IL MIRAGGIO DEL MATRIMONIO

Maria Policano è di Torano Castello e quando comincia ad amoreggiare con Amerigo Docimo non ha ancora compiuto 17 anni.

È un idillio per Maria, ma non per Amerigo che la lusinga senza l’intenzione di sposarla. Durante il fidanzamento abusa ripetutamente di lei, inducendola ad atti di libidine a cui la ragazza si presta in vista delle promesse nozze.

Capita, però, che più volte e da persone diverse i due fidanzati vengano sorpresi in atteggiamento sospetto in un casolare diruto di campagna o, addirittura, in un campo di grano e la notizia si sparge a macchia d’olio in paese.

Ovviamente un fatto del genere fa si che Maria resti moralmente compromessa nella pubblica estimazione. Amerigo ha così la scusa buona per abbandonarla, ma Maria, col consenso dei genitori, lo querela e il giovanotto cerca di porre riparo fingendo di ritornare alla fidanzata, ma poi si allontana di nuovo e questa volta in via definitiva.

A questo punto, l’unica cosa che Maria può fare è aspettare, sperando nella resipiscenza di Amerigo, che nel frattempo è stato chiamato a prestare il servizio militare. Poi torna in licenza.

– Amerì, ti prego, ripara il danno che mi hai fatto e sposami – lo implora Maria.

– Io non devo compiere alcuna riparazione, non ti ho deflorata! – è la risposta che ripete ostinatamente ogni volta che Maria o amici comuni cercano di convincerlo, finché la ragazza, stanca della situazione, comincia ad accarezzare l’idea di sopprimere Amerigo.

È la sera del 2 gennaio 1939, Maria ha ricevuto l’ennesimo rifiuto da parte di Amerigo e si è anche sentita dare della puttana. Le gira la testa, torna a casa e non trova nessuno. Si accascia sul letto piangendo, poi smette di colpo, rialza la testa e gli occhi le si asciugano perché adesso sono infuocati dalla rabbia: quello è stato l’ultimo rifiuto, ucciderà Amerigo e ha in mente anche come farlo. Apre la cassa dove suo padre tiene le sue cose e si mette a rovistare, prendendone alcune, poi apre il cassetto del tavolino della cucina e prende un coltello, ‘u scannaturu, ed esce.

In paese, anche se è lunedì, c’è abbastanza gente in giro perché gli uomini fanno ancora festa per l’anno nuovo, andando da una cantina all’altra. Amerigo è fermo con alcuni amici, intento a chiacchierare. Al gruppetto si avvicina un giovanotto abbastanza minuto, tanto che l’abito a giacca che porta gli sta largo. In testa ha un berretto calato sugli occhi. Cammina con le mani nelle tasche della giacca e quando è ad un passo dalle spalle di Amerigo toglie la mano destra dalla tasca e, come per magia, scivolando giù dalla manica appare un micidiale scannaturu. È un attimo e la lama penetra sotto la scapola sinistra di Amerigo, che si gira istintivamente e riceve una seconda coltellata all’emitorace sinistro e poi, resosi conto di ciò che gli sta accadendo, cerca di scappare, ma il giovanotto lo insegue e lo colpisce ancora dietro la nuca. Amerigo si accascia al suolo, morto, mentre il giovanotto si allontana e poco dopo bussa alla porta della caserma dei Carabinieri.

– Che volete a quest’ora? – chiede il Carabiniere dallo spioncino.

– Ho ucciso un uomo…

La luce è fioca nell’ufficio del Maresciallo che, quando entra, trova il giovanotto seduto, con un Carabinere impalato alle sue spalle.

– Nome, cognome, eccetera eccetera – gli fa, visibilmente infastidito.

– Policano Maria di anni 18…

– Che?

– Policano Maria di anni 18… – ripete, poi aggiunge – ho voluto ucciderlo per tutto quello che mi ha fatto.

Maria viene arrestata e rinviata al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario premeditato e porto abusivo di coltello; il dibattimento si tiene nelle udienze dell’11 e 12 ottobre 1939, al termine delle quali il Pubblico Ministero chiede che, concessa l’attenuante del motivo di particolare valore morale, Maria sia condannata a 20 anni di reclusione e 6 mesi di arresti.

La difesa, al contrario, chiede che siano escluse la volontà omicida e l’aggravante della premeditazione e che siano concesse l’attenuante del vizio parziale di mente, quella della provocazione e quella del motivo di particolare valore morale.

La Corte osserva che, essendo la Policano rea confessa, non si può discutere sulla volontà omicida e per rafforzare il concetto ricorda che l’arma usata, la reiterazione dei colpi e le parti colpite, sono elementi che da soli basterebbero ad escludere che Maria volesse soltanto ferire e non uccidere. Ma la Corte, pur ritenendo fermo l’omicidio volontario, dubita dell’esistenza dell’aggravante della premeditazione, giacché i fatti che l’accusa ha posto in rilievo, e che sostanzialmente si concretano nella preparazione dell’arma accuratamente affilata con una lima, inducono a pensare, piuttosto, a un dolo di riflessione, senza quel qualcosa in più richiesto ai fini dell’aggravante. Si è invocato il beneficio del vizio parziale di mente, ma questa richiesta non può essere presa in considerazione perché nessun elemento patologicamente apprezzabile è stato sottoposto all’attenzione della Corte. Sembra invece che siano da assecondare le richieste per la concessione delle due attenuante dei motivi di particolare valore morale e della provocazione. E spiega: In punto di fatto è certo (vi sia o non vi sia stata deflorazione) che la condotta del Docimo ha gravemente compromesso la posizione morale dell’imputata, giovane onestissima che aveva avuto il torto di cedere, sotto il miraggio del matrimonio, alle lusinghe di lui; ed è certo del pari che, secondo la versione più accreditata, egli ebbe ad usare verso l’imputata un linguaggio ingiurioso nello stesso giorno e poche ore prima del tragico avvenimento.

Chiariti questi punti, la Corte può determinare l’entità della pena: tenuto conto degli ottimi precedenti dell’imputata, la Corte è di avviso che debba essere fissata nel minimo di anni 21 di reclusione, diminuita di anni 6 pei motivi di particolare valore morale e di anni 5 ancora per la provocazione, sicché in definitiva si ottengono anni 10 di reclusione, a cui vanno aggiunti mesi 6 di arresti per il porto abusivo di coltello. Oltre, ovviamente ai danni, le spese e le pene accessorie.[1]

 

 

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.