UNA MORTE SOSPETTA

È il primo pomeriggio dell’8 agosto 1930 e i Carabinieri della stazione di Paola guardano il cadavere della donna a faccia in giù, disteso sul fondo della vasca colma di acqua che serve per alimentare il mulino in contrada Carpinello. Qualche curioso si sporge dal muretto che circonda la vasca e si fa il segno della croce.

– È mia nuora, Rosa Provenzano, la moglie di mio figlio Vincenzo… – dice Luisa Serpa, vedova Mannarino, al Maresciallo.

– Quanti anni aveva?

– Più o meno ventiquattro…

– Di chi è quel fazzoletto? – le chiede il Maresciallo indicando il fazzoletto a capo posato sul bordo della vasca.

– Suo – gli risponde, quasi indifferente, indicando il cadavere con un gesto del capo.

Poi il Maresciallo si allontana dalla donna e si mette a confabulare con un suo sottoposto.

– Non credo che si tratti di una disgrazia, meno ancora un delitto… più probabile che si sia suicidata. Vedete di trovare qualsiasi indizio, una mezza parola, un’occhiata che possa significare qualcosa.

Ma, oltre al fazzoletto, non c’è assolutamente nulla di sospetto e quando arrivano il Pretore e il Medico Condotto, esaminato esteriormente il cadavere e constatato che non presenta ferite di alcun tipo né segni di violenza, viene data l’autorizzazione alla sepoltura: morte accidentale. Comunque, per fugare ogni piccolo dubbio sul fatto che Rosa possa essersi suicidata bisognerà indagare per scoprire se qualcuno l’ha istigata.

Ed ecco il colpo di scena: dopo alquanti giorni i Carabinieri, continuando le indagini, raccolgono elementi di prova secondo i quali si deve ritenere che Rosa Provenzano sia stata gettata nella vasca dalla suocera col concorso del marito della vittima.

Così entrambi vengono arrestati, ma Vincenzo Mannarino, il fresco vedovo, in cella ci resta solo poche ore perché è evidente che lui non c’entra nulla nella faccenda: l’8 agosto non era a Paola ma si trovava in montagna a custodire il gregge, abbastanza lontano da non aver potuto in alcun modo partecipare al delitto, sempre che di delitto si tratti.

– La mattina dell’8 agosto, fin verso le 11,00, lavorai con mia nuora e mia figlia in un fondo vicino a casa, sfogliando granturco. Poi io e mia figlia siamo tornate a casa a preparare il desinare, ma Rosa non tornò… – dice Luisa Serpa.

– Ho visto Rosa sofferente e stanca, – racconta Filomena Panaro, la moglie del mugnaio Giovanni Cittadino, che abita vicino alla casa di Luisa Serpa – le ho offerto dell’acqua e poi l’ho lasciata mentre lei si avviava di nuovo verso il fondo ove aveva fino a quel momento lavorato… più tardi Luisa Serpa si portò al mulino e, dopo aver chiesto notizie della nuora, disse di sapere che la medesima si trovava morta in fondo alla vasca, soggiungendo che conveniva chiamare gente e quando questa fosse raccolta, mio marito, salendo alla vasca, doveva dare l’allarme

– Si, ha detto proprio così! – conferma il mugnaio.

– Che impressione vi ha fatto Luisa Serpa? Voglio dire, piangeva, era indifferente…

Si manteneva indifferente.

– E voi che avete fatto? – chiede il Maresciallo alla donna.

– Ho aderito alla sua richiesta e ho chiamato paesani abitanti poco lontano… c’era anche la Guardia Municipale Eugenio Mandarino e ho detto loro quanto aveva a me riferito Luisa Serpa. Mio marito, allora, con tutti i presenti salì alla vasca e quando dette la notizia del ritrovamento del cadavere di Rosa, la suocera dette in isterie e, per di più, si mise a ripetere che poco dopo le 11,30, suo figlio di 14 anni, lavorando al mulino, aveva avuto bisogno di salire alla vasca e aveva scorto il cadavere della cognata, toccandone le vesti con una mano e, accertato che la povera disgraziata non dava più alcun segno di vita, tornò a casa riferendole ogni cosa…

Tu solo mi puoi salvare. Così Luisa Serpa mi disse appena mi vide – riferisce la Guardia Municipale.

Perché tutte queste macchinazioni? Guai in vista per Luisa Serpa, la quale nei molti interrogatori e confronti subiti, man mano, ammette circostanze assai rilevanti:

– Mio figlio, è vero, mi disse che aveva trovato Rosa morta nella vasca, mi disse anche di aver visto il fazzoletto…

– E voi che avete fatto?

Invitai mio figlio a prendere l’asino e a compiere il suo solito giro presso i clienti del mulino, mentre io, con tutta calma, mi recavo presso Filomena Panaro e suo marito

Una indifferenza molto strana, per non dire sospetta. Indifferenza già notata, peraltro, anche da Filomena Panaro.

I bambini, si sa, sono la bocca della verità, così si scopre che la figlia più piccola di Luisa Serpa, di sei anni, aveva raccontato ai vicini di casa la storia del ritrovamento del cadavere fatta da suo fratello, aggiungendo, però, che stando in casa aveva udito grida di aiuto della cognata e che la madre però non era nemmeno uscita a vedere cosa accadesse. E, di più, aveva raccontato ad un vicino che l’aveva vista tutta piangente, che causa del suo dolore era l’arresto della madre, soggiungendo che era stata arrestata perché aveva gettato la “scioscia” [la zia. Nda] nella vasca.

Davanti a tutte le precise testimonianze e alle parziali ammissioni di Luisa Serpa, viene deciso di riesumare la salma e di eseguire l’autopsia per accertare le cause della morte.

Gli inquirenti, forti delle testimonianze, ricostruiscono quella che ritengono essere stata la dinamica che portò alla morte Rosa Provenzano: Luisa Serpa, aggredendo improvvisamente la nuora mentre stava vicina alla vasca o anche chinata sulla medesima a rinfrescarsi il viso, la gettò nella vasca facendola annegare.

Così, forti delle testimonianze e della ricostruzione dei fatti, senza aspettare i risultati della perizia necroscopica, la Procura del re chiede ed ottiene il rinvio a giudizio di Luisa Serpa davanti alla Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di omicidio volontario. Sarà stato un azzardo non aspettare la perizia?

Il dibattimento si apre il 16 novembre 1931 e i colpi di scena caratterizzano le due udienze necessarie ad emettere la sentenza.

Intanto la Corte esordisce con una dichiarazione che non promette niente di buono per l’accusa e la parte civile: Non si può negare che il materiale accusatorio, costituito dal comportamento strano e contraddittorio di Luisa Serpa e dalle circostanze accertate in istruttoria in ordine al fatto che l’imputata ebbe notizia della morte della nuora fino dal mezzodì del giorno 8 agosto e al fatto che volle inscenare un rinvenimento fortuito in presenza di terze persone, possa impressionare in senso favorevole all’imputata.

La bilancia, al contrario, sembra pendere a favore dell’accusa e della parte civile quando dall’esame di diversi testimoni emergono certi diverbi sorti tra suocera e nuora a proposito del fatto che Rosa aveva voluto, contro il parere della suocera, intervenire ad una festa in occasione delle prossime nozze di una sorella. Poi viene ricordata dai familiari della vittima una strana coincidenza, cioè il fatto che Anna Provenzano, prima moglie di Vincenzo Mannarino e sorella della vittima, era morta improvvisamente dopo pochi mesi di matrimonio, così da far dubitare che anche la prima moglie fosse stata uccisa dalla suocera e dal marito, ma questo dubbio viene fugato da vari testimoni i quali assicurano che la morte di Anna Provenzano non impressionò in modo sinistro alcuno e tanto meno i parenti della defunta che a pochi mesi di distanza davano Rosa in seconde nozze a Vincenzo.

Il Pubblico Ministero e la parte civile insistono sulla ricostruzione della scena del crimine con la suocera che fa annegare la nuora, ma ecco spuntare i risultati di quella che avrebbe dovuto essere un’autopsia ed invece è solo una constatazione dello stato del cadavere, accompagnata da una pedissequa riproposizione della relazione del primo medico che descrisse il cadavere nell’immediatezza del fatto. La conclusione è che Rosa Provenzano è morta per sincope. La posizione del corpo, bocconi con le braccia flesse sul torace, i pugni chiusi, il fatto che il corpo non presentava i caratteri esteriori dell’asfissia da annegamento, l’immediata rigidità cadaverica, l’emissioni di feci riscontrata in abbondanza sul corpo della disgraziata donna, hanno portato ad escludere nel modo più categorico l’asfissia per annegamento, indicando chiaramente che la morte è avvenuta per improvviso arresto delle funzioni circolatorie. Il perito ha fatto l’ipotesi, tra l’altro, che la sincope fosse dovuta allo squilibrio improvviso tra il calore dell’aria in quel giorno e in quell’ora e il raffreddamento subitaneo del corpo della Provenzano per l’immersione improvvisa (delle mani) nella vasca.

Bene, sembra proprio che Rosa sia morta di morte naturale, d’altra parte alcuni testimoni dicono che era deperita in salute e quindi assai debole. Si, quella del perito è una ipotesi plausibile, alla quale si associa il Pubblico Ministero. Ma, sostiene la parte civile, sarebbe altrettanto plausibile pensare che Rosa possa essere rimasta annientata per lo spavento subito per l’azione violenta consumata in suo danno dalla suocera.

E allora si fa strada anche l’ipotesi che a causare la sincope possa essere stato un colpo di sole mentre Rosa era stesa sul muretto della vasca a riposare e che vi sia scivolata dentro.

Tutte queste ipotesi (che sono le uniche che l’esame del cadavere ragionevolmente consente), sostiene la Corte, escludono l’asfissia per annegamento e fanno ritenere assai verosimile il fatto che Rosa Provenzano sia caduta in acqua già morta o nell’atto di morire. A sorreggere questo avviso sta il fatto che la vittima stette immobile nell’acqua nella posizione e nell’atteggiamento che aveva al momento di cadere: nessun atto istintivo di allungamento delle braccia o altro da lei compiuto per ritornare a galla e la vasca è tale che con pochi movimenti aiutati dalle vesti non ancora completamente intrise d’acqua, la donna avrebbe potuto accostarsi a quel punto della vasca che le avrebbe consentito di uscire in salvo.

Nessun segno di violenza veniva trovato, né sul corpo, né sulle vesti della vittima: il volto composto, gli occhi completamente chiusi tendono ad escludere l’ipotesi di sincope da spavento prospettata dalla Parte Civile e di fronte a tali rilievi non è possibile un’affermazione di responsabilità di Luisa Serpa per un fatto che, malgrado tutti gli indizi a carico, non trova conforto ed è, anzi, resistita dalla prova generica raccolta.

Di fronte al grave dubbio che sorge nell’animo dei componenti della Corte per le risultanze processuali, si deve assolvere Luisa Serpa per insufficienza di prove.[1]

È martedì 17 novembre 1931.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte di Assise di Cosenza.

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