IL SANGUE DIVISO

È ancora buio la mattina del 3 dicembre 1893 quando Domenico Covello abbraccia e bacia sua moglie sposata da appena pochi giorni, la ventenne Giovannina D’Ambrosio, ed esce dalla loro casa in via Cava a Serra Pedace per andare a vendere carbone a Cosenza. Fuori lo aspettano suo padre ed un fratello che si lamentano per i pochi secondi di ritardo. Giovannina saluta con la mano il traìno che parte cigolando, chiude la porta, si fa per dire perché il saliscendi si aziona tranquillamente anche da fuori, risale in camera da letto dove ha lasciato tre nipotini che stanno ancora dormendo e comincia a sfaccendare.

Anche il carbonaio Antonio Peluso deve andare a vendere carbone, ma è in ritardo perché  alle 6,00 sta ancora caricando il suo traìno sulla sommità di via Cava. Il canticchiare allegro di tre giovanotti che stanno arrivando verso di lui sbucando da un vicolo lo distrae ulteriormente, ma non può fare a meno di prestare attenzione a ciò che dice uno dei tre, il ventiduenne calzolaio Domenico Baratta, agli altri due, facendosi serio all’improvviso quando gli sono accanto:

Minne vaju lluacu penninu – vado qui giù, indicando la discesa di via Cava – perché dove devo andare io, devo andare da solo

Domenico Baratta si cala il cappello sugli occhi mentre percorre la strada strisciando lungo i muri delle case addossate l’una all’altra. Poi si ferma davanti alla porta degli sposini, si guarda in giro per capire se qualcuno sta notando i suoi movimenti, poi tira delicatamente la cordicella che aziona il saliscendi e si intrufola in casa. Sale le scale senza fare rumore, la porta della camera da letto, che serve anche da cucina, è aperta a metà e, senza fare rumore nemmeno questa volta, entra.

Il letto nuziale è di fronte alla scala, rimboccato; accanto, ad un mezzo metro circa, un altro letto per due persone, nel quale sono coricati i nipotini di Giovannina, che, girata di spalle perché sta aprendo la finestra, non lo vede. Lo vede però Francesco, il nipote di sei anni, il quale spalanca la bocca senza riuscire a spiccicare nemmeno una vocale per la sorpresa e lo spavento che gli fa quell’uomo con il cappello calato sugli occhi, che adesso si sta sbottonando i calzoni per tirare fuori l’asta virile. Vede Domenico che se lo prende nella mano sinistra, mentre con la destra impugna una rivoltella e dice, provocando un sussulto di spavento a Giovannina:

O mùari tu o mùaru iu! – O muori tu o muoio io, poi salta verso la sposina per afferrarla.

Giovannina, che si è ripresa dallo spavento in un attimo, salta anche lei, ma verso il tavolino dove ci sono dei coltelli e riesce ad afferrarne uno e con questo si fa scudo, mentre Domenico le si avvicina sempre di più con un sorriso beffardo sulle labbra. Ora la sposina è accanto alla finestra aperta e sbircia di sotto. Le prime luci del giorno l’avvisano che una donna, sua zia Maria Iuele, sta scendendo verso il fiume e si mette a urlare per richiamare la sua attenzione. La donna sente, si gira, ma non capisce la gravità della situazione e fa segno che passerà da casa al suo ritorno.

Questi due o tre secondi sono fatali: Domenico le è addosso e l’abbranca da dietro, poi la gira e cerca di baciarla, ma Giovannina resiste e cerca di morderlo, mentre il piccolo Francesco li guarda come se stesse vedendo due fantasmi, di quelli che gli hanno raccontato per fargli paura e farlo star buono.

Poi Domenico afferra Giovannina per i capelli e cerca di spingerle la bocca sulla sua asta virile, ma anche questo tentativo va a vuoto perché lei lo scalcia e adesso ha ripreso ad urlare a squarciagola. Domenico sa di non avere più molto tempo se vuole fare ciò che ha in mente e la colluttazione si fa sempre più violenta.

Za Marì! Fuja ccà, corri qui!

Zia Maria sente di nuovo le urla di Giovannina e si ferma per guardare verso la finestra, sempre più lontana. È anziana e non riesce a distinguere, ma nemmeno lo sospetta, ciò che sta accadendo proprio sotto i suoi occhi, così si gira e continua la sua discesa verso il fiume. Tre o quattro passi appena, poi una detonazione che proviene dalle prime case del paese la fa sobbalzare.

O gesummaria! Giovannina… il marito! – urla, capendo finalmente che qualcosa di grave sta accadendo in casa della nipote. Un’altra detonazione. Con tutte le forze che ha, Za Maria corre lungo quei nemmeno cento metri che la separano dalla casa. Quando arriva, davanti alla porta ci sono Francesco e le sue sorelline di due e un anno che piangono. Francesco, inebetito, ripete come una cantilena

O mùari tu o mùaru iu… o mùari tu o mùaru iu…

Zia Maria entra nella stanza e vede subito, semi nascosto dal letto matrimoniale, un uomo disteso per terra

O gesugiuseppeemaria! Domenico si è sentito male ed è svenuto! Giovannina! Giovannina! – Poi un urlo. Quell’uomo per terra non è Domenico Covello, il marito di sua nipote, ed è immerso in un lago di sangue. Fa un passo in avanti e urla di nuovo: ai piedi dell’uomo c’è Giovannina, anch’ella distesa ed immersa in un lago di sangue. Prima di allontanarsi terrorizzata da questa scena raccapricciante, capendo quello che può essere successo e vedendo le due pozze di sangue sfiorarsi per poi allontanarsi l’una dall’altra, ha il tempo di urlare prima di scappare.

– ‘U sangu s’è spartutu! – il sangue si è diviso, forse per significare che nemmeno dopo la morte il destino ha voluto che il sangue di Giovannina si mischiasse con quello di colui che voleva violentarla e che l’ha uccisa.

Le urla di zia Maria vengono udite dal trainiere Francesco D’Ambrosio che si precipita sul posto, ma non capisce ciò che la donna farfuglia, quindi sale nella stanza e, dopo aver visto i cadaveri e soprattutto quello di Domenico Baratta con l’asta virile di fuori ancora in semi erezione, non ha dubbi sul movente dell’orrore a cui ha appena assistito. Allora, con sangue freddo, ridiscende le scale, richiude la porta di casa dietro di sé, ordina ad un paio di curiosi che nel frattempo sono accorsi di andare ad avvisare i Carabinieri e si mette di guardia per non fare entrare nessuno.

Il Pretore ed il medico legale arrivano nel primo pomeriggio e devono, prima di tutto, provvedere a descrivere ciò che trovano nella stanza dell’orrore:

Saliti al 2° piano abbiamo riscontrato due cadaveri, uno d’uomo e l’altro di donna, posti in posizione supina e la donna davanti all’uomo ed entrambi col viso rivolto alla finestra unica, che guarda Sud-Est e tutti e due i cadaveri immersi in un lago di sangue. La donna è in posizione leggermente inclinata verso il fianco sinistro, coi piedi aderenti alla parte della finestra sudetta. Veste di lana rossa corpetto e gonnella, tiene la camicia. Le vesti sono lorde di sangue nella parte inferiore. Al dito anulare un anello di oro ed altri due anelli si riscontrano nel dito anulare della mano sinistra. Alla guancia sinistra si osserva una larga macchia nera ed un foro nel mezzo; gli orecchi sono muniti di orecchini d’oro. Al fianco destro della defunta si scorge una rivoltella a sei colpi, quattro carichi e due esplosi. Vicino la rivoltella si trova un cappello appartenente con tutta probabilità a Baratta Domenico.

L’uomo giace in posizione supina con la faccia pure rivolta verso la finestra ed il piede sinistro quasi sostiene il capo della defunta. Il cadavere trovasi immerso nel sangue sieroso sino alla regione del capo. Veste giacchetta e corpetto di lana bianca, calzoni neri, stivali. I calzoni sono sbottonati ed appare il membro in stato di semi erezione. A sessanta centimetri circa di distanza dal detto cadavere, trovasi a terra un coltello comune da tavola, la cui impugnatura e lama si trovano lorde di sangue.

Il Pretore dispone il sequestro delle armi rinvenute sul luogo del delitto, degli anelli e degli orecchini di Giovannini, ordina che i cadaveri siano portati nella camera mortuaria del cimitero comunale e passa la parola al perito dell’arte salutare che deve descrivere le lesioni presenti sui cadaveri ed accertare le cause della morte attraverso l’autopsia.

Il cadavere di Giovannina non presenta traccia di colluttazione o di violenza di qualsiasi sorta, colluttazione che pure c’è stata. Sulla guancia sinistra una ferita d’arma da fuoco, di forma rotonda ed a margini un po’ sfrangiati e lividi, col maggior diametro di 10 mm. Dopo di che si è proceduto all’apertura della cavità cranica, sezione della faccia e del collo. Il proiettile che ha ucciso Giovannina non è nel cranio perché la pallottola, entrando dalla guancia ha forato il muscolo massotere e quindi, penetrando nel collo ha cambiato direzione deviato dall’angolo sinistro della mandibola, tranciando la carotide interna di sinistra, andando poi a colpire il corpo della seconda vertebra cervicale, frantumandola e terminando la sua corsa dopo aver spezzato il midollo spinale. Morte istantanea.

Il cadavere di Domenico Baratta ha ancora l’asta quasi in semi erezione ed al meato urinario si scopre una goccia di umore prostatico. Ha nel volto numerosi spruzzi di sangue aggrumito e la conca dell’orecchio destro è quasi ripiena di sangue coagulato, di cui sono intrisi i capelli della parte destra. Rimosso detto sangue, apparisce il forame uditivo contuso e sfrangiato nel suo orlo e tutta la conca dell’orecchio si mostra di colorito nerastro. Levato il cuoio capelluto e aperta la cavità cranica, si nota la sostanza cerebrale pesta e distrutta per l’estensione di 2 cm di diametro e che forma col sangue travasato una specie di poltiglia informe. Toccando in questo punto si sente un corpo duro che, estratto, si riconosce per un proiettile appartenente ad una rivoltella di calibro 12 mm. Domenico Baratta era sul punto di raggiungere l’orgasmo quando si è sparato alla tempia.

Gli inquirenti decidono che è il caso di interrogare il piccolo Francesco, l’unico testimone della tragedia, ed è attraverso le sue poche parole che la prima ipotesi fatta, cioè di omicidio-suicidio, è confermata. Poi il piccolo comincia a singhiozzare, sbarra gli occhi e non fa che continuare a ripetere:

O mùari tu o mùaru iu… o mùari tu o mùaru iu…

Stabilito di cosa si è trattato, ora bisogna capire che cosa ha spinto Domenico Baratta a combinare questo macello.

E forse può essere utile il racconto di Michele Baratta, cinquantaseienne padre di Domenico:

Io non sono in cognizione degli amori di mio figlio Domenico, né delle simpatie che nutriva per la D’Ambrosio, però mi consta che circa quattro anni or sono desiderava in moglie Giovannina, la quale in seguito sposava Domenico Covello. Non so se questa fiamma amorosa continuasse per parte della D’Ambrosio

Da parte di Giovannina certamente no!

Per Domenico, invece, la fiamma amorosa ardeva ancora, ma ardeva alimentandosi del rancore per quello che aveva sperato e non si era avverato.

Con quasi tutte le tessere a disposizione, il rompicapo degli ultimi secondi della tragedia può essere ricomposto con grande approssimazione dagli inquirenti:

Domenico tenta di violentare Giovannina che resiste e grida chiedendo aiuto a sua zia. Irritato sia per le insistenti ripulse, sia perché la cosa minacciava di farsi pubblica, Domenico spara quasi a bruciapelo un colpo alla guancia sinistra di Giovannina, che muore istantaneamente, e poi, forse spaventato per l’opera di sangue da lui compiuta, rivolge l’arma contro di sé puntandosela all’orecchio destro e fa fuoco, uccidendosi all’istante.

Tutto questo davanti agli occhi atterriti di un bambino di sei anni e delle bambine di due ed un anno.

Il Giudice Istruttore presso il Tribunale di Cosenza, letta la requisitoria del Pubblico Ministero e gli atti processuali, poiché risulta che Domenico Baratta, dopo avere ucciso Giovannina D’Ambrosio rivolgeva contro di sé stesso l’arma omicida e si suicidava, dichiara estinta l’azione penale per l’omicidio in persona di Giovannina D’Ambrosio per effetto della morte dell’imputato Baratta Domenico e conseguentemente non esser luogo a procedimento penale.

È il 31 dicembre 1893.

Questa brutta storia ha uno strascico che si conclude, forse, dopo tre anni: Domenico Covello, il marito della povera Giovannina, dopo aver scritto più volte inutilmente al Procuratore del re di Cosenza, scrive al Procuratore Generale del re di Catanzaro chiedendo la restituzione degli anelli e degli orecchini sequestrati, che si appartengono al reclamante. La pratica viene restituita al Tribunale competente, ma nemmeno questa volta viene accontentato perché, scrive il Giudice Istruttore nella sua sentenza, seppure non occorre mantenere sotto sequestro gli oggetti d’oro, la restituzione non può farsi che agli aventi diritto. Poiché non risulta che l’istante Covello sia l’unico erede della moglie defunta, non si può allo stato degli atti emettere il desiderato provvedimento. [1]

[1] ASCS, Processi Penali.