AMAMI ANCHE DOPO LA MORTE

Lo stridio dei freni cessò di colpo lasciando il treno avvolto da una nuvola di vapore bollente, nella bollente mattina del cinque agosto 1917. Il cartello avvisava i viaggiatori che si trovavano nella stazione di Cetraro, paese della costa tirrenica calabrese.

Un soldato scese con dei fogli in mano e cominciò a leggere dei nomi. Man mano si aprivano gli sportelli dei vagoni di terza classe e gruppi familiari scendevano portandosi dietro povere cose. I bambini più piccoli strillavano in braccio alle mamme con addosso i segni del lungo viaggio e della tragedia che le aveva colpite, quelli più grandi si facevano i dispetti, ricevendo sonori scappellotti dai padri con le facce stanche e tristi, se i padri li avevano. Erano tutti veneti, sfollati dalle loro terre per l’imperversare della guerra e mandati mille chilometri lontano.

Il vapore dall’odore metallico si era dissolto lasciando che l’aria si profumasse di salsedine. Una ventina di famiglie aspettava di sapere il da farsi mentre il soldato discuteva concitatamente con il sindaco del paese; da lontano una piccola folla di curiosi osservava infastidita: già non c’era di che sfamare i paesani, figurarsi adesso che si aggiungevano tutti quei disperati. Qualcuno cominciò a chiamarli zingari, qualcun altro paventava un aumento dei furti, ma tutti erano d’accordo nel non volerli in mezzo a loro.

Finalmente i due finirono di discutere, il soldato risalì sul treno e il capostazione diede il segnale di partenza. Dai finestrini i profughi che proseguivano il viaggio salutavano, dalla banchina polverosa rispondevano quelli che lo avevano terminato, contenti perché avrebbero, finalmente, potuto riposare in santa pace. Dalla folla di curiosi qualcuno tirò al loro indirizzo dei sassi, urlando di andarsene.

Una ragazzina, sembrava non avere più di tredici o quattordici anni, dai morbidi capelli biondi e gli occhi di un azzurro intenso, si avvicinò innocentemente al sindaco e gli chiese se la sua famiglia poteva essere mandata nel paese con un piccolo promontorio e un grande palazzo a picco sul mare che aveva visto dal treno poco prima che si fermasse. L’uomo, abbandonando per un attimo il fastidio che anch’egli provava per quella gente, la guardò sorpreso dalla sua acerba bellezza e, forse divertito dalla strana cadenza della sua voce,  le chiese quale fosse il suo cognome

– Bison, siòr – gli rispose.

– Bison… Bison… ecco qua – disse, scorrendo l’elenco dei profughi – Cittadella – annotò di fianco al cognome, poi continuò – eccoti accontentata signorina!

Terminate tutte le formalità burocratiche, Giovanni Bison, da Cavazuccherina (l’odierna Jesolo. Nda), si caricò sulle spalle  le poche cose che era riuscito a portarsi dietro, mise il foglio di via in tasca, aiutò la moglie a caricarsi addosso una pesante valigia, affidò i tre figli più piccoli ad Elvira e tutti insieme si avviarono lungo i binari verso il paese a cui erano stati destinati.

La casa non era granché, ma non c’erano bombardamenti e quindi ad Elvira sembrò di essere in paradiso. Poi c’erano il mare e il sole. C’era, anche, un giovanetto di quindici o sedici anni che se ne stava affacciato ad una finestra della bella casa accanto e la guardava sorridendole insistentemente.

Elvira e Fausto, questo era il nome del giovanetto, entrarono subito in confidenza. Si piacevano e cominciarono a fare all’amore lanciandosi sguardi languidi e volandosi baci innocenti come solo gli adolescenti sanno fare, lei dalla finestra e lui giù dal suo giardino, al di qua della palizzata che divideva le due proprietà. Si scambiavano anche biglietti, lasciandoli tra le fessure delle tavole di divisione. Prima o poi si sarebbero sposati, si promettevano.

E intanto passarono due anni e Fausto era stato fatto fidanzare con una ragazzina benestante del posto, ma per lui non era un problema: convinto del suo amore per Elvira, avrebbe lasciato l’altra verso la quale non nutriva alcun sentimento. Il problema, piuttosto, era la sua famiglia: come l’avrebbe presa? E che dire, poi, di tutta la gente che avrebbe sparlato e gridato allo scandalo? Cosa fare? Meglio parlarne a suo padre. E fu qui che, come il giovanotto aveva previsto, nacquero davvero i problemi, perché la famiglia di Fausto Ruggiero era molto in vista e non poteva sopportare che il primogenito si promettesse ad una poveraccia, figlia di poveracci sfollati che sicuramente speravano di speculare su quell’amore.

– No! Non dovrai nemmeno guardarla dalla finestra! Pensa piuttosto alla tua vera fidanzata, un gioiello che stai lasciando scivolare dalle tue mani.

– Ma papà, sembra finta… io amo Elvira…

– Ma quale Elvira d’Egitto! Ti ho detto che per te non deve esistere!

Il martellamento del padre e di tutta la famiglia Ruggiero ebbe l’effetto sperato: Fausto abbandonò Elvira e ritornò dalla sua fidanzata ufficiale, ma un’altra tegola si abbatté su di lui che intanto aveva compiuto i diciotto anni: il richiamo alle armi in tempo di guerra!

E fu proprio in questi momenti di solitudine e disperazione che Fausto ripensò a quanto fosse stato stupido a cedere alle pressioni dei suoi familiari: amava Elvira e solo lei!

Le scrisse e lei gli rispose.

La guerra finì, ma non finì il servizio militare. Fausto venne trasferito a Palermo e le lettere continuavano a partire ed arrivare sempre più di rado. Poi Elvira non rispose più e Fausto, disperato, le pensò tutte e infine si decise a scrivere:

Palermo dieci febbraio 1919

Carissima Elvira,

non ricevendo tue notizie da parecchi giorni ed avendo atteso invano la risposta alla mia ultima, mi accingo con premura a scriverti io.

Ti scrivo specialmente per chiederti buone notizie di te e di tutti i tuoi che mi dicesti di essere ammalati. Vorrei sperare che tutti stiate bene, perfettamente guariti e senza nessun pericolo.

Ti annunzio poi, forse ti dispiacerà, che fra due o tre mesetti io tornerò in paese congedato. Potrei venire anche prima ma debbo restare per consegnare alcuni registri ed altre importanti carte d’Ufficio.

Vorrei sapere perché non hai risposto alla mia ultima mentre ti raccomandai di rispondere subito. Ho ben ragione di dire che non sai leggere nel cuore di una persona che ti amò tanto. Spesso ti ho pensato e fra di me dicevo con dolore: Chi sa se Elvira mi ama o mi odia; chi sa cosa fa della sua vita; chi sa a chi affida il suo cuore; chi sa a qual fannullone e maligno affiderà i suoi palpiti….; i  suoi palpiti d’amore che accesero un giorno il mio cuore. Si, Elvira cara, pensando che qualche sciocco abbia abusato del tuo cuore e della tua persona io soffro e dico a me stesso: l’ucciderò, lo farò pentire di avere offeso colei che io rispettai per tanti mesi, che amai ardentemente… e che ora con dolore, con compassione tanto ricordo. Elvira, vorrei che tu leggessi nel mio cuore, nel cuor mio che tante volte ascoltasti il forte ed infuocato battito. Spesso domando all’aria, al cielo, ai monti ed al mare perché mi hanno ingannato, perché mi hanno allontanato da te senza saperne il motivo, da te che io sacrificandomi adoravo come una santa e tutti mi rispondevano ad una voce che  per consolarmi un po’, per sollevarmi dal dolore – Fausto, non addolorarti, non hai fatto nulla di male, tu amavi con tutto il tuo cuore Elvira, tu la lasciasti in un momento di nervosismo, non dovevi lasciarla ma Elvira ci ha colpa, perché non volle ubbidire, perché forse non voleva amarti più – dunque, mia amica, non dovresti odiarmi, ma considerare, mantenerti amata e saperti… regolare. Allora si che Elvira sarà veramente Elvira, degna di affetto……………. Ma con dolore penso che tu poco dici meglio niente affatto pensi più al tuo Fausto. Continui a fare da infermiera o pure la tua opera di assistenza è già terminata? Guardati da ogni male e cura bene i tuoi fratelli e i genitori ed i congiunti e Iddio che tutto vede e sente te ne rimunererà al doppio.

Di Veronica che mi dici? Stefanin, non mi sembra giusto, ancora non mi ha scritto, non ha neanche risposto alla mia lettera. Credo che lui è stato congedato.

Saluti a tutti, baci ai carini, a te inviandoti… amichevoli pensieri affettuosamente ti saluto.

Fausto

Finalmente a casa! Fausto era fermamente deciso a riprendere l’amore interrotto con Elvira e i due ragazzi ricominciarono tutto come prima. Ma anche i rimproveri, le pressioni, le minacce dei suoi familiari ripresero più vigorose di prima. Fausto era disperato e mille funesti pensieri gli arrovellavano il cervello. Quando intervenne anche suo zio Anselmo, capì che mai avrebbe potuto vivere felicemente il suo amore.

La rivoltella del padre era al solito posto, incustodita perché tanto non c’erano in casa bambini. Il foglio di carta scritto frettolosamente era in tasca. Lo tolse e lo posò sulla scrivania del padre, poi giù in giardino a guardare verso la finestra di Elvira e volarle un bacio. Quindi tolse dalla tasca un altro foglio e lo mise al solito posto tra le tavole. Si girò e si diresse alle spalle di un pianterreno adibito a stalla che dista dalla abitazione della famiglia Ruggiero non oltre venti metri e precisamente vicino ad una roccia, a ridosso della quale si vedono delle piante di fichi d’india, mentre a valle vi sono delle piante di gelsi. Era il posto giusto, nascosto alla vista di quelli di casa sua. Guardò un’ultima volta la terrazza della casa di Elvira e la vide. Sorrise mentre la salutava con la mano. Anche Elvira lo salutò mentre spariva dietro ai fichi d’india.

Amalia Arnone aveva 11 anni e stava facendo pascolare una capra ad una cinquantina di metri da Fausto e vide tutta la scena dei saluti, poi il ragazzo scomparve anche alla sua vista.

Due detonazioni, una dietro l’altra. Amalia si mise a correre verso i fichi d’india mentre si alzanvano le urla dei familiari di Fausto che accorrevano. Quando la bambina arrivò sul posto vide Carlo Ruggiero, il padre di Fausto, che, raccoltolo da terra, lo portava in braccio dentro casa. Amalia si girò verso la casa dei Bison e li vide affacciati che guardavano il trasporto a casa del suicida, piangendo.

Arrivarono i Carabinieri, il Pretore ed il medico.

Il cadavere presenta sul quarto spazio intercostale, presso la regione cardiaca, una ferita sanguinante quasi ovale del diametro massimo di un centimetro circa, penetrante in cavità e ledente i ventricoli del cuore, ferita ch’è stata la causa unica della morte di lui – riferì il medico al Pretore, proprio mentre questi si accingeva ad interrogare il padre del suicida.

Verso le ore 9,30, mentre ero in procinto di recarmi in campagna ove insieme a me sarebbe dovuto venire mio figlio Fausto, fui scosso da due colpi d’arma da fuoco, tirati nelle vicinanze di mia casa. Senza perder tempo immediatamente uscii fuori per recarmi in direzione del luogo ove mi parve fossero partiti i colpi, attraversando quella porticina segreta che S.V. ha visto. Difatti a circa venti metri di casa ho visto mio figlio che gettava un’arma, dico meglio, ho visto mio figlio riverso sul suolo, ove suppongo sia scivolato dopo tiratisi i colpi… suppongo che mio figlio siasi suicidato a ridosso di una casetta adibita a stalla come Vostra Signoria ha potuto osservare. Credo che mio figlio ha scelto quel luogo, sia per nascondersi agli occhi di noi di casa e sia per farsi vedere dalla famiglia di tale Elvira Bison di Giovanni, con la quale mio figlio amoreggiava

– E l’arma?

L’arma con la quale mio figlio si uccise è un’arma di famiglia, trovata così alla rinfusa e senza che l’arma fosse stata da noi custodita, non essendovi in famiglia nessun bambino… mio figlio era ritornato dal prestar servizio militare il 26 febbraio ultimo. Appena qui arrivato mi sembrò che mio figlio si fosse allontanato dall’Elvira Bison, senonché dopo poco ripigliò le relazioni per le vive insistenze delle sorelle della Elvira, le quali suscitavano mio figlio a visitare la famiglia, pur mantenendo fredde relazioni con la Elvira. Io e tutti di mia casa eravamo contrari a quest’amore, sia perché mio figlio era quasi adolescente, senza alcun impiego e quindi in condizione di dover continuare gli studi

– Sembra quasi che stiate accusando la Bison, se non tutta la famiglia, di essere la causa, l’istigatrice del suicidio.

Io non ho prove per dimostrare che la famiglia Bison avesse spinto mio figlio al suicidio; dico solo che la predetta famiglia è rimasta qui in Cittadella, mentre che circa altri centotrenta profughi, ch’erano qui ricoverati, sono andati via. Suppongo che mio figlio sia stato spinto al suicidio per le pressanti, continue premure che la famiglia Bison faceva perché si fossero potuto stringere i legami di amore tra la Elvira e mio figlio. Credo che mio figlio avesse avuto l’animo determinato a suicidarsi e che i colpi se li sia tirati per uccidersi e non per attirare l’attenzione della gente di famiglia per impietosire e far si che si fosse accondisceso al di lui matrimonio con la Elvira. Aggiungo ancora che alcuni componenti la predetta famiglia dicevano “noi qui dobbiamo rimanere per far dispetto a qualcuno”.

Poi fu la volta di Elisa, la sorella maggiore di Fausto, che non la pensava come suo padre.

Mio fratello Fausto mi fece lezione preparandomi per un esame che dovevo sostenere. Mio fratello mi parve un pochino preoccupato, ma io non potevo immaginare e prevedere quello che sarebbe accaduto… Mio padre aveva intenzione di condurre con sé Fausto in campagna e mentre lo si cercava nelle stanze, udimmo alcuni colpi d’arma da fuoco esplosi in prossimità di nostra casa. Mio padre corse come corsi anch’io insieme a mia sorella Giuseppina. Alla mia vista Fausto gettò l’arma. Io cercai di sbottonarlo, ma nella commozione non vi riuscii, sicché insieme agli altri di famiglia trasportammo l’infelice mio fratello a casa.

– Credete che Elvira Bison lo abbia istigato a suicidarsi?

Escludo che la Elvira Bison, con la quale mio fratello amoreggiava, come gli altri di sua casa avessero spinto mio fratello al suicidio.

Vennero trovate le lettere e tutto sembrò più chiaro.

Alla famiglia:

Padre mio e cari tutti,

Ho sopportato troppo! I frizzi dei maligni ho noncurato ma debbo curare i vostri rimproveri e quelli audaci di zio Anselmo. Non credete però che io me li abbia presi a male, tutt’altro, ammiro anzi il bene che per me nutrite e gli alti sacrifizi… ma… inutilmente…

Amai una volta ingenuamente come un fanciulletto, tradii non so + come e ne soffrii tanto. Spinto dai vostri consigli e da quelli di tutti di famiglia, sacrificando il secondo amore, ritornai dal primo… E quantunque fosse un gioiello il primo, fui debole ancora e tradii di nuovo perché attirato (da affetto non da insidia) dal secondo…

Umile fanciulla, povera sì ma seria e buona, sventurata anche ma onestissima, maltrattata ma rispettosa. E molte ne ho sentite da maliziose lingue sul conto di lei e dei suoi ma niente è in realtà. A ragione preferisco una donna sorridente e franca ma forte… che una finta santa cascante.

A torto si sparlò sul conto di questa famiglia onesta e ben molto ne soffro quando le si addicono dei brutali e schifosi attributi che non meritano. Male non fanno e Iddio li proteggerà sempre. So bene che questo vile mio atto vi opprimerà e lascerà nel disperato dolore tutti, ma che fare? Tradire Elvira? No, meglio morire col suo nome sulla bocca e la sua visione dinanzi agli occhi! …

Non ho forza più di continuare. Mi avete detto che questa vita deve terminare, ebbene termini pure ma non voglio essere triplice traditore. Credo di non aver fatto tanto di male amando una povera ma onesta ragazza che ai miei pianti ha pianto.

Vi bacio per l’ultima volta, caro papà, la destra assieme alla nonna e a tutti gli zii. A te Peppa mia che per me tanto soffri prega per l’anima. Tu Lisa angelica non dimenticarmi, Elena affettuosa voglimi bene.

Ugolino ti bacio. Zie vi abbraccio tutte piangendo.

Pensate che ogni offesa ogni atto sgarbato verso Elvira è tutto rivolto a me.

                                                                                                                                 Fausto

 

p.s. Ai Palermo che perdoneranno la mia vigliaccheria i più cari saluti. Il rimorso non mi lascerà anche lontano…. Che fare? Perdonatemi!

 

Ad Elvira

Angelo mio,

tutti i frizzi della gente maligna e tutti i terribili rimproveri dei miei mi fanno tanto soffrire. Tutto sopporterei, più sopporterei di quanto ho sopportato per un anno e mezzo, ma tutto mi è contro. Mio padre e mio zio mi hanno detto che io debbo tralasciare tutto, ed io ho risposto che è impossibile. E siccome tu sei il mio angelo, l’amore che mi infiamma il cuore, non posso tradirti. Ti ho amato sempre fedelmente ed ora nulla potendo fare non ti tradisco, no, ma muoio…

non ho più forza. Mi ucciderò gridando: – Elvira t’amo pazzamente anche nel cielo, non dimenticarti di me ma prega per me …… –

Sii forte Viruzza mia, sopporta tutto e ricordati dei miei sospiri, delle mie lagrime e dei miei baci e di tutto… perché era tutto sincero, tutto affettuoso. I miei hanno minacciato di farvi del male ed ecco perché io muoio. Morendo per mio rispetto rispetteranno te! Sappi che io muoio col tuo dolce nome sulle labbra e col tuo bel viso, colla tua testa bionda e la cara tua pupilla nel mio sguardo.

Bacio tutti i piccoli, bacio i tuoi genitori che tanto stimo, saluto Cleope e Veronica, Stafanin Nicolì e Fedele ai quali direte che sono morto perché ti voglio bene troppo assai.

A te i più cari saluti, le più fervide strette di mano e i più caldi baci per l’ultima volta. Non importa, Elvira, se qua ci siamo sinceramente amati, nel Cielo ancor più ci ameremo!

Piango, soffro, vedo tutto che splende e fra poco tempo tutto si oscurerà.

Ricordami sempre… amami anche dopo la morte.

Il tuo infelice Fausto

 

No, non ci fu nessuna istigazione, il fascicolo fu archiviato e la famiglia Bison da Cavazuccherina poté finalmente tornare a casa.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.

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