IL PESO DI UN MINORATO

Nel mese di ottobre del 1936, Andrea Melicchio dava in moglie la propria figlia Maddalena al giovane Nicola Ricioppo. Essendo lo sposo malaticcio e poco idoneo al lavoro, il padre di lui, Giorgio, che aveva voluto il matrimonio per liberarsi del peso di un minorato, aveva preso l’impegno di aiutare la nuova coppia con sovvenzioni in natura e in denaro.

Ma Giorgio Ricioppo, dopo la sistemazione del figlio, non mantenne gli impegni presi perché le sue condizioni economiche, nel frattempo, avevano subito un rovescio a causa di una cattiva gestione nell’amministrazione delle cartelle esattoriali, che gli costò anche un procedimento penale. Stando così le cose, all’altro consuocero Andrea, seppure con l’animo assai inasprito, non restò altro che addossarsi il peso della figlia e del genero, fornendo loro i mezzi di sussistenza. Ed il suo risentimento, specialmente quando era ubriaco, non lo nascondeva al consuocero Giorgio, rimproverandogli il mancato rispetto degli impegni presi. Da parte sua Giorgio, sapendo di essere in torto, sopportava in silenzio.

Questo stato di cose dura ormai da un bel po’ e i rapporti tra le due famiglie hanno perso, pur tra contrarie apparenze, ogni carattere di cordialità. Ma non basta: Andrea è stato avvisato che il genero sottopone sua figlia ad eccessivo lavoro e la tratta senza alcun riguardo, come se fosse una persona di servizio.

È la sera del 27 marzo 1938, Andrea, alquanto alticcio, sta andando da Cerzeto a Cavallerizzo e si accorge della presenza del consuocero, una ventina di metri davanti a lui. Lo raggiunge e lo apostrofa:

Fermati lazzarone! Questa sera dobbiamo regolare i conti!

Ma Giorgio Ricioppo, come al solito, non risponde al perentorio, ingiurioso e minaccioso invito e prosegue il cammino verso casa, limitandosi a richiamare l’attenzione di un paesano presente sulle parole dettegli da Andrea Melicchio.

Tornati entrambi a casa, mentre Giorgio non fa parola dell’accaduto, Andrea si mostra alquanto nervoso, tanto da rifiutare la cena, che poi accetta per le premurose insistenze della moglie.

La mattina dopo, Giorgio Ricioppo si alza presto ed esce per sbrigare alcune faccende personali al Municipio e alla caserma dei Carabinieri, poi torna a casa, prende il fucile, lo nasconde sotto al mantello e va nel fondo di Andrea Melicchio in contrada Frascineto, dove sa che sta vangando la terra per la semina dei ceci.

Lo vede intento a zappare ad una decina di metri da lui, bene a tiro. Toglie l’arma da sotto il mantello e arma i cani.

Il povero vecchio di settantaquattro anni non si è nemmeno accorto della presenza di Ricioppo alle sue spalle, quando viene investito in pieno dagli ottanta grossi pallini partiti da entrambe le canne del fucile, restando secco all’istante, quasi supino sul fianco destro, a distanza di appena cinquanta centimetri dalla vanga rimasta infissa nel terreno.

L’omicida rimette il fucile sotto al mantello e va a costituirsi dai Carabinieri, confessando il delitto:

Ero stanco di sopportarle continue rampogne di Andrea, di fronte all’impossibilità in cui mi trovavo, e mi trovo a causa del mio dissesto, di aiutare con sovvenzioni la famiglia di mio figlio… poi quello che è successo ieri sera mi ha profondamente turbato e mi ha fatto sorgere il sospetto che Andrea, essendo un pregiudicato, maturasse veramente propositi di rappresaglia e vendetta. Stamattina, proprio per questo motivo, dopo aver sbrigato alcune cose, mi è sorta l’idea di raggiungerlo in contrada Frascineto per avere con lui le chiarificazioni del caso e mi sono armato di fucile solo a scopo precauzionale.

– E avete parlato fra di voi? Ha continuato a minacciarvi?

– Andrea ha detto che doveva uccidermi… e a questo punto ho fatto uso dell’arma nascosta sotto il mantello e caricata lungo la strada

Ma appena gli inquirenti fanno un sopralluogo, la tesi difensiva di Giorgio Ricioppo naufraga miseramente: non c’è stata alcuna discussione tra i due perché è evidente che la vittima è stata colta di sorpresa e uccisa a sangue freddo mentre vangava la terra. Se ci fosse stato un colloquio tra i due, Andrea Melicchio si sarebbe dovuto istintivamente spostare dal luogo dove si trovava, sia pure quanto fosse necessario per volgersi verso Ricioppo per rispondergli. Non solo: gli inquirenti accertano che i due colpi di fucile sono stati sparati dall’angolo di una attigua casetta, da cui Ricioppo restava sottratto allo sguardo e all’osservazione della vittima.

E se ciò non bastasse, gli inquirenti scoprono che Giorgio Ricioppo non è il timido agnello di biblica memoria, ma viene dipinto come un uomo cattivo e maldicente, tale da non aver paura di Melicchio il quale, pur con le sue incomposte manifestazioni verbali, non viene ritenuto pericoloso e tale da poter incutere terrore. Apprezzamento, questo, che trova base nei fatti, essendo innegabile che quello stato di cose durava da anni, senza che l’ucciso – il quale provvedeva ai bisogni della nuova famiglia – avesse mai, comunque, superato il limite di qualche protesta e di qualche lagnanza. E anche il fatto che risultasse un pregiudicato, l’ultima condanna riportata da Andrea Melicchio risulta essere stata nel lontano 1903, ben trentacinque anni prima, non basta a cambiare lo stato delle cose.

Considerata l’inattendibilità della confessione e visti sia i risultati delle perizie tecniche, sia i precedenti rancori tra i due consuoceri, si procede per omicidio premeditato ed è con questa accusa che Giorgio Ricioppo viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

Il dibattimento si tiene nelle udienze del 14 e del 16 gennaio 1939. Il Pubblico Ministero chiede che l’imputato sia riconosciuto colpevole dei reati ascrittigli e condannato all’ergastolo; la parte civile, oltre ad una esemplare condanna, chiede la liquidazione dei danni; la difesa, al contrario, chiede l’eliminazione dell’aggravante della premeditazione e la concessione delle attenuanti della provocazione e quella dell’evento avvenuto col concorso del fatto doloso della persona offesa.

Letti gli atti e ascoltati i testimoni, la Corte osserva che, vista la confessione dell’imputato, non c’è dubbio sulla sua volontà omicida e che, piuttosto, si tratta di vedere se esistano i presupposti della premeditazione e delle attenuanti chieste dalla difesa.

Il mendacio dell’imputato sulla dinamica dei fatti induce la Corte a non prestare alcuna fede alla sua confessione, relativamente a questa parte, essendo assurdo supporre che il delitto, condizionato per giunta alla risposta che gli avrebbe dato Melicchio, sia sorta soltanto la mattina, se egli lo eseguì con così studiata preparazione e proditoriamente, né si può credere che Ricioppo abbia agito per fondata paura di supposte vendette. Poi continua: la Corte peccherebbe di poca sincerità se non dichiarasse che è rimasta lungamente perplessa sull’esistenza dell’aggravante della premeditazione, non potendosi escludere che molti elementi concorrono per l’affermativa. Tuttavia ha preferito eliminarla, sembrando che gli atti anteriori al delitto riguardassero l’esecuzione del progetto dipendente dalla risoluzione criminosa, fossero, cioè, l’attuazione di un dolo di riflessione senza quell’ulteriore grado e quella maggiore intensità di dolo che l’agitazione psichica del soggetto – determinata dall’offesa patita la sera precedente ad opera della vittima – rende per lo meno dubbia. In ordine a tale offesa, di cui l’imputato fu oggetto, cade in esame se si debba concedere l’attenuante della provocazione. Per le dichiarazioni del testimone presente al fatto, la Corte ritiene provato che la sera del 27 marzo 1938 Andrea Melicchio pronunziò contro Ricioppo parole d’ingiuria e minaccia. Così ognuno vede che la vittima, se pure sostanzialmente aveva motivo per dolersi, non era autorizzato ad usare quella forma aggressiva che doveva, a ragione, determinare, come determinò, il legittimo risentimento dell’imputato. La potenzialità provocatrice del linguaggio usato da Melicchio non può essere posta in dubbio senza il sovvertimento della valutazione razionale dei fatti umani e dà vita a quell’ingiustizia alla quale si ricollega lo stato d’ira dell’imputato che, nel sopravvenuto disagio delle sue condizioni economiche, più vivo e pungente avvertiva l’aspro e persistente rimprovero, contornato quella sera dalla minaccia e dall’ingiuria.

Secondo la difesa, quelle stesse ingiurie e minacce sarebbero alla base del concorso doloso della vittima, la seconda attenuante richiesta. Per la Corte non è così perché si avvererebbe l’assurdo che deriva dal far funzionare la stessa circostanza due volte per l’applicazione di attenuanti diverse e quindi rigetta la richiesta.

È ora di tirare le somme: nell’applicazione della pena, la Corte considera che, se si è dubitato dell’aggravante della premeditazione (la quale, secondo gli insegnamenti della Suprema Corte di Cassazione, sarebbe stata compatibile con la provocazione), non si può trascurare, ai fini dell’intensità del dolo e della gravità del fatto, che il delitto fu commesso con matura riflessione e con una permanente tenacia di volontà davvero allarmante, resa palese dalla studiata preparazione dei mezzi, della ricerca della vittima sul luogo di lavoro ed infine da quella aggressione proditoria che denota nel reo carattere cattivo e perverso. Concorrono, quindi, ragioni obbiettive e soggettive perché la pena, per un criterio di adeguata proporzione, sia tenuta alta.

Quanto alta?

Nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali ed in base ai motivi di cui sopra, la Corte stima di giustizia fissarla in anni 24 di reclusione, ridotta ad anni 21 per l’attenuante della provocazione. Oltre, ovviamente, alle pene accessorie, spese e danni.

Con Decreto Presidenziale 11 gennaio 1947, è stato concesso al ricorrente Giorgio Ricioppo il condono del resto della pena.[1]

In tutto 8 anni, 9 mesi e 17 giorni.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.