LA VITTIMA INNOCENTE

La mattina del 30 ottobre 1936, il ventitreenne Salvatore Meringolo sta facendo pascolare l’armento del suo padrone in contrada Re d’Acri, territorio di Acri, quando gli viene in mente che deve andare a riscuotere la residua mercede dovutagli dal suo ex padrone, così chiama due pastorelli, i fratelli Carmine Natalini, quindicenne, e Francesco, di dodici anni, che poco lontano custodiscono il gregge della loro padrona, gli affida gli animali e si allontana.

Qualche ora dopo anche Carmine Natalini si allontana per andare a cercare castagne e i due armenti rimangono sotto la custodia del piccolo Francesco, al quale si riuniscono altri piccoli bovari: Giovanni, Fiore, Angelo e Federico, figlio del possidente Angelo Rosa, dimorante in un vicino fondo e, tra uno sguardo e un fischio agli animali, si mettono a giocare.

Verso mezzogiorno Salvatore Meringolo è di ritorno e passa dal fondo di Angelo Rosa.

– Salvatò, aiutami a portare questa trave a casa – gli dice il proprietario. Terminato il lavoro, Salvatore si incammina verso il gregge ma, percorsi appena un trecento metri di strada, dopo aver sorpassato un vallone che divide il fondo di Angelo Rosa da quello dove pascolano le greggi, sente urlare il piccolo Federico, il figlio di Angelo:

Ohi Tà… ohi Tà, corri che mi mena! – infatti, proprio in quel momento Francesco Natalini gli ha tirato uno schiaffo perché Federico gli ha bestemmiato i morti.

Angelo Rosa, imbestialito, entra in casa, si arma di pugnale e corre verso Francesco, che se la dà a gambe levate. In questi stessi istanti Carmine Natalini sta percorrendo il sentiero costeggiante il fondo del Rosa, proprio dove si trova una roccia alta una decina di metri che cade a picco sul vallone.

Correndo, Angelo Rosa raccatta da terra un grosso palo e subito dopo si imbatte in Carmine. Pur non ignorando che questi non ha affatto litigato con il di lui figlio, vuole compiere una vendetta trasversale assestandogli un poderoso colpo di palo alla testa, ferendolo gravemente per cui, tramortito, il ragazzo precipita dalla roccia nel sottostante vallone.

Salvatore Meringolo ha visto tutto. Torna indietro e, ripassato il vallone, si avvicina a Carmine per aiutarlo, ma quando gli è vicino sopraggiunge Angelo Rosa il quale, alzando il palo sulla testa di Salvatore, gli consegna il pugnale e gli dice:

Scannalo o ti scanno! – Salvatore, terrorizzato, prende il pugnale ed esegue l’ordine piantando e ripiantando l’arma nel collo dell’amico, squarciandoglielo orribilmente.

Angelo Rosa non è ancora sazio di sangue e si lancia all’inseguimento di Francesco Natalini, ignaro della orrenda sorte toccata a suo fratello, urlando:

Se ti piglio ti scanno… ti scanno appena mi capiterai tra le mani! –  ma per fortuna non riesce a raggiungerlo e torna sul luogo del delitto, dove trova Salvatore, impietrito, e gli ordina di conservare il più assoluto silenzio, dopo di che, sicuro di non essere stato visto da nessuno dei pastorelli e confidando nella impunità, se ne torna tranquillamente a casa.

Il giorno dopo Assunta Chimienti, la padrona dei fratelli Natalini, allarmata dall’assenza di Carmine, ne va a denunciare la scomparsa ai Carabinieri. Partono le ricerche e viene interrogato anche Salvatore Meringolo, che mette i militari su una falsa pista perché dice che lo scomparso è andato alla Marina e tutto si ferma. Poi, la mattina dell’8 novembre, un pastorello che sta portando il gregge al pascolo trova il cadavere di Carmine ed avvisa un altro pastorello, il quale avvisa suo padre che, a sua volta, incarica Salvatore Meringolo di avvisare i Carabinieri. Il giovanotto, ovviamente, è titubante e cerca di evitare l’incarico, ma alla fine è costretto ad eseguire.

Quando i militari, il Pretore ed il Medico Legale arrivano sul posto, nonostante il cadavere sia rimasto diversi giorni sotto la pioggia intensa che ha flagellato la zona, appare loro chiaro che si tratta di un delitto per la particolare natura di alcune ferite, infallantemente prodotte da arma da punta e taglio. Difatti, oltre ad una lesione sulla regione orbitaria sinistra a margini netti e di forma triangolare, il perito riscontra una vasta ferita della lunghezza di 10 centimetri alla regione antero-laterale sinistra del collo e recisione a margini netti della trachea, dell’esofago e dei grandi vasi; altra ferita con le stesse caratteristiche alla regione latero-cervicale di sinistra, sottostante alla prima e distante da questa circa un centimetro; altra ferita sulla regione antero-laterale destra del collo con le stesse caratteristiche delle precedenti; altra simile a due centimetri al di sotto di quest’ultima, a forma semilunare. L’orrenda particolarità delle quattro ferite al collo è che sono tutte comunicanti tra di loro, il che sta a significare che l’assassino, dopo aver colpito con incredibile violenza, si è come applicato, forse divertito, a scavare il collo del ragazzino.

Assodato che si è trattato di omicidio, appena iniziate le indagini i Carabinieri vengono avvisati della titubanza di Salvatore Meringolo ad andare a denunciare il ritrovamento del cadavere e trovano la circostanza molto sospetta, essendo di loro conoscenza che costui desiderava da più tempo sostituirsi all’ucciso nell’opera locata alla Chimienti. Interrogatolo con la oculatezza che il caso richiede, ottengono una prima, parziale confessione:

Dopo trasportata la trave, giunto nel vallone udii il figlio del Rosa chiamare il padre perché Francesco Natalini lo percuoteva. Contemporaneamente vidi Angelo Rosa venire di corsa, con un palo nelle mani, verso il figlio e giunto quasi nel vallone si incontrò con Carmine Natalini al quale diede un colpo di palo, facendolo precipitare dalla rupe nel vallone sottostante

– E Poi?

– E poi niente…

I Carabinieri arrestano immediatamente anche Angelo Rosa e lo interrogano:

Dopo aver sentito mio figlio che mi gridava di accorrere perché Francesco Natalini lo stava percuotendo, mi misi in tasca un pugnale e mi armai di un pezzo di legno – la sua voce è ferma ed il tono è freddo, distante.

– È questo? – lo interrompe il Maresciallo, mostrandogli il palo sequestrato sul luogo del delitto.

– Si, è quello…

– Continuate.

Giunto nei pressi del vallone feci incontro con Carmine Natalini, alla vista del quale perdetti i lumi e gli infersi alla testa un colpo del palo che tenevo, dietro il quale è caduto a terra, precipitando dalla rupe nel vallone. Continuai la strada e sceso nel vallone vidi un certo Salvatore Meringolo, il quale aveva osservato l’accaduto. Lo chiamai ed assieme ci avvicinammo al ragazzo. Estrassi il pugnale, lo consegnai a Salvatore e gli dissi: “Scannalo”, al che questi, senza farselo ripetere, si avvicinò al ragazzo, già boccheggiante, e gli inferse il pugnale nella gola per ben due volte… indi ci siamo allontanati verso la località ove piangeva mio figlio per raggiungere il vero colpevole e dargli la lezione che meritava.

– Quindi a pugnalare Carmine Natalini sarebbe stato Meringolo?

– Si, lui.

A questo punto il Maresciallo richiama Salvatore e gli contesta le accuse mossegli da Angelo Rosa.

Accortosi che io l’avevo visto, Angelo Rosa mi chiamò ed avvicinatici a Carmine, già moribondo, estrasse dalla tasca un pugnale e consegnandomelo mi disse in tono di minaccia: “Scannalo altrimenti scanno te!”. Temendo di fare la stessa fine ho eseguito l’ordine, colpendolo con due pugnalate nella parte anteriore del collo

Le pugnalate al collo, come abbiamo visto, furono quattro e non due, ma gli inquirenti non perdono tempo a contestare il “particolare” ai due arrestati, forti del parere del perito secondo il quale anche se i colpi fossero stati due, vista la violenza e la parte colpita, il risultato sarebbe stato lo stesso e procedono nei loro confronti per concorso in omicidio aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà.

Angelo Rosa viene interrogato altre due volte, il 16 novembre ed il 3 dicembre 1936 e conferma la sua prima dichiarazione, aggiungendo un particolare agghiacciante:

Meringolo ebbe a pugnalare Carmine Natalini quando ancora questi boccheggiava, tanto che alla prima pugnalata sobbalzò

Salvatore, invece, cedendo forse ad interessati consigli, modifica la sua confessione:

Ebbi l’impressione che Carmine, quando lo pugnalai, fosse già morto perché non diede alcun segno di vita

– Lo hai pugnalato quattro volte…

– No, solo due, le altre gliele ha date Angelo Rosa.

Ma Angelo Rosa respinge l’accusa e giura di non aver mai colpito personalmente la vittima.

Può bastare, i due vengono rinviati per direttissima al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza ed il dibattimento comincia il 4 maggio 1937, per continuare il giorno successivo quando, su istanza del difensore di Angelo Rosa, viene disposta perizia psichiatrica su Salvatore Meringolo, la di cui madre era morta di sifilide ed il padre, a 47 anni, al manicomio criminale di Aversa.

Salvatore viene ricoverato nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto ed il 20 agosto 1937 viene giudicato incapace di alcun affetto, anche dei più bassi sentimenti ego-altruistici, psichicamente deficiente per debolezza dei poteri critici e perciò facilmente suggestionabile fino a farsi trascinare a cattive azioni. Inclinato alla ereditarietà neuro-psichica perché figlio di padre epilettico e nipote di una zia paterna idiota e storpia, è affetto da grave deficienza mentale, che si palesa pressoché conforme in tutte le sfere della vita mentale, nella rappresentativa come dell’affettiva e volitiva. Egli, nel momento del commesso reato, non aveva la capacità di intendere e di volere perché affetto da grave deficienza mentale ed è da ritenersi persona socialmente pericolosa.

Il dibattimento viene ripreso il 25 aprile 1938 e si protrae nelle udienze del 26 e 27 successivi.

Proprio in virtù del giudizio dei periti, il Pubblico Ministero chiede che vengano contestate ad Angelo Rosa le aggravanti di aver determinato una persona non imputabile a commettere un reato (art. 111 c.p.) e di aver partecipato alla commissione di un delitto avvalendosi di un minore degli anni 18 o di una persona in stato di infermità o deficienza psichica, ovvero si è comunque avvalso degli stessi (art. 112 n° 4 c.p.).

Che la richiesta di perizia psichiatrica su Salvatore Meringolo altro non voleva essere che scaricare su di un infermo di mente tutta la responsabilità dell’orrendo delitto? Se così fosse accertato sarebbe un boomerang per Angelo Rosa, perché diventerebbe automaticamente il responsabile del delitto e vedrebbe la pena aumentata. Il rischio è altissimo e infatti la difesa di Rosa si oppone energicamente all’ammissione delle due aggravanti, argomentando che la contestazione è intempestiva in quanto non risultavano dal dibattimento non ancora cominciato, né si può fare appiglio agli atti istruttori già conchiusi con la richiesta di citazione in giudizio. Non solo. La difesa sostiene che, non essendo noto al Rosa che il Meringolo fosse incapace psichico (la di cui conoscenza è venuta attraverso la perizia), non può farsi carico ad Angelo Rosa di essersi servito di un incapace.

La Corte la pensa diversamente perché con la disposta perizia psichiatrica si è riaperto il periodo istruttorio e, in ogni caso, il Pubblico Ministero può richiedere sempre la contestazione per il diritto che gli compete dell’esercizio dell’azione penale nel modo che ritiene più opportuno e procede nelle contestazioni delle due aggravanti, poi si vedrà.

Terminato il dibattimento, il Pubblico Ministero, non tenendo conto del giudizio dei periti, chiede che, oltre ad Angelo Rosa, anche Salvatore Meringolo sia dichiarato responsabile di concorso in omicidio aggravato ed anche lui condannato all’ergastolo.

La difesa di Angelo Rosa chiede che l’imputazione sia derubricata in omicidio preterintenzionale, con la concessione dell’attenuante della provocazione. In subordine chiede che venga effettuata una perizia sul cadavere di Carmine Natalini per accertare che le ferite inferte furono due e non quattro e che furono inferte dopo la morte del ragazzo.

La difesa di Salvatore Meringolo ne chiede l’assoluzione perché le ferite furono inferte dopo la morte della vittima e perché agì in stato di necessità, senza minimamente invocare la totale incapacità di intendere e di volere.

La Corte esamina per prima la posizione di Salvatore Meringolo. Bastano poche parole per dichiarare di uniformarsi al giudizio dei periti e mandarlo assolto per avere commesso il fatto in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere, ma deve ordinarne il ricovero in un manicomio giudiziale, essendo socialmente pericoloso (questo era ciò che la difesa di Meringolo voleva evitare non citando la perizia psichiatrica).

Per quanto riguarda Angelo Rosa il discorso è più complesso, sebbene per la Corte formulare dei dubbi relativamente alla sua responsabilità sarebbe far mal governo delle prove, le quali acclarano che l’evento corrispose all’intento. Egli, saturo d’odio e di collera, se non avesse voluto uccidere non si sarebbe armato di pugnale e di grosso palo, anche in considerazione che la vittima designata, ma che il destino volle risparmiare, era un ragazzo di 12 anni, che bastava percuotere a pugni ed a calci per infliggergli lesioni molteplici e non lievi. Se il cinquantenne Rosa avesse avuto l’intenzione di ferire il dodicenne Natalini (ed in di costui vece l’innocente fratello quindicenne), non gli avrebbe vibrato alla testa il colpo di palo, dotato di tanta energica violenza da determinare, oltre alla lesione cranica, anche commozione cerebrale, facendolo precipitare nel sottostante vallone, ove fu raggiunta e ferocemente sgozzata a pugnalate per espresso comando del Rosa e con pugnale da lui fornito. “Scannalo o ti scanno”, così egli comandò e, al fine che l’impaurito sicario obbedisse, gli tese sul capo quello stesso palo, i di cui effetti erano ben visibili. Si è tentato, dalla difesa, negare la volontà omicida, assumendo che la morte seguì all’unico colpo di bastone, vibrato senza l’intenzione di uccidere e che i colpi di pugnale furono inferti su cadavere e non su corpo vivo, ma l’affermazione del difensore è smentita dallo stesso difeso. È stato proprio Angelo Rosa a voler precisare in tempi diversi ed in tre occasioni distinte che le pugnalate furono inferte mentre Carmine Natalini era boccheggiante. Che le pugnalate trafissero corpo vivo e furono la causa determinante della morte è accertato dall’autopsia. Angelo Rosa, dunque, non può sfuggire alla responsabilità di omicidio volontario, né gli si può concedere la diminuente dello stato d’ira determinato da fatto ingiusto, poiché egli, uccidendo il povero Carmine Natalini, intese compiere una vendetta trasversale e quindi far cadere la sua ira su persona che non avea dato luogo a nessun fatto ingiusto. Risolti i problemi sulla responsabilità e sulle attenuanti richieste, la Corte affronta le aggravanti contenute nella sentenza di rinvio a giudizio: Per quanto riguarda la futilità dei motivi argomenta che, trattandosi di dover giudicare su di una circostanza aggravante soggettiva che attiene all’intensità del dolo, non si può con serenità affermare la futilità del motivo in quanto non si hanno elementi sufficienti per poter giudicare fino a che punto abbia potuto influire sull’animo del prevenuto il grido di aiuto lanciato dal figlio. Sull’altra circostanza della crudeltà occorre appena osservare che, essendo stato commesso l’omicidio con mezzi comuni, i quali determinarono la morte istantanea senza che la vittima fosse sottoposta a sofferenza maggiore di quella che la rapida esecuzione di un omicidio comporti, devesi escludere anche questa aggravante.

Scampato per Angelo Rosa il pericolo della condanna all’ergastolo, ora restano da esaminare le ulteriori aggravanti richieste dal Pubblico Ministero in dibattimento: È incontrovertibile che il delitto fu consumato a mezzo delle pugnalate inferte da Salvatore Meringolo, persona non punibile, che eseguì l’ordine di Angelo Rosa. Costui ha tentato di sfuggire alla sanzione della detta aggravante, assumendo che egli ignorava le minorate condizioni psichiche di Meringolo. Tale asserto è una menzogna e la prova del mendacio la dà egli stesso: afferma il Maresciallo dei Carabinieri che Angelo Rosa, tentando di corromperlo mercé compenso di L. 5.000, gli chiese che riversasse tutta la responsabilità su Meringolo, aggiungendogli “Meringolo è nullatenente, è orfano e ha poco da perdere, mentre io sono benestante e padre di numerosa famiglia”. Evidentemente l’inciso “non ha nulla da perdere”, non essendo stato contrapposto alle sole condizioni economiche, è indubbiamente comprensivo di tutte le condizioni di Meringolo. Che mai, infatti, può perdere uno scemo da una qualsiasi processura se non può divenire soggetto di diritto penale? Rosa ben conosceva Meringolo e solo per ciò poté permettersi di associarlo al suo delitto. Tutti nel paesello conoscevano Meringolo come idiota o quasi e sarebbe strano ammettere che non lo conoscesse Angelo Rosa, il quale ne abusava come si può abusare di uno scemo, facendogli trasportare travi senza pagarlo, inducendolo al delitto senza averne reazioni o dinieghi.

Il risultato di questi ragionamenti è che la Corte crede equo applicare il massimo della pena prevista per l’omicidio volontario: 24 anni di reclusione, elevata a 30 anni per l’aggravante, oltre alle pene accessorie, spese e danni alle parti civili.

Non è finita. La Corte, considerati i buoni precedenti penali di Angelo Rosa, gli concede il beneficio del condono di anni quattro della pena detentiva, a termine del R.D. di Sovrana Clemenza 15 gennaio 1937, n° 77. La pena, così, resta fissata in 26 anni di reclusione.[1]

È il 27 aprile 1938.

 

 

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.