UN MALEDETTO IMBROGLIO

La mattina presto del 12 gennaio 1940, Antonio Gengarelli esce di casa in contrada Fosso dell’Olmo, territorio di Luzzi, per andare in paese a pagare il dazio di macellazione per due maiali, ammontante a £ 90 e 60 centesimi.

– Non è che ti stai portando tutti i soldi? – gli fa sua moglie.

– Si, se trovo aperto pago anche la fondiaria – le risponde, lasciandola brontolare.

Verso le 9,00 della stessa mattina anche Umile Crocco esce di casa in contrada Quadararo con una cesta sotto il braccio per andare al Dopolavoro di Timparello a comprare 3 chili di sale e 2 litri di vino.

Poco dopo mezzogiorno Crocco è ancora nel dopolavoro e sta parlando col gestore quando entra Gengarelli, Crocco lo vede e lo saluta calorosamente:

– Compà! Da quanto tempo! – poi lo abbraccia e continua – siediti che ci beviamo un quarto di vino!

– Compà! E ti posso dire di no? – accetta ridendo.

Nel locale ci sono altri comuni amici e da un quarto di vino da bere in due, a fare alcune partite a carte con in palio 3 litri di rosso il passo è breve. Manca ormai una mezzoretta al tramonto quando Crocco e Gengarelli lasciano la compagnia, pagano la loro quota e si avviano insieme verso casa, abitando a circa un chilometro di distanza l’uno dall’altro. Fa freddo ed è calata una nebbia fitta che rende incerto il cammino. Dopo poco meno di un chilometro, all’altezza della contrada Cappella Sambucina, ove havvi una nicchia con l’effigie di un Santo, la strada si biforca, ma entrambe le strade, sia quella che si svolge a sinistra, che quella che si svolge a destra, portano alle case sia di Gengarelli che di Crocco. Però il ramo di sinistra è, nei rapporti della casa di Gengarelli, assai più breve ma meno agevole perché accidentato e boschivo; viceversa il ramo di destra, più lungo di circa mezz’ora di cammino, è assai più praticabile. Per converso, questo ramo di destra è, per Crocco, più breve di circa mezz’ora, oltre ad essere più praticabile. In ogni caso, sia per chi volesse percorrere la strada a destra, sia per chi volesse percorrere quella a sinistra, si potrebbe agevolmente passare da una all’altra perché le due strade sono collegate da molti sentieri.

– Compà, vieni di qua? – chiede Crocco a Gengarelli.

– No, prendo la scorciatoia così arrivo prima.

– Ma c’è nebbia, è pericoloso…

– Ormai dopo cinquant’anni che la faccio, la conosco a memoria! Statti buono compà! – lo saluta incamminandosi.

Crocco risponde al saluto, scrolla le spalle e se ne va per la strada a destra, arrivando a casa appena fatto buio. Dentro ci sono sua moglie, Luisa Piro, e due loro cognate:

– Buonasera! – saluta, poi posa la cesta col sale e il vino e si mette a giocare con la figlioletta fino a che le cognate vanno via e la famigliola si mette a tavola per consumare una frugale cena, accompagnata da una bottiglia di vino. Poi vanno tutti a letto.

A casa Gengarelli non regna la stessa atmosfera di serenità perché il capofamiglia non è ancora arrivato e l’ora di cena è già passata. Potrebbe essergli accaduta qualcosa ed è meglio andare a cercarlo, nonostante la nebbia e la pioggia che ha cominciato a cadere. Escono Salvatore, il figlio, e Luigi Marano, il genero; vanno al Dopolavoro, che è chiuso, svegliano il gestore e apprendono che Antonio è uscito con Umile Crocco, il quale, quando i due bussano alla sua porta, si alza e racconta che giunti alla Cappelluccia si divisero: Antonio a sinistra e lui a destra.

Niente, di Antonio non si trova traccia per tutta la notte e per tutto il giorno dopo, fino a che, quasi al tramonto, due contadini, Pasquale Luzzi e suo figlio Angelo seguiti dal loro cane, transitando per contrada Serra Principe, a circa venti minuti di cammino dalla casa di Crocco e a circa 130 metri di distanza da uno dei sentieri che collegano la strada di sinistra a quella di destra, notano che il cane si mette ad annusare in mezzo ad alcune sterpaglie e poi comincia ad abbaiare furiosamente. Incuriositi, padre e figlio si avvicinano e fanno una macabra scoperta: il corpo senza vita di Antonio Gengarelli disteso supino con la testa verso un albero di castagno, il collo teso, gli occhi aperti, le mani abbandonate sulle cosce, le gambe divaricate, la giacca ed il gilè aperti, sbottonati ma non stracciati, ai piedi scarpe militari con le suole ed i tacchi tutti chiodati, il mantello arrotolato a circa un metro di distanza dal corpo. Padre e figlio notano anche che il terreno attorno al cadavere appare tutto sconvolto, come se ci fosse stata colluttazione o come se Gengarelli prima di morire avesse fatto degli strepiti, dei moti incomposti: la cosa strana è che non ci sono orme di scarpe ben delineate. A questo punto ai due non resta che andare ad avvisare i parenti del morto e, sapendolo lontano parente, vanno a casa di Umile Crocco:

È da stanotte che lo cercano, andiamo ad avvertire i parenti – esclama, visibilmente sorpreso, poi si incamminano verso la casa del povero Antonio.

Al triste annunzio, i parenti decidono di andare a rilevare il cadavere e, seguiti da Crocco, lungo il cammino tutti discutono sulle cause della morte. Alcuni sospettano che possa trattarsi di un delitto, ma Crocco sostiene che, più probabilmente, si tratta di una disgrazia dovuta ad assideramento o a caduta. Giunti sul posto, Francesco Gengarelli, fratello del morto, vorrebbe perquisire il cadavere per rinvenirgli il denaro, ma Crocco tenta di bloccarlo dicendogli:

– Che lo perquisisci a fare? Ieri sera non avea denaro per pagare il suo bicchiere di vino!

Malgrado ciò Francesco Gengarelli perquisisce il cadavere di suo fratello e nel taschino del gilet trova il portafogli. Lo apre e ci trova soltanto alcune bollette di fondiaria.

Dove sono i soldi, circa 600 lire, che Antonio Gengarelli doveva avere nel portafogli? È questa l’accusa che lancia la vedova, anche se i soldi potrebbero benissimo essere stati spesi per pagare la fondiaria, come il povero Antonio le disse prima di uscire.

Poi i parenti sollevano il corpo e si accorgono di una ferita alla testa e per questo adesso si parla apertamente di delitto a scopo di rapina, anche perché non si riesce a trovare nei dintorni il piccone che Antonio aveva con sé. Quando, poi, i parenti cominciano a trasportare il cadavere verso casa, uno dei presenti cerca di fermarli:

– Non dovreste portarlo a casa, dovreste lasciarlo come lo abbiamo trovato fino a che la Giustizia non disporrà diversamente…

Ma Umile Crocco interviene e dice:

– Se interviene la Legge i funerali non si potranno fare in quanto il cadavere sarebbe a disposizione dei giudici, così come anni prima avvenne per mio padre che, pur ignorandosi la causale della morte, nel dubbio che si trattasse di delitto, lo sottoposero ad autopsia.

A queste parole i familiari si convincono definitivamente che è meglio trasportare il cadavere a casa e l’indomani al cimitero per celebrare il funerale.

Ma le voci che si sia trattato di un omicidio a scopo di rapina corrono di bocca in bocca e arrivano all’orecchio dei Carabinieri, che si fanno raccontare come è stato trovato il cadavere, chi ha detto cosa e, soprattutto, chi è stata l’ultima persona a vedere vivo Antonio Gengarelli. Siccome Umile Crocco è stato l’ultimo a vedere vivo Antonio, è stato colui il quale si è opposto alla perquisizione del cadavere, è stato colui il quale ha consigliato di portare a casa il corpo e di procedere ai funerali, finisce per essere sospettato del terribile reato di omicidio a scopo di rapina e arrestato.

– Sono innocente! – urla quando lo interrogano – quando, alla Cappelluccia, ci dividemmo, giunto ad un pozzetto a circa 300 metri dalla Cappelluccia, vidi in quei pressi Renato Brocchi e Pasquale Condolino, nostri compagni di gioco poco prima, i quali a passo svelto imboccarono la via per la quale si era incamminato Gengarelli.

Allora i Carabinieri arrestano i due uomini, ma devono rilasciarli subito perché hanno un alibi di ferro: uscirono dal Dopolavoro un’ora dopo che ne erano usciti Crocco e Gengarelli e se ciò non bastasse, da un rilievo fatto sul posto, risulta impossibile che all’ora indicata da Crocco, alla distanza di 300 metri e con la nebbia fitta, si possa vedere chi si trovi alla Cappelluccia.

A casa del sospettato non c’è niente che serva alle indagini, tranne una giubba militare con sulla spalla destra alcune macchie di sangue che, esaminate, risultano però non essere di sangue umano.

Viene interrogata la moglie di Crocco, la quale tiene a precisare che suo marito, il 12 gennaio, indossava scarpe non chiodate e con i tacchi di gomma e che fece ritorno a casa un buon quarto d’ora dopo ch’era stato acceso il lume. Poi termina:

Nel comportamento di mio marito non notai niente che potesse farmi sospettare di qualche cosa

Crocco viene interrogato altre due volte e mantiene sempre la sua versione dei fatti, poi il Magistrato gli contesta:

– Se Gengarelli avesse davvero imboccato la strada di sinistra, risulta inspiegabile come mai il cadavere è stato trovato praticamente sulla strada di destra. Ce lo spiegate voi?

– Secondo me Gengarelli, imboccata la strada di sinistra, dovette per la nebbia e la disagevolezza della via abbandonarla e raggiungere, per un sentiero trasversale, il ramo di destra, a mezzo del quale avrebbe deciso di raggiungere la sua casa.

Per chi frequenta quei luoghi è una ovvietà.

– E perché vi siete opposto alla perquisizione del cadavere e avete insistito per far spostare il cadavere?

– Non è vera nessuna delle due cose.

Naturalmente, siccome si sta procedendo per omicidio, è necessario disseppellire la salma di Antonio Gengarelli e procedere all’autopsia, che riscontra una ferita lacero-contusa alla regione parietale destra della lunghezza di circa sei centimetri, coi bordi divaricati ed irregolari e profonda fino all’osso; contusioni ed abrasioni allo zigomo destro, alla regione frontale destra; sulla regione retro auricolare sinistra una profonda abrasione che sembrerebbe essere stata causata da un’unghiata; contusioni sulla coscia sinistra, all’interno della coscia destra e sulla tibia sinistra; infine, sublussazione del perone sinistro con vasto arrossamento di quasi tutta l’articolazione del piede. Ovviamente queste non sono lesioni tali da poter causare la morte e perciò si prosegue con la sezione cadaverica che, dopo l’apertura del cranio, evidenzia come la dura meninge, in rispondenza della regione parietale destra, sia fortemente iniettata di sangue raggrumito che ricopre quasi i 2/3 della regione medesima; come la superficie del cervello sia fortemente iperemica. Adesso il perito può formulare il suo giudizio in merito alla causa che ha portato alla morte di Antonio Gengarelli: la compressione endocranica per l’emorragia determinata da colpo di arma contundente sulla regione parietale destra, arma che, sostiene ancora il perito, con tutta probabilità è stata un piccone, il piccone di Gengarelli, mai ritrovato.

Compiuti questi atti di indagine, il fascicolo viene inviato al Giudice Istruttore per le valutazioni e il Magistrato, dopo aver letto tutto, ha la sensazione che non si siano raccolti seri elementi di accusa, onde sente il bisogno di dare incarico ai Carabinieri di continuare le indagini, senza omettere di accertare se la responsabilità non debba piuttosto cadere su altri.

I Carabinieri, da parte loro, il 25 febbraio 1940 rispondono che, malgrado ogni più vivo interessamento, l’ulteriore indagine ha dato esito completamente negativo. È in questo contesto che, il 13 maggio 1940, viene recapitata al Giudice Istruttore una lettera anonima spedita da Luzzi, con la quale affermasi la innocenza del Crocco e la colpevolezza di Brocchi e Condolino. L’anonimo aggiunge che Gengarelli era stato ucciso sulla via a sinistra e poscia portato nella via a destra, giusto nel punto ove ne fu rinvenuto il cadavere. Bisogna indagare sull’anonimo e i Carabinieri relazionano che si ha motivo di ritenere che l’anonimo sia opera della moglie di Crocco, al fine di ottenere la sollecita scarcerazione del di lei marito, sulla cui innocenza ella è certa.

Così le acque cominciano ad intorbidirsi e, ad aumentare la confusione, il 6 giugno successivo due pastori si presentano dai Carabinieri per consegnare un cappello da loro ritrovato, nascosto nella crepa di una roccia a poca distanza da dove fu rinvenuto il cadavere di Gengarelli. Che sia quello appartenuto alla vittima e mai ritrovato? Potrebbe essere, i parenti lo riconoscono, ma c’è un problema: il cappello è nuovo e appare molto strano che, essendo rimasto per lunghi mesi esposto alle intemperie, si sia mantenuto intatto. Per chiarire questa perplessità, i parenti di Gengarelli sostengono che il cappello sia stato maliziosamente messo in quel posto dai parenti di Crocco al fine di rendere credibile la sua versione che la vittima si incamminò lungo la strada di sinistra per poi cambiare idea e dirigersi su quella di destra. Sembra un po’ fantasiosa come spiegazione, ma tutto è possibile.

A questo punto l’istruttoria si può chiudere e il Giudice Istruttore, fugati tutti i dubbi, il 22 ottobre 1940, rinvia Umile Crocco al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di rapina e omicidio aggravato dal fine di commettere la rapina. Accuse da plotone d’esecuzione.

Dopo due rinvii, il dibattimento inizia il 22 febbraio 1942, ma il Pubblico Ministero chiede che sia di nuovo rinviato perché ha nuove prove a carico dell’imputato.

Quali sono queste nuove prove? Bene, eccole: pochi giorni prima dell’inizio del dibattimento, Luisa Piro, la moglie di Crocco, si presenta dai Carabinieri e racconta cose completamente diverse da quelle sostenute finora, accusando apertamente suo marito di essere l’autore del barbaro omicidio. Perché proprio lei che è stata la più strenua sostenitrice dell’innocenza di suo marito, lei che ha venduto un pezzo di terra per pagare avvocati di grido, gli volta le spalle? Forse la coscienza di avere mentito e, forse, la consapevolezza di avere commesso dei reati per aiutarlo la tormenta? Non lo sappiamo, saranno le nuove indagini a chiarirlo.

Luisa Piro racconta di aver trovato in una sua pagliaia, pochi giorni prima, un piccone, che doveva essere quello col quale venne ucciso Gengarelli; dice di poter esibire alla Giustizia la cesta, con macchie di sangue ai lati, di cui suo marito si servì nel giorno dell’omicidio e che lei stessa lavò; dice che suo marito, la sera del delitto, tornò in casa tanto turbato che, contro al suo solito, entrando diede la buona sera e, dopo aver cenato andò a letto, senza congiungersi carnalmente, nonostante ch’ella lo tentasse. Durante la notte egli emetteva profondi sospiri; sostiene che il cappello ritrovato dai pastori fu sotterrato da suo marito il giorno dopo l’omicidio; ammette di essere l’autrice della lettera anonima che accusava Brocchi e Condolino, ma di averla scritta su istigazione di suo marito; sostiene che pochi giorni dopo l’omicidio, sospettando che suo marito, sapendolo un violento e poco di buono, fosse il colpevole, andò nel luogo dove fu rinvenuto il cadavere e notò alcune pedate che andavano per un tratto di circa 50 metri e che avevano lo stampo di scarpe chiodate, onde ella volle contare il numero dei chiodi e riscontrò che corrispondevano perfettamente al numero dei chiodi esistenti sulle scarpe di suo marito.

Si, c’è bisogno di approfondire perché molte cose non quadrano con i riscontri oggettivi verbalizzati dagli inquirenti. Infatti, è impossibile che Luisa Piro sia riuscita a vedere impronte di scarpe riconducibili alla morte di Gengarelli, sia perché prima che arrivassero i soccorsi non ce n’erano, sia perché in quei giorni piovve incessantemente e tutto fu cancellato; Umile Crocco non ha precedenti penali ed è conosciuto per un brav’uomo; la cesta usata dall’imputato, attentamente esaminata, non presenta tracce di sangue, ineliminabili anche con un approfondito lavaggio.

Ma perché, ci chiediamo di nuovo, Luisa Piro accusa suo marito? Bene, le indagini svolte in merito svelano un brutto retroscena: sommersa dalle spese di giudizio, spinta dal bisogno si rese dimentica dei doveri di moglie e di madre, divenendo la ganza di tal Pasquale, che l’ha resa incinta. Aggiungasi che, quando furono iniziate le relazioni col Pasquale, le quali vennero subito a notizia di tutti gli abitanti della contrada, entrava in carcere in espiazione di pena tal Gennaro Bufalino il quale, all’uscita dal carcere si fece un dovere di dire alla Piro, moglie di Crocco, che il di costei marito, parlando con lui ebbe esplicitamente a dirgli che se fosse stato tradito, avrebbe tagliato la testa alla moglie infedele.

Da ciò la necessità di liberarsi definitivamente del marito, visto che andava consegnandolo al plotone d’esecuzione, e all’uopo, il 3 febbraio 1942, si presentò ai Carabinieri denunziandolo.

La cosa è così enorme che il vecchio padre di Luisa sente il bisogno di mandare una lettera a Crocco, con la quale gli manifesta tutto il suo cruccio per la condotta fedifraga della figlia, che considera morta; gli ribadisce per giunta la sua convinzione della di lui innocenza, aggiungendogli che in paese tutti sono convinti di ciò, compresi gli avvocati di parte civile; lo assicura di volergli più bene di prima; che quando sarebbe uscito dal carcere non avrebbe più dovuto guardare la moglie ed anzi, se per caso si fosse trovata altra donna che gli volesse bene, egli lo avrebbe amato più di prima.

A seguito di questa lettera, Umile Crocco denuncia sua moglie e l’amante per adulterio.

Ora che è tutto chiarito per davvero, il 15 luglio 1942 si può iniziare il dibattimento, che occupa 4 udienze e si conclude il 18 successivo.

Terminata la lettura degli atti e l’escussione dei testi, la Corte ricostruisce la dinamica dei fatti: le contusioni abrase in varie parti del corpo e soprattutto la sub lussazione del perone, accertano che Gengarelli scivolò in seguito a irregolare movimento del piede, andando a sbattere contro il castagno ed in forza dell’urto si ebbe la lesione alla testa, con la conseguente emorragia endocranica, così come si ebbero le contusioni abrase per il successivo strisciare sul terreno. Non deve meravigliare che Gengarelli sia potuto scivolare poiché trovavasi in terreno non piano ed in quel giorno, come nei precedenti, era tanto piovuto, così come anche piovve nei giorni successivi.

Con queste affermazioni, è evidente che nessuna delle prove presentate dalla Procura ha retto al vaglio della Corte, a cominciare dall’arma che sarebbe stata usata per uccidere: il piccone. La ferita sul capo di Gengarelli si presentava a bordi divaricati e irregolari, ma se a colpirlo fosse stato un piccone, la ferita si sarebbe dovuta presentare dritta ed a taglio netto, senza dimenticare che per la natura dell’arma, le conseguenze sarebbero state devastanti per le ossa del cranio, che non erano, al contrario, nemmeno fratturate.

La Corte critica aspramente la conduzione delle indagini e afferma che  Umile Crocco è stato rinviato a giudizio su semplici congetture che al lume del dibattito si sono dimostrate erronee e quindi deve essere assolto per non aver commesso il fatto addebitatogli.

È il 18 luglio 1942 e Umile Crocco ha scontato da innocente circa due anni e mezzo di carcere.[1]

Non sappiamo cosa accadde tra Umile, sua moglie Luisa ed il ganzo.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.