PER CHI SUONANO LE CAMPANE

È la sera del primo novembre 1890. Salvatore Muzzillo ed i fratelli Andrea ed Eugenio Greco sono sul campanile della chiesa di Macchia, frazione di Spezzano Piccolo, a suonare le campane per i morti. Dopo aver suonato Eugenio, suona Andrea tenendo la corda della campana ravvolta alla mano destra, mentre il capo della corda pende in basso, fino al piano terra. All’improvviso la corda viene tirata con violenza e Andrea si fa male alla mano. Urlando e imprecando per il dolore, afferra un pezzo di tavola e lo tira di sotto. Un altro urlo, questa volta dal fondo del campanile, poi un rumore di passi affrettati che salgono le scale e appaiono Pietro Michele Perri e Tommaso Simari che, lagnandosi del pezzo di tavola gittato, dice:

Vi getterei dal campanile!

Vieni! La tavola l’ha gittata Andrea perché si è fatto male – gli risponde Eugenio.

A queste parole, Simari si lancia contro Eugenio, lo afferra per la gola e cominciano a picchiarsi. Fortunatamente Perri e Muzzillo sono lesti ad intervenire e a separarli prima che si facciano male, ma a riattizzare il fuoco ci pensa Andrea, che urla in faccia a Simari:

Me l’hai fatto più di una volta e temo che oggi sia l’ultimo giorno tuo!

L’avversario, per nulla intimorito, afferra un sasso e sta per tirarglielo, quando Perri e Muzzillo, di nuovo, lo bloccano. A questo punto, vuoi per lo scampanio, vuoi per le urla che nel silenzio della sera si propagano dappertutto, sopraggiunge Biagio Inglese, che riesce a calmare gli animi, a far uscire tutti dal campanile e ognuno prende la sua via di casa.

Pietro Michele Perri si ferma nella piazzetta vicina alla chiesa, dove subito arriva Eugenio Greco, uscito di nuova da casa, e cominciano a parlare del fatto, proprio mentre sopraggiunge Pasquale Porco, il cognato di Simari:

Perché vi siete litigati sul campanile? – Chiede ad Eugenio ma, mentre questi sta per raccontargli l’accaduto, arriva Simari che lo afferra per il petto. Anche questa volta interviene Perri che afferra Simari per trarlo ad altra parte, ma Simari, svincolandosi, prende una pietra e la scaglia contro Eugenio Greco. In questo momento arriva la moglie di Simari e insieme a Perri afferrano il congiunto per trattenerlo, mentre Porco trattiene Eugenio Greco. Sembra di nuovo tutto finito, quando dal buio spunta Andrea Greco che toglie dalla sacca interna della giacca un revolver e spara un colpo che, sibilando a pochi centimetri dalla testa di Perri, si conficca nell’occhio destro di Simari. Mentre il ferito si accascia a terra, i fratelli Greco scappano e vengono inseguiti da Pasquale Porco e dalla moglie di Simari, che riescono a raggiungere Andrea e ad afferrarlo per la giacca, ma sono costretti a lasciarlo quando sventola loro in faccia il revolver, minacciando di ammazzarli.

Mentre qualcuno va ad avvisare dell’accaduto i Carabinieri di Spezzano Grande, altri trasportano il ferito a casa e vanno a chiamare il dottor Michele Ponte, che arriva in pochi minuti, visita il ferito, esegue un primo intervento per estrarre il proiettile e poi relaziona:

Ho riscontrato quanto segue: una ferita da arma da fuoco con il suo forame d’entrata nell’angolo interno dell’occhio destro. L’occhio è tutto sfracellato, tanto da vedersi fuori dalle palpebre il cristallino e la sclerotica in brandelli. Dietro l’orecchio destro, e proprio in corrispondenza della rocca dell’osso temporale, trovo una sporgenza che mi indica la presenza del proiettile ed infatti, aperto, trovo l’osso temporale fratturato da dentro in fuori e sotto di questo il proiettile che ho estratto per consegnarlo ai carabinieri; da questo secondo forame si vede uscire una sostanza bianca, ch’è la massa cerebrale, sicché ho fatto giudizio di ferita penetrante in cavità con ferimento del cervello e, quindi, mortale.

Il dottor Ponte non si sbaglia, purtroppo, infatti Tommaso Simari muore nelle prime ore del mattino del 2 novembre.

Nel frattempo il Vice Brigadiere Pietro Benussi, comandante la stazione dei Carabinieri di Spezzano Grande, comincia le indagini andando a perquisire l’abitazione dei fratelli Greco, senza trovarli e senza trovare la rivoltella micidiale. Non li trova nemmeno in alcune abitazioni e pagliai dove potrebbero essersi rifugiati. Anche le campagne circostanti vengono battute, ma dei due fratelli non c’è traccia. Poi, il 4 novembre, il ventiquattrenne Andrea Greco, accompagnato da Adolfo Barrese, si costituisce e racconta la sua versione dei fatti:

– Ero sul campanile con Salvatore Muzzillo e mio fratello Eugenio suonando le campane per il giorno dei morti. Tenevo la corda di una campana ripiegata alla mano destra e me la intesi da sotto tirare tanto forte da farmi male. Sentendo dolore, presi un pezzo di tavola e lo gittai abbasso. Stava salendo Tommaso Simari che, benché non fosse stato colpito, pure disse: “Vengo e vi getto dal campanile!”. Mio fratello rispose: “Vieni!”. Simari afferrò mio fratello per cui vennero a colluttazione, ma furono separati da Muzzillo e da Perri. Accorse Biagio Inglese che fece scendere mio fratello, ma nonostante ciò Simari minacciò di gettare lui e me dal campanile e poi gli lanciò dietro un pezzo di legno. Io pure scesi dal campanile e mi fermai sulla strada, mentre mio fratello andò in casa, ma disgraziatamente s’incontrò col cognato di Simari, il quale volle essere informato dell’alterco. Sopraggiunse Simari ed afferrò per la gola mio fratello ed io, perché ero vicino, vedendolo gittare a terra dai due cognati, sono accorso e Simari mi tirò uno schiaffo. Io mi trovavo nella sacca della giacca il revolver, l’ho impugnato per minacciarlo, ma il revolver sparò senza mia volontà ed il colpo andò alla testa di Simari, che cadde a terra, ed io sono fuggito… avevo bevuto vino ed ero alquanto ubriaco

L’ubriachezza, extrema ratio quando non si ha un altro motivo.

Subito dopo si costituisce anche il ventiduenne Eugenio e anche lui racconta la sua versione:

Non avendo io avuto alcuna parte nell’omicidio di Tommaso Simari, mi presento spontaneamente per chiedere la mia libertà provvisoria e mettermi a disposizione della Giustizia, dichiarando il fatto come è avvenuto. Ritornando dal lavoro ho veduto che mio fratello Andrea suonava le campane per il successivo giorno dei morti e sono anche io salito sul campanile per suonare. Mentre mio fratello suonava, tirando da sotto gli fu strappata di mano la corda ed essendosi fatto male, gettò un pezzetto di tavola abbasso. Salì Tommaso Simari il quale, benché non fosse stato colpito, pure ci minacciò di gittarci dal campanile. Dopo ciò mi afferrò per la gola, per cui siamo venuti alle mani, ma Salvatore Muzzillo e Michele Perri ci hanno divisi. Di nuovo minacciò gettarmi dal campanile e mi afferrò, ma sopraggiunto Biagio Inglese mi fece scendere e Simari avea preso una pietra per lanciarmela dietro e fu trattenuto. Dopo, andato in mia casa per lasciare la zappa, incontrai Pasquale Porco, cognato di Simari, e mi domandò del fatto del campanile. Mentre glielo raccontavo venne Simari e mi afferrò per il petto e allora Porco mi afferrò per il collo. Io cercai di difendermi, cioè di liberarmi dalle loro mani e Perri, che era presente, si era frapposto per dividerci. Corse mio fratello Andrea in mio aiuto quando vide che Simari avea preso una pietra e me l’avea scagliata, ma non mi ha colpito perché l’ho evitata, e vedendolo che andava contro di lui, impugnò il revolver e sparò. Io, ripeto, non vi ebbi nessuna parte.

Mi trovavo in mia casa aspettando mio marito – racconta la vedova – quando una donna, che non più ricordo chi era, mi gridò di correre perché mio marito si stava quistionando con Eugenio Greco. Accorsi subito e trovai che Michele Perri avea abbracciato mio marito per farlo ritirare e ciò nonostante Eugenio prese una pietra e la scagliò contro mio marito, colpendolo alla schiena. Allora Tommaso cercò lanciarsi contro Eugenio, dicendo: “Non più si scherza!”. Ma, avvicinandosi, Andrea Greco impugnò un revolver e sparò contro mio marito colpendolo alla testa. Tommaso cadde a terra ferito mortalmente. Trasportato a casa non fu più allo stato di conoscere e stette boccheggiante fino al mattino appresso, quando morì poco dopo fatto giorno. Espongo formale querela contro i fratelli Greco.

È il gioco delle parti. I fratelli Greco tentano di coinvolgere Pasquale Porco sostenendo che non avrebbe fatto da paciere, ma avrebbe preso parte attiva alla rissa, la vedova tenta di aggravare la posizione di Eugenio Greco. Ma, se da una parte, che Pasquale Porco abbia o meno afferrato per la gola Eugenio non è influente per le indagini, dall’altra, le indagini stesse portano ad escludere la responsabilità di Eugenio Greco nell’omicidio.

Il 30 dicembre 1890, la Sezione d’accusa, accogliendo le richieste della Procura, rinvia Andrea Greco al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario e porto abusivo di arma da fuoco.

Il 18 febbraio 1891 si tiene il dibattimento, che la difesa vuole incentrare su un solo aspetto: dimostrare che Andrea Greco, la sera dell’omicidio, era ubriaco.

Verso le due pomeridiane del primo novembre, Andrea Greco, uscendo da casa Tricarico, mi disse che, avendo reso un servizio al signor Luigi Tricarico, era stato da costui complimentato di un po’ di vino… – depone Giuseppe Occhiuto.

– Avete notato se era ubriaco?

Greco era appena un po’ brillo, ma non ubriaco – precisa.

Il primo novembre lavoravo in casa del signor Tricarico – racconta Filippo Pezzi – e viddi che costui diede incarico ad Andrea Greco di trasportare della calce e quando se ne sortì, Tricarico mi disse di avergli complimentato del vino. Viddi sortire Greco ed era non ubriaco, ma un po’ brillo.

Un po’ brillo ma non ubriaco, niente da fare, non regge.

Ascoltati i testi e letti gli atti, la Corte si ritira in Camera di Consiglio per mettere ai voti i quesiti posti alla giuria ed il risultato è che Andrea Greco, escluso lo stato di infermità di mente per ubriachezza, tale da scemare grandemente la sua responsabilità, viene riconosciuto responsabile di omicidio volontario e porto abusivo di arma da fuoco e, concessagli l’attenuante di avere agito in stato d’ira determinato da ingiusta provocazione non grave da parte della vittima, viene condannato ad anni 12 e giorni 20 di reclusione, oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie.

L’8 aprile 1891, la Suprema Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’imputato.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.