IL COMUNE AMICO

È la sera del 30 novembre 1940 e nel Dopolavoro di Grimaldi gli avventori chiacchierano, giocano a carte, bevono un bicchiere di vino. Ad un certo punto dal fondo della sala si sente urlare e volare qualche bestemmia; tutti si girano e vedono Funari Grimaldi e Rosario Zaffarano, un siciliano di Caltagirone impiantatosi in paese, che stanno per venire alle mani, ma il pronto intervento di comuni amici basta a calmare i due, che si stringono la mano e si rimettono seduti calmi e tranquilli.

Sono le 19,30 del primo dicembre e Funari Grimaldi è al suo solito posto nel Dopolavoro quando entra Zaffarano quasi ubbriaco:

Dammi un bicchiere di vino – ordina al gestore con la voce strascicata, tipica degli ubriachi.

Funari Grimaldi, che volta le spalle a Zaffarano, udita la sua voce si gira e lo guarda. Il siciliano lo guarda a sua volta e gli dice:

E perché mi guardi con quegli occhi storti? Non mi guardare in cagnesco altrimenti ti faccio come il vinaccio!

Ti aspetto fuori! – gli risponde Grimaldi alzandosi e avvicinandosi alla porta, seguito da Zaffarano che lo afferra dalle spalle non appena l’avversario sta mettendo la testa fuori dalla porta.

Siamo alle solite, è una scena vista mille e mille volte. Prima che gli amici intervengano, Funari Grimaldi, sentendosi afferrato, si gira e dà un violento spintone a Zaffarano – in realtà a molti dei presenti è sembrato un vero e proprio pugno –, allontanandolo da sé e facendogli cadere il berretto per terra. Come al solito intervengono i presenti e mentre alcuni riescono a far rientrare Funari Grimaldi nel Dopolavoro, Carmelo Pasqua trattiene Zaffarano sulla strada tentando di indurlo a rincasare ma questi, vuoi perché brillo, vuoi perché intende raccattare il berretto cadutogli, resiste al buon consiglio. Proprio durante questo tira e molla arriva sul posto il comune amico Pasquale Mauro il quale, intuendo il litigio e nel lodevole intento di evitare ulteriori quistioni, pensa bene di prendere per un braccio Zaffarano, quello che gli sembra il più aggressivo dei due, e trascinarlo verso casa. Ma il siciliano, ancora infuriato e sotto l’effetto del vino, non cede e resiste ai tentativi di Mauro che, pensando di renderlo ubbidiente, gli dice:

Se non vai a casa ti prendo a schiaffi! – ma Zaffarano non ha nessuna intenzione di cedere e allora Mauro, sempre trattenendolo per un braccio, gli ripete che se non va a casa lo prenderà a schiaffi, anche se non ne ha nessuna intenzione perché è la solita frase che si dice ad un ubriaco per cercare di calmarlo.

Giacché non vuole andare a casa lascialo stare! – interviene Carmelo Pasqua

Ma stai zitto che faccio per ischerzo! – chiarisce Mauro

Zaffarano, però, è partito per la tangente e, liberatosi dalla stretta di Mauro, mette una mano in tasca, tira fuori un coltello e gli vibra un colpo all’inguine.

Ahi! Sono morto! – urla Mauro cadendo a terra, mentre Zaffarano sparisce nel buio.

A questo punto arrivano tutti gli avventori che prendono il ferito e lo portano nel Dopolavoro, mentre qualcuno va a chiamare il dottor Colistro e poi i Carabinieri, ai quali il medico , dopo aver medicato Mauro, riferisce:

Ho notato vicino all’inguine una ferita a margini netti penetrante nella massa dei tessuti per circa tre centimetri e lunga circa due centimetri. Dalla ferita fuoriusciva una forte quantità di sangue dovuta a lesione dell’arteria femorale. È grave, bisogna portarlo subito in ospedale…

A notte fonda Pasquale Mauro viene sottoposto a intervento chirurgico per ricucire l’arteria e i medici prevedono che guarirà in una ventina di giorni, se non interverranno complicazioni. Appena sveglio dall’anestesia, Mauro risponde alle domande del Giudice Istruttore:

Ieri sera trovai Funari e Zaffarano che litigavano. Per evitare conseguenze, dato che Zaffarano appariva il più aggressivo, lo presi per un braccio e mi accinsi a trarlo verso la sua abitazione. Mi seguì per circa venti metri… all’improvviso si svincolò con uno strattone, evidentemente per raggiungere Funari; io lo raggiunsi e lo ripresi per un braccio esortandolo a rincasare, ma egli, senza dirmi nulla, mi vibrò un colpo di coltello

– Avevate qualche motivo in particolare per intromettervi?

Mi intromisi al solo scopo filantropico di pacificarli

– Avete notato qualcosa di strano nel comportamento dei due litiganti?

Zaffarano mi sembrò alquanto ubriaco

Torniamo indietro di qualche ora. Mentre Mauro è in viaggio verso l’ospedale, a Grimaldi i Carabinieri rintracciano Zaffarano in casa di Teresa Aiello, ove era andato a rifugiarsi. Lo perquisiscono e gli trovano in tasca un coltello a serramanico a tre lame, poi lo portano in caserma per interrogarlo:

Funari Grimaldi mi guardava in cagnesco, lo invitai a smetterla. Avendomi Funari invitato di uscir fuori lo seguii ed appena gli fui vicino mi afferrò per il collo e fui fatto segno ad un pugno che riuscii a schivare. Intromessisi gli amici, Funari fu fatto rientrare nel Dopolavoro mentre io, nonostante le esortazioni di Carmelo Pasqua, rimasi in strada in cerca del berretto che mi era caduto. Sopravvenuto Mauro, fui da costui invitato ad allontanarmi sotto la minaccia di schiaffi, onde io, minacciato una seconda volta, gli vibrai una coltellata, ferendolo alla coscia

I testimoni confermano sostanzialmente la ricostruzione dei fatti, l’arma del delitto c’è, l’autore dell’accoltellamento ha confessato, resta solo da stabilire il titolo del reato con cui mandare a processo Zaffarano. Ma mentre si espletano tutte le formalità del caso, il 10 dicembre 1940, Pasquale Mauro muore a causa di sopravvenuta sepsi stabilitasi sulla ferita per scarso irroramento della stessa. La morte di Mauro convince il Pubblico Ministero a procedere per omicidio aggravato dai futili motivi e porto ingiustificato di coltello, ma il Giudice Istruttore non riscontra negli atti la fattispecie richiesta, bensì quelle dell’omicidio preterintenzionale ed è per questo reato che, il 30 agosto 1941, lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

Il dibattimento si tiene nelle udienze del 5 e 6 febbraio 1942 e Zaffarano modifica le sue precedenti dichiarazioni, facendo mettere a verbale di aver ferito Mauro per esserne stato percosso.

Questo serve alla difesa per chiedere l’assoluzione per avere agito in stato di legittima difesa o, quantomeno, il riconoscimento dell’attenuante della grave provocazione. Ma la Corte rigetta immediatamente la richiesta, tanto è infondata! E spiega: è certo che nulla fece la povera vittima per mettere in allarme il prevenuto, che un diritto suo qualsiasi corresse pericoli di sorta. Il prevenuto ben sapeva che Mauro non aveva alcuna ragione di odio contro di lui, lo vedeva inerme, lo sapeva amico suo non meno che di Funari Grimaldi, onde era agevole pensare che fosse intervenuto pel generoso proposito di farla da paciere. È ovvio che impedire ad un rissante di tornare alla pugna, che può diventare cruenta e forse fatale, non è fargli ingiuria e molto meno ledergli o mettergli in pericolo un particolare diritto. Tutto ciò corrisponde, anzi, ad un dovere civico. La legge non dà il diritto di iniziare una rissa, né di farla risorgere, onde ne consegue che colui il quale, usando del mezzo della persuasione o anche dell’amichevole dolce violenza, la rissa impedisce, non compie opera di prepotenza che possa legittimare la reazione, ma compie opera altamente sociale e morale. Vero è che Mauro, per vincere le caparbie resistenze del prevenuto credette opportuno minacciarlo di schiaffi, ma tale minaccia, a prescindere che, come è risaputo, è un abituale intercalare di pacieri in genere, venne per chiarimenti della stessa vittima svuotata di ogni contenuto minaccioso. Ciò premesso, è da inferire che mancano tutte le condizioni in cui si integra lo stato di legittima difesa, reale o putativa.

Ma se le parole “ti prendo a schiaffi” non servono per invocare la legittima difesa, per la Corte sono un indubbio segno di villano scherzo e di imprudente iattanza, lesive della dignità del prevenuto il quale, nella sua eccitabilità di avvinazzato, non era disposto a sopportare vanteria o scherzi suonanti diminuzione della sua personalità. Per questa ragione Zaffarano merita il riconoscimento dell’attenuante dello stato d’ira per fatto ingiusto della vittima, tanto più ch’egli trovavasi in tale stato d’ira anche per il ceffone avuto da Funari Grimaldi, rimasto impunito per l’intervento di Pasquale Mauro.

Detto questo, la Corte, riconoscendolo responsabile di omicidio preterintenzionale, tenuti presenti i buoni precedenti penali di Zaffarano e l’attenuante concessa, ritiene equo condannarlo ad anni 11 di reclusione, più un mese di arresti per il porto abusivo del coltello, oltre alle pene accessorie, spese e danni.

Con Decreto 2 ottobre 1943, N. 516, il Superiore Ministero concede la riduzione di anni due di reclusione dalla pena cui fu condannato dalla Corte d’Assise di Cosenza con sentenza del 6 febbraio 1942.[1]

Intanto la guerra infuria e ad Acerra, proprio il 2 ottobre 1943, si sono finite di contare le 88 vittime innocenti accertate, massacrate dalla criminale violenza nazista.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.