CHI SI PUÒ SALVAR SI SALVI!

Nella seconda metà del mese di giugno del 1849, le bande riunite di Raffaele Arnone e Pietro Branca partono a piedi dalla Sila alla volta delle montagne dell’Orsomarso con l’intenzione di depredare alla Principessa di Scalea l’intero gregge di pecore. Lungo la strada alle due bande si uniscono alcuni pastori, probabilmente di Lungro, così da formare una comitiva di circa 35 persone.

Il colpo riesce e la comitiva di briganti, con quasi l’intero gregge, si mette in marcia per fare ritorno in Sila, sperando di non essere avvistata dalla forza pubblica e dover, quindi, abbandonare il bottino e trovare salvezza nella fuga. Tutto sembra procedere per il meglio, ma il 28 giugno 1849, dopo che la comitiva si è accampata per la notte, i pastori commettono una sciocchezza: per mezzo di uno di loro, un ragazzino, mandano a Lungro una pecora e del formaggio. È un’offesa gravissima per i briganti perché secondo le loro regole il bottino deve essere conservato all’interno della comitiva e non usato per sfamare estranei.

Scoppia una furibonda sparatoria, alla fine della quale i pastori, tranne due che restano morti sul terreno, riescono a scappare. Anche la comitiva di Arnone e Branca lascia sul terreno due cadaveri che, prima di ripartire, i briganti bruciano fino a carbonizzali quasi completamente, lasciando solo poche ossa.

Perché non seppellirli e compiere un’azione così orribile? Perché il fatto che la comitiva abbia cremato i corpi dei due compagni sta a significare il rispetto e l’affetto verso di loro, per evitare, cioè, che venga fatto scempio dei cadaveri da parte degli animali selvatici o che vengano trovati e riconosciuti dalle autorità per essere esposti al pubblico come trofei.

Al contrario, in segno di spregio, i cadaveri dei due pastori vengono lasciati insepolti alla mercé degli eventi.

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Il 12 giugno 1851 Don Francesco Grisolia di Celico sta tornando in paese dalla fiera detta della Ronza, scortato da più individui fra quali il compatriota Fortunato Arnone e Gaetano Provenzano di Cosenza, suo domestico. Lungo la strada si è unito a loro Don Giacinto Grandinetti di Cosenza, anche lui di ritorno dalla fiera. Arrivati nel punto della Regia Sila appellato cava della Vecchiarella, territorio di Celico, trovano appostati gli scorridori di campagna Pietro Branca, Antonio Curcio, Fortunato Federico, Pietro Michele Pisano, Domenico Faraca, Pasquale Salatino, Saverio Trozzolo e Pietro Maria Rogato, i quali, avendo premeditato di sequestrare Don Francesco Grisolia, impongono al medesimo e compagni di buttare le armi. Ma inaspettatamente Grisolia e i suoi compagni si pongono in attitudine di difesa ed i briganti scaricarono contro di loro i fucili e da quei colpi rimangono estinti i suddetti Fortunato Arnone e Gaetano Provenzano. Chi può, scappa, meno Don Giacinto Grandinetti che, caduto in potere dell’orda viene derubato di ducati trecento ed altri oggetti ed ottiene poscia la libertà dietro lo sborso di altri ducati mille e cento.

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Nella notte dal 30 a 31 di Agosto 1851, Pietro Maria Rogato di unità agli altri consoci di colpa Raffaele Arnone e Fortunato Federico, armati di tutto punto, commettono il furto di una pecora nella mandria di Don Vincenzo Fazio di Carfizzi, stanziata in Regia Sila, con la richiesta all’archimandita Francesco Noce di quattro cappotti ed altro che, però, non ottiene soddisfazione.

E proseguendo essi Arnone, Federico e Rogato a scorrere armata mano la campagna, altro furto di una pecora consumano nella notte del seguente 6 Settembre nella mandria di Vincenzo Cosentino di Aprigliano, stanziata nella contrada Cozzarelli, agro di quel comune, e poscia, adducendo per motivo che costui non aveva voluto far costruire una pistola al Pietro Maria Rogato, uccidono a colpi di stili centoventi animali tra pecore e capre, cagionando con ciò al proprietario il danno di ducati trecentoquaranta, non senza percuotere i foresi Domenico Cosentino ed Antonio Calvelli per non essersi costoro voluti prestare alla uccisione di quelli animali. Le percosse in persona di Antonio Calvelli son lievi e l’offesa riportata da Domenico Cosentino è giudicata pericolosa di vita per gli accidenti, pericolo che poscia si trovò svanito.

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Nel mattino del 27 dello stesso mese di Settembre 1851, mentre Pasquale Rizzuto, Gaspare Oliverio ed altri naturali di Serra sono intenti alla costruzione della carboniera nella contrada Conserve di Macchia Sacra in Regia Sila, sono aggrediti dai suddetti tre scorridori di campagna Arnone, Federico e Rogato, i quali, dopo averli fatti depositare le scuri e situare in fila, domandano a ciascuno del proprio nome. In quel momento si trova a transitare per colà Biagio Granieri di Spezzano Grande che guida un asino e domandato da un dei malfattori cosa portava quegli rispondendo portar dei frutti e dei peperoni, gliene fa offerta. Il malfattore quindi profferisce delle espressioni ambigue, perlocchè Granieri si da alla fuga, ma infuggendo gli vengono scaricati dai briganti due colpi di fucile, talché il misero soggiace ad imminente morte.

Consumato appena questo assassinio, i delinquenti, volgendo la parola a quei naturali di Serra, dicono:

Chi si può salvar si salvi! – costoro, attimoriti si danno alla fuga, ma i perfidi fanno loro una scarica di archibugiate. Dai colpi esplosi rimane gravemente ferito Gaspare Oliverio, che il giorno dopo muore, e Pasquale Rizzuto riporta anche una ferita nel braccio dritto, giudicata pericolosa di vita per gli accidenti e di storpio per natura, pericoli che nel prosieguo si trovano dileguati.

La causale dell’avvenimento criminoso si fa dipendere perché i tre briganti non volevano che si fossero recisi gli alberi in quel bosco, luogo più atto al loro rifugio.

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A circa le ore 23. del dì 29 Aprile volgente anno 1852, i ripetuti Raffaele Arnone e Pietro Maria Rogato si presentano all’ovile di Don Lorenzo Vulcano, sito nella contrada Orgia, territorio di Pietrapaola, e fanno richiesta di ricotte al mandriano Giosuè Gallina. Mentre costui mosse per inerire alla domanda, quelli passano all’altra contrada Brogliaturo, ove stanzia la mandria di Donna Maria Iorio del Vecchio da Longobucco, e colà vanno dapprima in cerca dell’archimandita Pietro Paolo Baratta e poscia del di costui fucile. Pietropaolo, avvisato della loro gita, si è già allontanato ed i malfattori, dispiaciuti per non aver rinvenuto lo schioppo del medesimo, rubano due cappotti, uno di proprietà di Vincenzo Baratta, figlio di Pietropaolo, e l’altro del pastore Tommaso Morrone, del valore di ducati otto circa, non senza lievemente percuotere l’altro pastore Domenico De Simone. Indi appiccano il fuoco a due gran pagliai ove abitavano quei pastori ed obbligano De Simone praticar lo stesso ad un terzo pagliaio.

Coll’incendio di quei tre ricoveri rimangono pur preda delle fiamme dei latticini, delle vestimenta ed altri oggetti pertinenti alla Signora Iorio e costei foresi, ed il danno cagionato si è fatto ascendere al di là di ducati cento.

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Il 7 giugno 1852, mentre Don Giorgio Minisci e Don Pasquale Basile di S. Giorgio Albanese attendono alla falciatura delle messi ne’ rispettivi fondi siti in contrada Malbrancati , campagna di quel Comune, vengono sequestrati da un’orda di malfattori armati di tutto punto ed al numero di cinque, fra i quali ci sono Pietro Maria Rogato ed il ripetuto Raffaele Arnone che la fa da capo.

Consumato appena il sequestro, i delinquenti obbligano due coloni del Minisci a seguirli e licenziandoli poscia a circa le ore due della notte dalla contrada appellata la Torre di S. Francesco l’impongono dire alle famiglie dei sequestrati che pretendono ducati cinquemila per la liberazione di Don Giorgio Minisci e ducati cinquanta per quella di Basile.

La sera dell’8 giugno, Vincenzo Fusaro, spia e corrispondente della comitiva, dimorando nella contrada Pantano Longo per oggetto di coltura, viene chiamato dalla comitiva Arnone e, dopo averle somministrato dell’acqua, armatosi di scure parte con la stessa, lasciando la cura dei bovini al forese di lui Francesco Longobucco. Ritorna a Pantano Lungo due sere dopo e rivela al forese

– La gita è stata per guidare ai briganti, de’ quali ho conosciuto il solo capo Raffaele Arnone, alcuni messi spediti dalle famiglie de’ sequestrarti di S. Giorgio, ma i messi non c’erano nel designato luogo. Vado a vedere se li trovo negli altri posti che so…

Ritorna sconfortato dopo qualche ora, si siede a terra bestemmiando e dice

– Non li ho trovati, mannaja! I briganti mi avevano promesso in compenso una somma bastevole ad acquistarmi un pajo di bovi… e mò m’accattu su cazzu!

Fusaro insiste nella ricerca dei messi e, finalmente si imbatte in  Raffaele Muojo da Mendicino, domiciliato in S. Giorgio, il quale per l’oggetto medesimo erasi pur recato nel giorno innanzi in cerca dei malfattori. Fusaro lo guida fino all’accampamento dei briganti nel bosco detto Gallopane e, dopo aver confabulato con costoro, Fusaro e Muojo vanno incontro ai messi Girolamo Cerrigone, Antonio Ferrari e Pietro Paolo Buscia che portano ducati duecento di danaro contante e dei commestibili. In un dato punto della montagna di Acri Muojo continua il cammino da solo. Al suo ritorno nel punto prestabilito, i messi vengono consegnati da Raffaele Muojo al Vincenzo Fusaro, il quale sta attendendoli per incarico dell’orda. Mentre il Muojo ritonava sui suoi passi dicendosi stanco pel cammino percorso e pel sonno perduto, Vincenzo Fusaro, avendo dietro richiesta saputo dal Cerrigone e compagni che portano fra l’altro del contante, suggerisce a costoro che egli li avrebbe preceduti e nel caso avrebbe scorto delle pattuglie ad un suo cenno avessero quelli buttate le bisacce e si fossero dati alla fuga per iscanzare l’arresto. In tale intelligenza già si pongono tutti in cammino, quando Fusaro dati pochi passi dà il segnale di convenzione perlocchè i messi si danno alla fuga buttando sul suolo le bisacce con i commestibili, ma non così il numerario che ha in tasca il Cerrigone. Fusaro e i briganti sono stati giocati!

A loro volta i misfattori, che non vedono né Vincenzo Fusaro, né i messi mandati dalle famiglie con i soldi, scorrazzano per più giorni diverse boscaglie della Regia Sila e minacciano continuamente i sequestrati di morte pel motivo che non ricevono il chiesto numerario, ma nella sera del 17 giugno, prospettando costoro della opportunità di esser stati lasciati soli per qualche momento, riescono a scappare e rientrano nelle rispettive case.

Arrestato Vincenzo Fusaro per ordine dell’autorità militare, nell’interrogatorio si contraddice più volte e sono guai seri per lui.

I sequestrati Minisci e Basile, nel rendere le loro circostanziate dichiarazioni, elevano dei sospetti di complicità contro il suddetto Raffaele Muojo, anch’esso arrestato, ed altro individuo ad essi ignoto, che per quanto sorge dagli atti ha dovuto essere certamente il di costui cugino Giuseppe Muojo, latitante; ma sul conto di amendue le istruzioni non sono al momento complete.[1]

[1] ASCS, Gran Corte Criminale.