LA LEGGE DELL’OCCHIO PER OCCHIO

La sera del 29 ottobre 1939, il quarantenne Francesco Corniola sta passeggiando nella piazza Enrico Bianchi a Montalto Uffugo, quando incontra suo nipote Giulio Anania, Alfredo Curatolo e Antonio Perrone.

Eravamo venuti a casa tua per farti una visita e non ti abbiamo trovato! – Fa Giulio allo zio.

Tu e Perrone sareste stati i benvenuti, ma questo merdoso – risponde acidamente Corniola riferendosi ad Alfredo Curatolo – non ce lo voglio! – si, tra i due c’è dell’astio per questioni di giuoco.

Offendendo Alfredo hai offeso anche me! – risponde risentito il nipote, afferrandolo per la giacca e scuotendolo, mentre interviene anche Curatolo, che gli risponde:

Ma chi cazzo voleva venire in casa tua!

Cornuto! – gli fa, di rimando, Corniola.

Curatolo perde le staffe e gli molla un ceffone in pieno viso, facendolo cadere a terra col naso e il labbro superiore sanguinanti.

Questo non dovevi farlo perché, colpendo mio zio hai colpito me e io ti rompo il culo! – interviene Anania, assumendo posizione ostile contro l’amico Curatolo.

Nel frattempo si è fatta gente e, prima che possa accadere qualcosa di grave, i contendenti vengono separati. Curatolo se ne torna a casa e Anania va al Dopolavoro. Anche Francesco Corniola torna a casa. È furibondo, prende il fucile appeso ad un chiodo, lo carica e, incurante delle preghiere del suo bambino che piangendo gli si attacca alla giacca per trattenerlo, torna in piazza per cercare suo nipote. Eccolo, è là ad una trentina di metri. Imbraccia il fucile, prende la mira e spara. Basta un colpo, la rosa dei pallini colpisce Giulio Anania in pieno petto e lo fa stramazzare al suolo. Boccheggiando si rialza e, guardando lo zio, che ancora sbuffa come un toro, gli dice:

Mi hai ammazzato… – poi cade di nuovo e non si rialza più.

Nella piazza però si sentono anche le urla di dolore di un’altra persone, Tommaso Arturi, che si trovava lì per caso ed è stato colpito da due pallini tra l’orecchio sinistro ed il collo. Per fortuna non è niente di grave e se la caverà in un paio di settimane.

Francesco Corniola, col fucile in mano, va a costituirsi dai Carabinieri e racconta:

Nel rincasare mi imbattetti in mio nipote Giulio Anania, Alfredo Curatolo e Antonio Perrone. Mio nipote mi disse che erano venuti a casa a farmi una visita e gli risposi che la sera prescelta non era adatta, sembrandomi tutti e tre brilli, ed aggiunsi che tra loro vi era qualcuno ch’io non gradivo, al che Curatolo, risentitosi, mi dette uno schiaffo. A lui si unì mio nipote ed entrambi mi colpirono con pugni e schiaffi al viso, facendomi fuoriuscire una grande quantità di sangue. Adirato non solo perché mio nipote mi aveva colpito, ma perché mi aveva fatto colpire dagli altri, corsi a casa, presi il fucile, tornai in piazza dove vidi mio nipote che mi veniva incontro, ma non so se aveva armi, spianai il fucile e feci partire il colpo. Non volevo ucciderlo

Omicidio aggravato dai futili motivi e lesioni aggravate per offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta. Sono questi i reati per i quali si procede contro Francesco Corniola.

Il 19 febbraio 1940, il Giudice Istruttore, concluse le indagini, lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza, unificando i due reati contestati in quello di omicidio doppiamente aggravato e la causa si discuterà nelle udienze del 18 e 19 giugno 1940.

Alla fine del dibattimento il Pubblico Ministero chiede la condanna dell’imputato, esclusa l’aggravante dei futili motivi, a 30 anni di reclusione. La difesa, a sua volta, dopo aver inutilmente chiesto di effettuare una perizia psichiatrica sostenendo la totale infermità mentale del suo assistito, ripiega sulla concessione delle attenuanti del vizio parziale di mente (basata sul fatto che Corniola nel 1928 fu colpito alla testa con una scure da una sua amante, con conseguente frattura del tavolato osseo, ma nella documentazione presentata emerge chiaramente che la guarigione avvenne integralmente senza lasciare conseguenze) e dello stato d’ira determinato da fatto ingiusto.

La Corte osserva che per le stesse affermazioni dell’imputato, il quale ha confessato di aver voluto sparare contro il nipote per vendicare la patita violenza, non si può dubitare della di lui responsabilità, essendo stato egli causa materiale, cosciente e volontaria del delitto. Ma appunto perché egli uccise nello stato d’ira determinato da fatto ingiusto, devesi non soltanto escludere l’aggravante dei futili motivi, ma per giunta concedergli la relativa diminuente. E ritiene opportuno ricordare in cosa consiste il futile motivo: per futile motivo deve intendersi, come è comune opinione, quella spinta al delitto così sproporzionata e lieve, da essere addirittura irrilevante, come se mancasse il movente. Chi delinque per futilità di motivo dimostra di essere un impulsivo pericoloso e merita maggior pena al fine che il rigore di questa serva da immunizzazione per gli altri e sovra tutto riesca a tutelare la società dalla delinquenza degli impulsivi.

E se è così come afferma la Corte, è chiaro che non può dirsi che operi per futili motivi chi reagisce ad una fisica violenza in quanto è nella convinzione comune che non sia disdicevole alla violenza rispondere colla violenza ed è in specie nella tradizione di alcuni popoli di non resistere passivamente al fatto lesivo ed ingiurioso senza venir meno ad un principio, esagerato per quanto si voglia, di dignità umana.

Se non abbiamo capito male, la Corte si appresta ad emettere un sentenza in base al principio barbaro dell’occhio per occhio e in più ci dice che questo principio può essere tranquillamente applicato in un determinato territorio, forse perché meno civile, e non in un altro, forse più civile. Vedremo.

Adesso la Corte spiega il perché del suo ragionamento: in concreto al prevenuto, che benevolmente rispose al nipote “tu saresti il benvenuto in casa mia, ma il tuo compagno merdoso non ce lo voglio”, dovette sembrare amaro che il nipote, a cui continuava a promettere ospitalità, si ritenesse offeso da un’ingiuria che, per essere rivolta al terzo, non lo riguardava ed osasse, in spregio ai vincoli di sangue, contro di lui linguaggio irrispettoso ed inopportuno (offendendo lui hai offeso me) e per giunta scendere all’atto violento di afferrarlo per il bavero e scuoterlo, contribuendo col suo contegno a farlo schiaffeggiare dall’altro. Vero è che in secondo tempo Anania contegno a difesa del prevenuto, ma di ciò costui non ebbe contezza perché si era di già allontanato, onde è che quando uccise, delinquì sotto il doloroso movente di essere stato maltrattato dal nipote in presenza di estranei, da quel nipote verso il quale aveva avuto poco prima parole affettuose. Tutto ciò che lascia solchi di rancore, come può essere la ingiusta riprensione da parte di un nipote, la quale fa senso in specie ad esseri impulsivi, come si è appalesato Corniola, è ovvio che non possa costituire, e non costituisce, futile motivo. Anzi, poiché il contegno aggressivo del nipote, oltre ad essere ingiustificato, fu lesivo non solo della generica quanto comune aspettativa della solidarietà familiare, anche del particolare diritto al dovuto rispetto ad uno zio, non può negarsi al prevenuto il beneficio dello stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui. La ingiusta lesione di un nostro diritto o di un nostro legittimo interesse è causa idonea a trasportare alla reazione. Però, se reagendo si esagera e si delinque, di detta causa, che ha sconvolto i poteri inibitori, devesi, nell’apprezzamento della pericolosità e della responsabilità, tenere il giusto conto.

Il giusto conto da tenere è, ovviamente, la concessione dell’attenuante dello stato d’ira, anche se si tratta, per ammissione della stessa Corte, di una persona irascibile.

Detto questo, in quanto alla pena, tenuto esatto conto della gravità del delitto e delle conseguenze (omicidio in danno del proprio nipote, già padre di teneri figlioletti), nonché della indiscutibile aggravante di offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta, la Corte stima proporzionata la pena di anni 21 di reclusione, oltre alle pene accessorie, spese e danni.

È il 19 giugno 1940 e l’Italia da nove giorni è stata tragicamente trascinata in guerra da Mussolini.

Il 13 aprile 1950 la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara condonato un anno della pena.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.