UNA TORBIDA PASSIONE

Sono le due di notte del 14 maggio 1947 quando Angelo Barone viene svegliato di soprassalto dai violenti colpi picchiati alla porta di casa, in contrada Barraccone di Corigliano Calabro. Bestemmiando, si alza e va ad aprire. È la moglie di suo fratello Enrico, la ventiseienne Angelina Rizieri. È sconvolta, farfuglia parole incomprensibili, ma è chiaro che è accaduta qualcosa di brutto. La fa entrare, le dà un po’ d’acqua e, finalmente, Angelina gli dice:

– Enrico… stanotte si è alzato dal letto, è andato nella stanza attigua e ha preso il fucile… io, impressionata, sono fuggita e mentre scappavo ha sparato un colpo di cui ignoro le conseguenze

– O gesummaria! Mi metto i pantaloni e andiamo a vedere.

Quando i due cognati arrivano sul posto trovano Enrico steso sul letto, morto, con accanto il fucile. La scena che si presenta ai loro occhi è orribile: le ossa frontali ed il parietale sinistro sono sparsi sul letto, il parietale destro è scoperchiato ed il cervello in parte è schizzato sulla parete dietro il letto, in parte ancora sta colando sul cuscino, completamente intriso di sangue. Alle urla disperate dei due accorrono i vicini e poi due guardie forestali che, in attesa dei Carabinieri, tengono a bada i curiosi. Quando arriva il Maresciallo, Angelina ripete lo stesso racconto fatto al cognato e, sollecitata a dire se sia a conoscenza di qualcosa che avrebbe potuto indurre il marito ad ammazzarsi, aggiunge:

Mio marito è stato molti anni prigioniero e, al suo ritorno, non ha trovato più le vacche, vendute nel frattempo per sopperire alle necessità familiari… ieri sera, 13 maggio, mi ha rimproverata di non aver trovato, al suo rientro in patria, né le bestie, né il denaro e mi ha minacciata… poi… poi il resto ve l’ho già raccontato…

La guerra, la lunga prigionia, il fatto di avere scoperto di non avere più nulla sono motivi sufficienti a giustificare il suicidio anche agli occhi della famiglia Barone e tutti se ne fanno una ragione, meno i Carabinieri che cominciano a fare domande in giro e scoprono qualcosa che potrebbe cambiare le carte in tavola: Angelina avrebbe un amante, Eugenio Viteritti, che viene rintracciato e, interrogato a lungo, ammette:

– Non si tratta di suicidio… eravamo amanti…

Sconcerto. I Carabinieri vanno a prendere Angelina e la interrogano:

– L’ho ammazzato io, è vero…

– C’era anche Viteritti?

– No, sono stata io e soltanto io… ho cercato di fuorviare le indagini simulando la composizione del cadavere e l’accostamento allo stesso del fucileHo deciso ed eseguito il crimine senza l’istigazione di alcuno, Viteritti non c’entra niente.

– Lui però ha detto che lo avete fatto insieme perché eravate in relazioni intime

– Vi ripeto che Viteritti non c’entra.

– Va bene, lo vedremo dopo se c’entra o non c’entra. Intanto racconta come hai fatto e perché lo hai fatto.

Mio marito era disteso sul letto e dormiva quando andai nella stanza attigua, presi il fucile, ritornai nella stanza da letto e sparai a bruciapelo il colpo omicida… mi sono determinata al delitto dal fatto che mio marito mi minacciava continuamente

Per gli inquirenti questo movente è falso perché nessuno dei testi interrogati accenna al benché minimo maltrattamento usato dalla vittima contro sua moglie o minacce. Anzi, al proprio fratello Angelo, dopo tornato dalla prigionia, disse: “a casa non ho trovato alcuna moneta perché mia moglie non me ne ha fatto trovare. Non so che cosa abbia fatto. Mia moglie, da quando sono ritornato dalla prigionia, si è quasi dimostrata indifferente e ciò perché quando la sera andiamo a letto cerca di tenermi sempre lontano, senza mai avvicinarsi. Né dà la soddisfazione materiale di moglie al volere mio. Dubito che abbia qualcuno”.

Ma per gli inquirenti la conferma a quanto tutti i testimoni hanno deposto la dà Angelina stessa quando, messa a confronto con Eugenio Viteritti, cambia atteggiamento e, impassibile, accusa l’amante.

Per la tua istigazione io ho ucciso! – urla Angelina contro Eugenio – altrimenti non avevo alcun motivo per sopprimere mio marito! – poi aggiunge – Una decina di giorni prima del delitto incontrai Eugenio, il quale mi suggerì di uccidere mio marito. “Io non ucciderò mio marito”, gli risposi e poi gli dissi: “uccidilo tu, se vorrai”. A ciò, di rimando, lui mi disse: “se non sai usare il fucile di tuo marito, ti presto il mio che è più facile a maneggiare. Io non mi ci metto perché, siccome si sta parlando della nostra relazione amorosa, mi arresterebbero subito” – e ancora –. Puoi negare che mi hai persino detto che avrei potuto uccidere mio marito nel sonno e dire poscia che si era suicidato? E mi hai raccomandato vivamente di non fare mai il tuo nome? Ed allora sono stata una cretina a non accettare l’offerta del tuo fucile, così avrei avuto una prova migliore della tua compartecipazione al delitto. Ti accuso di avermi istigato, perché ciò hai fatto, e non debbo io sola rispondere del maleficio a cui tu mi hai indotta!

– Non è vero! – urla a sua volta Eugenio – non ho scambiato alcuna parola con te, ti ho rivolto solamente il saluto!

– Bugiardo! Non puoi negare!

Dopo varie insistenze, Viteritti ammette di aver parlato con la sua amante, ma che il tenore della discussione fu ben altro:

Tra di noi ci fu una discussione, durante la quale Angelina si lamentò dei trattamenti del marito, di cui evidentemente non poteva più soffrire e tollerare la presenza. Dopo questa discussione sorvegliai l’andamento delle cose, tanto che, una o due sere prima del delitto, passai dinanzi alla loro casa e mi trattenni nella attigua casa di mio fratello, facendo di tutto per fare un discorsetto con Angelina

La decisione mostrata da Angelina nell’accusare l’amante ed una lettera da lei spedita al padre dal carcere di Rossano – nella quale tra le altre cose si legge: “…mi ha piena la testa Viteritti e mi aveva detto di non dire niente perché io sono donna e non mi potevano fare niente…” – convincono gli inquirenti che è attendibile ed a questo punto è chiaro che il movente non può essere costituito dalle presunte minacce, ma invece dal cinismo, la perfidia, l’egoismo freddo e calcolatore di Angelina ed Eugenio, i quali vedevano in Enrico un ostacolo alla libera continuazione della loro tresca adulterina ed insieme decisero di sopprimerlo. Quindi un movente comune ad entrambi, che non può concepirsi se non in relazione ai due e che unisce i due nell’orrendo delitto, siccome la torbida passione li unì nello stesso letto coniugale mentre Enrico Barone languiva in un campo di concentramento, nell’insano sfogo della loro sensualità, sotto gli occhi dell’innocente figliolo di Barone. È chiara, da tutti gli elementi raccolti, la partecipazione o, comunque, la cooperazione di Viteritti all’orrendo crimine, materialmente, cinicamente e brutalmente eseguito dalla sola Angelina Rizieri. Viteritti, insomma, svolgendo attività efficiente, non solo fece sorgere nell’infedele l’idea di togliere l’ostacolo che si frapponeva ai loro liberi amori, ma attivò e ne rafforzò la volontà ed il racconto in cui la Rizieri confessa il delitto è tutta la fedele dipintura di questo delicato stato psicologico, è tutta l’analisi e la sintesi di questo determinismo.

I due amanti vengono, così, rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Rossano. Per il dibattimento bisognerà aspettare il 27 ottobre 1950.

Terminata l’escussione dei testimoni e l’esame degli atti, aleggia nell’aria la possibilità che il delitto possa essere stato premeditato, ma la Corte osserva: come si vede, una confessione ed anche una chiamata di correo, non svuotata quest’ultima di contenuto, ma racchiudente in sé tutti i riflessi più essenziali: fu, infatti, spontanea, sincera, univoca, disinteressata. E come Viteritti è chiamato a rispondere di concorso, è pur giusto ed equo ritenere che la sua opera nella preparazione del delitto non ha avuto massima importanza, onde allo stesso può essere accordata l’attenuante relativa e con essa anche quella delle attenuanti generiche, tenuto conto ch’è un giovane incensurato, desideroso di vita e che ha delinquito per una terribile passione, di quelle passioni che accecano il cuore ed è propria degli uomini. E la premeditazione è macchinazione del delitto, è volontà pertinace e costante, ostinatamente alimentata come proposito irrevocabile. È da riconoscere che Angelina Rizieri, seguendo la sua deposizione, nella notte infernale non chiuse occhio, qualcosa la tormentava: si alzò, prese il fucile ed esplose il colpo. E se così è, commise il fatto in un moto improvviso, non per freddo calcolo. È da escludere, quindi, la premeditazione. Sussiste, invece, nella sua interezza, le modalità del fatto lo confermano, l’aggravante della minorata difesa, contestata in udienza. Non competono all’imputata le attenuanti generiche, dati il cinismo e la perfidia nell’esecuzione del delitto.

Affermati i gradi di responsabilità per i due imputati, non resta che quantificare le rispettive pene. Angelina Rizieri viene condannata ad anni 26 di reclusione; Eugenio Viteritti ad anni 14 di reclusione. Per entrambi, le pene accessorie, spese e danni. Non è finita: concorrendo le condizioni di legge, vanno condonati anni 3 delle pene inflitte agli imputati, in forza del D.P. 23/12/1949, N° 930.

La Corte di Cassazione, il 22 dicembre/1951, dichiara inammissibile il ricorso di Angelina Rizieri per mancata presentazione dei motivi di ricorso.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Rossano.