NON ADUSATA AL COITO

È il 26 febbraio 1937, quasi mezzogiorno. Il procaccia postale Vincenzo Avolio sta chiacchierando con Francesco Lambrogiano nella Via Nazionale di Malvito. Ridono, fanno battute. Sulla strada, alle loro spalle, una giovane donna, racchiusa in una mantella, si sta avvicinando con passo deciso. Adesso è alle spalle dei due che continuano a ridere senza accorgersi della sua presenza.

– Vincenzo Avolio! – dice la giovane donna con tono fermo. I due amici si girano contemporaneamente per vedere chi sia e quando Avolio vede la giovane donna cambia espressione. È sorpreso e nello stesso tempo infastidito. La giovane donna lo guarda negli occhi e, mentre toglie la mano destra da sotto la mantella, continua – Mi canusci mò?

L’espressione di Avolio, mentre i trenta centimetri della lama del micidiale scannaturu gli trapassano da parte a parte l’addome, ha perso il senso di fastidio, continuando a lasciare spazio alla sorpresa, che si tramuta immediatamente in terrore puro. La giovane donna sta per estrarre la lama dalle carni del procaccia, probabilmente per colpirlo di nuovo prima che qualcuno la blocchi. Ma quel qualcuno, Francesco Lambrogiano, è già lì e la disarma, senza però fare in tempo a bloccarla, cosicché la giovane donna può allontanarsi indisturbata e sparire.

La coltellata è stata così devastante da ledere arterie, stomaco ed intestino, provocando quasi istantaneamente la morte di Vincenzo Avolio.

Certo, dietro un gesto del genere deve esserci qualcosa di molto serio. Facciamo un passo indietro di un paio di ore e vediamo.

La giovane donna, Michelina Amatuzzi, 29 anni, sta camminando lungo la Via Nazionale, quando incontra Vincenzo Avolio. Vorrebbe dirgli qualcosa, ma quando gli è vicino, lui, facendo finta di non conoscerla e quasi come se davanti non avesse nessuno, sputa in mezzo ai piedi di Michelina, che diventa rossa di rabbia, stringe i pugni senza reagire all’offesa e torna a casa, dove si arma, esce, trova Vincenzo e lo ammazza.

Ne sappiamo ancora troppo poco, è vero, ma in questo frattempo Michelina è tornata sui propri passi e si è consegnata ai Carabinieri, e questo è il momento buono per saperne di più:

Circa un mese fa – racconta Michelina –, precisamente  il 24 gennaio, mentre ero sola in casa, entrò Avolio con la scusa di comprare formaggio, chiuse la porta e con violenza mi deflorò, promettendomi che fra quindici giorni avrebbe riparato al danno sposandomi. In seguito, però, non solo non mantenne la parola nonostante l’amichevole intervento di persone da me interessate… pure a voi mi sono rivolta, brigadiè… – dice guardando il Brigadiere che annuisce – ma osò anche negare di avere avuto con me alcun rapporto e stamattina… stamattina appena mi ha incontrata si è permesso di sputarmi in viso! Allora io, scossa d’ira, sono rincasata ed armatami con lo scannaturu sono uscita nuovamente  andando in cerca di lui, decisa a rintracciarlo ed ucciderlo e, trovatolo, mi sono messa alle sue spalle e, dopo avergli detto: “mò mi canusci?”, gli ho conficcato il coltello nel ventre e l’arma rimase nel corpo di Avolio perché, mentre cercavo di tirarla, lui mi afferrò la mano… accorse gente ed io scappai

Ma l’amico di Avolio la smentisce categoricamente:

Non è vero che Michelina aveva lasciato il coltello conficcato nella ferite di Avolio. Lo aveva colpito ed aveva estratto l’arma, tanto è vero che fui io a disarmarla e solo dopo che le tolsi il coltello di mano, ella si allontanò

È ovvio e legittimo che una persona accusata o, addirittura, rea confessa di un reato possa mentire su alcune circostanze per sviare i sospetti o evitare o mitigare la pena che gli verrà inflitta, ma il Brigadiere, che conosce abbastanza bene la situazione, scava più a fondo per chiarire tutti i dubbi che ha sul pregresso tra Michelina e Vincenzo. Ma non deve faticare troppo perché un paio di settimane dopo interroga di nuovo Michelina, che ammette:

Conoscevo Vincenzo Avolio da diversi anni per essere stata, quale giornaliera, nelle varie raccolte delle castagne al servizio dei suoi genitori. Egli, pur non facendomi proposte disoneste, da tempo mi correva dietro. Il mattino del 20 gennaio andai in campagna a portare il mangime ad un suino; egli mi seguì fin dentro il porcile ed ivi, buttatami a terra, mi sollevò le vesti e, strappatemi le mutande, riuscì ad introdurre in parte l’asta in vagina – come arguii dal dolore e dal sangue che notai nelle mutande – ma non poté completare il coito perché mi misi a gridare

– Lo hai raccontato a qualcuno?

No, nemmeno a mia madre!

L’ammissione di una precedente violenza subita da Michelina fa cambiare prospettiva ai fatti: nella susseguente congiunzione del 24 gennaio (che fu completa come ella medesima afferma) dové prestarsi senza opporre resistenza, ché diversamente, appena visto entrare Avolio, delle cui audacie dovea tutto temere, si sarebbe ben difesa. Ciò non fece, cedendo al miraggio del promesso matrimonio. Una mezza puttana, insomma, che ha mentito. E se ha mentito, come si fa ad essere sicuri che sia stato proprio Vincenzo Avolio a toglierle l’onore, come peraltro costui e sua madre andavano dicendo in giro?

Bisogna sottoporla a visita specialistica ed il risultato è questo: la membrana imenale presenta una lacerazione in corrispondenza del N° 6 del quadrante, fino ai limiti della inserzione vaginale; il dito indice penetra facilmente in vagina e le pareti di essa però si conservano rugose, onde, sebbene non più vergine, non è adusata al coito; la sua deflorazione ben può rimontare al tempo in cui ella afferma di essere stata sottoposta a congiunzione carnale. Michelina, a dispetto delle malelingue, ha ragione: a toglierle l’onore fu certamente Vincenzo Avolio!

Va bene, ma resta pur sempre il fatto del doppio congresso carnale che fa pensare ad un consenso implicito, come vuole la morale vigente, e questo potrebbe costarle caro. Michelina viene rinviata al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario.

Alla fine del dibattimento il Pubblico Ministero chiede che Michelina, concesse le attenuanti di avere agito per motivi di particolare valore morale ed in stato d’ira determinato da fatto ingiusto altrui, sia condannata a 12 anni di reclusione. La difesa, da parte sua, chiede che il reato sia derubricato in lesioni seguite da morte, con la condanna al minimo della pena.

La Corte ritiene di non potere accogliere la richiesta della difesa, principalmente perché è stata Michelina stessa ad affermare di avere voluto uccidere Vincenzo Avolio, poi per l’arma usata, un affilatissimo scannaturu di 30 centimetri, e la vitalità della zona colpita. Infine, a dimostrare la volontà omicida, ci sono la gravità e serietà del movente.

Tira una brutta aria per Michelina, ma la Corte aggiunge: Affermandosi però che la prevenuta volle uccidere, non può ella esser giudicata con severità, sia perché è di ottimi precedenti, sia perché fu trascinata al delitto dalla riprovevole condotta dell’ucciso e della di costui madre che osarono, perfino, irridere alla sua onta. Il comportamento di Michelina Amatuzzi anteriormente alla consumazione del delitto dimostra ch’ella, per ottenere la riparazione dell’onore perduto, cercò tutte le vie pacifiche, interessando più di un amico e più di un’autorità per indurre Avolio a sposarla; ogni tentativo fu vano perché Avolio negò di avere avuto rapporti con lei ed anzi, irritato dalle replicate sollecitazioni, non risparmiò alla prevenuta né l’ingiuria, né le percosse. Circa quindici giorni prima del delitto, pregato di sposarla, le diede uno schiaffo e l’apostrofò dicendole: “Invece di cercare me, va a cercare qualcun altro!”, intendendo con ciò d’insinuare ch’ella fosse stata sverginata da altri. Ella ricorse al Podestà, al Brigadiere dei Carabinieri, al Pretore ed agli amici Vaccaro, Ariani, Vetere; tentò perfino la via legale, ma fu sconsigliata dal dar querela (forse perché non appariva evidente che la congiunzione carnale fosse stata accompagnata da violenza); tentò di commuovere il cuore della madre di Vincenzo Avolio, che le rispose con parole dure e atti osceni, onde è certo che ella agì sotto l’impulso del sentimento dell’onore, col fine di ottenere la riparazione all’onta subita ad opera di Avolio che, dopo averla sedotta con promesse di matrimonio, l’aveva abbandonata e giungeva sino a negare di averla mai conosciuta. Essendosi ella trovata nel momento consumativo in tali condizioni di animo, è giusto che le si riconosca l’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale, a causa dello schiaffo ricevuto, dello sputo lanciatole e della espressione indecorosa da costui rivoltale. Ella, inoltre, nel momento del fatto versava in stato d’ira in lei indotto dalla condotta evidentemente ingiusta del seduttore e perciò si deve ammettere in suo favore l’attenuante dello stato d’ira.

Ciò premesso, nell’irrogare la pena, la Corte ritiene giusto partire dal minimo di anni 21 di reclusione, ridotta ad anni 14 per la diminuente del particolare valore morale e poscia ad anni 9 e mesi 4 per la seconda diminuente dello stato d’ira. La prevenuta, inoltre, portando fuori la propria abitazione il coltello di genere vietato, si rese anche colpevole della ascritta contravvenzione, per la quale sembra equo condannarla a giorni 15 di arresti. Oltre, ovviamente, alle pene accessorie, spese e danni.

È il 20 maggio 1937.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.