il figlio più piccolo. Per un tempo che sembra infinito, ma che non è più lungo di un paio di minuti, regna il silenzio perché Nicola ha preso il fucile e lo rigira nervosamente tra le mani, poi la porta di casa si apre ed entrano Domenico e Francesco, il futuro marito di Rosina. Domenico vede il fucile nelle mani del padre e, con l’intento di evitare la solita scenata, gli dice:

– Ma finiscila! Non sta bene, alla tua età fare scenate in famiglia!

Il padre non la prende bene e, andando verso la porta di casa, gli risponde piccato:

Mascalzone, esci fuori! – poi, dopo aver baciato Francesco Gallo, esce di casa col fucile e, ironicamente, continua – vado a caccia!

Anche Domenico esce, poi ci ripensa, rientra in casa e chiude la porta. Dopo qualche secondo tutti avvertono distintamente picchiare ad una delle due finestre della stanza  di cui si compone l’abitazione. È Nicola che tenta di aprirla e, non riuscendoci, va all’altra finestra e questa si apre. All’interno della stanza appaiono gli occhi neri delle canne del fucile, che Nicola ha poggiato su una sbarra di ferro della grata a protezione della finestra, poi la sua voce alterata:

Siamo pronti e svelti!

Domenico capisce che quello è una specie di “si salvi chi può” perché il padre sta per sparare davvero e, mentre si lancia verso la finestra per cercare di chiudere gli scuri, urla:

Nascondetevi! – Rosina, Francesco e la sorellina di dieci anni si buttano sotto il letto tremando, mentre Antonia resta seduta, immobile, con l’altro bambino sulle ginocchia – Mà, nasconditi! – le urla mentre con una mano spinge uno scuro della finestra e con l’altra cerca di afferrare le canne del fucile per deviarle verso l’alto. È in questo preciso istante che partono due fucilate, praticamente contemporanee. La stanza è invasa dalle vampate delle detonazioni, dal fumo acre della polvere da sparo e dalle urla di terrore. Più di tutti urla il bambino più piccolo, che ha sentito fischiare i colpi a pochissimi centimetri dalla sua testa, e che sente la mamma afflosciarsi sotto di lui trascinandolo a terra, colpita per un caso più unico che raro da entrambi i colpi esattamente nello stesso punto, il cuore. Il bambino, per un altro caso altrettanto unico, è illeso.

Nicola, ghignando satanicamente, si sposta verso l’altra finestra mentre toglie le due cartucce esplose e cerca di ricaricare il fucile, ma Domenico, nonostante abbia il volto ustionato dalle vampate del fucile, è velocissimo ad uscire ed a lanciarsi sul padre buttandolo a terra e, dopo una breve colluttazione durante la quale lo colpisce alla testa con un pezzo di legno, riuscendo a disarmarlo.

In casa, Rosina, Francesco ed i due bambini si buttano sulla mamma, ma non possono che accorgersi della sua morte e cominciano ad urlare disperatamente. Nicola, che approfitta del momento di sconcerto per liberarsi della morsa del figlio Domenico, capisce di aver ucciso sua moglie e, con tono cinico, dice:

Quello che ho fatto adesso avrei dovuto farlo vent’anni fa! Vado a costituirmi a Castrovillari! – Poi sparisce nel buio.

Nicola Lombardi si costituisce cinque giorni dopo nel carcere di Castrovillari e, interrogato dal Giudice Istruttore, fornisce la sua versione dei fatti:

Appena tornato a casa, come mia moglie e mio figlio Domenico mi videro, mi investirono con ingiurie, mi diedero del debosciato e mi mandarono via di casa. Io avrei voluto reagire con qualche schiaffo, ma non ci riuscii perché mi afferrarono e Domenico mi diede una bastonata alla fronte – e indica la ferita –. Dopo avermi spinto fuori di casa e chiusa la porta, continuarono a chiamarmi debosciato e cornuto; di fronte a tanto, io, che mi trovavo armato, non so come, di fucile, persi la testa ed attraverso una finestra sparai uno o due colpi, ma non so dirvi se in direzione di mia moglie o menoero ancora in preda ai fumi del vino

– Eppure, tanto i rilievi fatti che il racconto dei vostri familiari dicono che non può essere andata come dite. Voi avete volontariamente mirato a vostra moglie dopo aver detto “presto e svelto”. Poi siete andato all’altra finestra e avete cercato di aprirla per sparare di nuovo! Non avete detto, dopo aver ucciso vostra moglie, che avreste dovuto farlo venti anni addietro? Non avete baciato vostro genero? Non avete colluttato con vostro figlio fuori di casa?

Lo escludo!

Gli inquirenti sanno che mente e, giocando sul suo stato di ebrietà, ricorda bene solo quelle circostanze che gli fanno comodo e non le altre da cui si ricava la sua responsabilità.

Omicidio volontario e minacce alla moglie ed ai figli di un grave ed ingiusto danno, reato commesso il 24 settembre 1946 ed in epoca antecedente, con più atti esecutivi del medesimo disegno criminoso. Sono questi i reati di cui dovrà rispondere davanti alla Corte d’Assise di Castrovillari il 12 gennaio 1949.

Durante il dibattimento, i figli di Nicola e specialmente suo genero cercano di aiutarlo ma, pur avendo invocato per lui clemenza, non possono che continuare a smentire recisamente la ricostruzione dei fatti che ha fornito e continua a fornire. Poi la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, smonta definitivamente la versione di Nicola: il Maresciallo Orlando, le due guardie municipali ed il dottor Di Leo, che per primi accorsero sul luogo del delitto, trovarono il cadavere della Marino a terra e proprio in direzione del finestrino da cui, a dire dei testi, vennero sparati i colpi; gli stessi notarono, come poi anche il Giudice Istruttore rilevò, che su uno degli sportellini dell’altro finestrino (cioè quello che l’imputato, secondo il racconto dei testi, cercò di aprire per primo) degli “scheggiamenti” dovuti ai colpi dati col calcio del fucile; fuori dalla casetta furono rinvenuti per terra non solo il fucile usato dall’imputato, ma anche due cartucce vuote, il che dimostra che effettivamente l’imputato tentò di ricaricare l’arma, altrimenti non avrebbe avuto ragione di scaricarla dopo gli spari. Quindi, la Corte afferma che la volontà omicida risulta chiara, ove si consideri che l’imputato, pur avendo visto prima di uscire il luogo ove la moglie era seduta (di fronte al finestrino), puntò in questa direzione le canne del fucile; l’imputato puntando l’arma vide la moglie, come i testimoni asseriscono (“mia madre non fece in tempo a togliersi alla sua vista”, raccontò Rosina). Responsabilità, quindi, pienamente provata dell’imputato in ordine al delitto ascrittogli.

La difesa obietta che Nicola Lombardi non sparò per uccidere, ma per terrorizzare i suoi familiari e sostiene che la morte di Antonia fu una tragica casualità dovuta al fatto che il figlio Domenico, spostando le canne del fucile mentre il padre sparava, deviò fatalmente la traiettoria dei colpi, che così centrarono in pieno il petto della madre. La Corte smonta questa ipotesi con due considerazioni: la prima è che fin dal primo momento Domenico, il solo che può dare lumi al riguardo, essendosi gli altri in quel momento nascosti sotto il letto ad eccezione di Antonia Marino, ha sempre affermato che i colpi partirono nel mentre egli tentava, senza riuscirvi, di deviarne la direzione; la seconda è che è innegabilmente certo, per come è stato già spiegato, che sin dall’inizio il fucile era puntato contro la Marino e che Nicola Lombardi, nel momento in cui partirono i colpi vedeva il bersaglio, vedeva che le canne erano dirette verso la moglie, la cui figura era ben chiara e distinta, illuminata dalla lucerna che era alle sue spalle, e tuttavia sparò ben due colpi. E per rafforzare il concetto della volontarietà dell’atto criminoso, aggiunge: aveva sete di sangue, quella sera, il Lombardi perché, non contento di aver scaricato il fucile una prima volta, tentò di ricaricarlo dopo aver espulso le cartucce vuote e solo l’energico intervento del figlio Domenico, che dovette con lui impegnare una colluttazione per disarmarlo del fucile, valse forse ad evitare altra sciagura.

Però, obietta la difesa, il rimprovero del figlio costituisce una provocazione, un fatto ingiusto che determinò in Nicola Lombardi un legittimo stato di ira e quindi, in ogni caso, deve usufruire della relativa attenuante.

La Corte ribatte: nessuna provocazione, nessun fatto ingiusto da parte dei suoi familiari che abbia potuto determinare in lui uno stato d’ira, come è risultato dalle deposizioni dei testi, contrariamente alle sue affermazioni, ma solo un rimprovero giusto e moderato da parte del figlio Domenico di non fare le solite scenate, non convenienti anche per la sua età non più giovanile e l’esplosione immediata della sua caratteristica violenza nei momenti di ubriachezza: la violenza e lo sfogo della violenza stessa principalmente contro la moglie, vittima prima, come sempre, dei continui maltrattamenti del marito, quando egli era in preda al vino, maltrattamenti che diedero luogo anche ad una denunzia. Antonia, quella sera, era anche colpevole di aver chiamato il figlio Domenico, verso il quale egli serbava rancore per essersi sposato contro la sua volontà, e che lo aveva anche rimproverato per le solite scenate.

Adesso la battaglia si sposta proprio sull’ubriachezza o, meglio, sugli effetti dell’alcol sulla mente dell’imputato. La difesa, infatti, chiede che al suo assistito venga concessa la seminfermità di mente per intossicazione alcoolica, richiamandosi ad un esposto, fatto ad istruzione compiuta e disatteso dal Pubblico Ministero e dalla Sezione Istruttoria, con cui si domandava che l’imputato venisse sottoposto a perizia psichiatrica per accertare il grado di intossicazione organica, derivante dall’abuso di vino ed a quanto i testimoni hanno dichiarato, che cioè Nicola Lombardi è un alcolizzato e che basta un sol bicchiere di vino per ubriacarlo.

La Corte, alla quale non sfuggono la delicatezza e la gravità della questione, ribatte subito che è chiaro che agli effetti dell’imputabilità non possono confondersi l’ubriachezza abituale con l’intossicazione cronica, che costituisce un processo patologico al quale conduce l’uso smodato di bevande spiritose. Ubriachezza abituale e intossicazione cronica sono due stati distinti e solo il secondo produce una alterazione psichica in forma permanente ed anche organica, per cui si fa luogo alla esclusione o alla diminuzione della imputabilità. Ciò premesso, la Corte non ritiene di aderire alla richiesta difensiva.

La Corte potrebbe fermarsi qui, ma decide di andare oltre, forse travalicando i propri poteri, e continua: a parte che sul fisico dell’imputato non si riscontrano i segni caratteristici dell’alcoolizzato, sta che i testi hanno concordemente affermato che quando non era né ubriaco, né brillo, Nicola Lombardi era buono, perfettamente cosciente, normale, cordiale, espansivo e generoso, attaccato alla famiglia ed accettava i consigli della moglie. Ora, se è vero che l’ubriachezza, anche se abituale, è sempre un episodio nella vita dell’individuo il quale, scomparso il turbamento acuto delle sue facoltà psichiche prodotto dall’azione dei veleni durante il loro passaggio biochimico attraverso l’organismo, torna alla sua normale personalità, l’alcoolismo cronico costituisce, invece, uno stato patologico permanente, una affezione cerebrale, un’alterazione stabile, che porta a quei disturbi nervosi e psichici gravissimi, che insorgono anche senza che s’ingeriscano i veleni che ne furono la causa prima; se ne deduce che, nella fattispecie, non di cronica intossicazione dovrebbe parlarsi, ma di ubriachezza abituale che, lungi dall’escludere o diminuire l’imputabilità, la aggraverebbe.

Solo poche parole per la seconda imputazione di minacce continuate di grave e ingiusto danno nei confronti della moglie e dei figli: la Corte afferma che non ci sono prove certe che le minacce fatte siano state gravi. D’altra parte, siccome non sono mai state presentate le necessarie querele al riguardo, non si può nemmeno procedere contro Nicola Lombardi.

È il momento di tirare le somme: la Corte, per i precedenti penali non gravi dell’imputato, ritiene di poter concedere le attenuanti generiche. Tenuto conto di ciò, la pena che viene inflitta a Nicola Lombardi e di anni 16 e mesi 9 di reclusione, più pene accessorie e spese. Non ci sono danni da pagare perché nessuno dei figli si è costituito parte civile. È il 12 gennaio 1949.

La difesa non ci sta e non perde tempo, così il giorno dopo deposita il ricorso per Cassazione. La Suprema Corte lo accoglie con rinvio e, finalmente, il 7 luglio 1952, la Corte di Assise d’Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza appellata, concede a Nicola Lombardi la diminuente del vizio parziale di mente per cronica intossicazione da alcool e riduce la pena inflittagli ad anni 12 di reclusione. Conferma nel resto la sentenza appellata. Dichiara, inoltre, condonati anni 3 e ordina che Nicola Lombardi sia ricoverato in una casa di cura e custodia per un tempo non inferiore a tre anni.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.