L’ASSOLUTO RISPETTO DELL’IMENE

All’età di 20 anni il carbonaio Salvatore Politi di Molochio, in provincia di Reggio Calabria, rapisce e sposa per amore la sua coetanea Grazia Ricevuto. I primi tre anni di matrimonio, durante i quali nascono tre bambini, trascorrono in piena armonia. Nel 1934 Salvatore va in montagna in contrada Tre Croci per lavorare alla preparazione del carbone e qui stringe amicizia con Vincenzo De Maria, altro carbonaio che dimora colà in un pagliaio insieme alla moglie ed alla figlia nubile Angela di 26 anni, fidanzata con un cognato di Salvatore, il quale a sua richiesta è ammesso a dormire nel pagliaio composto di un unico vano. E qui cominciano i problemi perché tra i due giovani ben presto sorge una passione di natura prettamente sensuale, che causa in Salvatore una profonda alterazione nei riguardi degli affetti domestici. Diventa cupo, intrattabile, crudele; disprezza, ingiuria e maltratta la moglie, specialmente nei giorni in cui scende dalla montagna nell’abitato di Molochio, dove ha lasciato la famigliola. Le fa mancare gli alimenti necessari, la percuote, pretende che Grazia lo fornisca di abiti e di alimenti e non si da alcun pensiero dei suoi bambini, dei quali l’ultimo è ancora allattato dalla mamma.

Grazia sopporta i maltrattamenti con pazienza e rassegnazione, ma se se ne presenta l’opportunità non si trattiene dal manifestare il più profondo risentimento per il modo in cui è trattata. Però non lo denuncia perché teme la vendetta del marito e spera che le cose si rimettano pacificamente nel loro stato normale. Un giorno, poiché Salvatore non accenna a cambiare, anzi inferocisce sempre di più, incontrata la Guardia Municipale Francesco Crisafulli, si sfoga:

– Mi picchia continuamente – gli racconta mentre fa l’atto di sollevare la gonna per mostrargli le lesioni che le ha inferto il marito. Crisafulli, però, non le permette di continuare.

– Ferma! Che fate? Siamo su una pubblica via! – allora Grazia continua a lamentarsi del marito.

– Mio marito non mi dà da mangiare, mi bastona e mi ha portato a tale stato di disperazione che, se non fosse per i miei figli, preferirei che mi ammazzasse

– Dovete denunciarlo, andate dal Maresciallo e ci penserà lui.

Dovrei denunziarlo? Ma non sapete che mi ha minacciato di uccidermi se oserò denunziarlo? So poi che i parenti di Angela De Maria gli hanno detto: “Uccidi quella cagna rognosa di tua moglie!”.

In montagna, intanto, Salvatore e Angela si sono abbandonati alla loro passione carnale. Ma la giovane, virago autentica, è assai gelosa della sua verginità e quindi ha imposto all’amante l’assoluto rispetto all’integrità dell’imene. Salvatore, attratto dalle maniere procaci di lei, vorrebbe possederla ma, incapace di ribellarsi, accetta questa condizione onde i due, ogni qual volta  rimangono soli, o possono trovarsi in luoghi reconditi, sfogano la foia in atti di libidine, procacciandosi fremiti di lussuria con reciproca azione onanistica. Ovviamente rimangono insoddisfatti del piacere limitato di queste pratiche ed anelano agli amplessi completi. Ma come fare visto che Angela non cede? Si chiede Salvatore. Semplice, basta sopprimere il terzo incomodo, Grazia. E se questa è l’unica soluzione possibile, bisognerà metterla in pratica con tutta avvedutezza per evitare ogni responsabilità e, dopo la morte di Grazia, realizzare il loro sogno di unirsi in matrimonio e trovare finalmente pieno sfogo alla loro irrefrenabile libidine.

– Dobbiamo ammazzarla, solo così sarò libero e potremo sposarci – le dice mentre si accarezzano voluttuosamente.

– Hai ragione, dobbiamo farlo – concorda Angela, sicura che i suoi genitori le avrebbero dato il consenso pel matrimonio con Salvatore, da essi benvoluto.

Presa la decisione, i due amanti pensano a come metterla in pratica e subito concludono che il modo migliore è il veneficio che si potrà eseguire facilmente ed occultare senza grandi sforzi, col solo sussidio di infingimenti e di opportune simulazioni. A parole, perché bisognerà procurarsi il veleno e non sarà facile senza destare sospetti. Ma, qualche giorno prima della festa di San Vito, ecco che Salvatore ha l’idea buona: andare in una farmacia di Oppido Mamertina fingendosi un contadino della frazione di Piminoro e convincere un farmacista a vendergli un paio di bustine di veleno, dicendogli di averne bisogno per spargerlo, dopo averlo mescolato con sostanza di maggior volume, sul terreno destinato alla coltura del grano, al fine di uccidere i topi. Il farmacista ci casca e Salvatore torna trionfante in montagna con le due bustine di fosfuro di zinco e piombo. L’occasione propizia per avvelenare la povera Grazia arriva il 15 giugno, proprio il giorno della festa di San Vito. Salvatore, accompagnato da Angela, torna a casa in paese e porta anche un paio di bottiglie di gazzosa. Grazia è praticamente costretta a preparare la cena anche per l’amante del marito, insolitamente calmo e pacifico. Tutti e tre mangiano e, soprattutto, bevono in armonia finché Grazia non diventa alticcia.

– Beviti una gazzosa ché ti sentirai meglio – le dice Salvatore, porgendole un bicchiere nel quale oltre alla gazzosa ha versato una intera bustina di veleno.

Grazia prende il bicchiere e lo porta alle labbra, ma appena il liquido le entra in bocca, con una smorfia di disgusto lo sputa e butta il contenuto. Tentativo fallito, ma ai due amanti rimane l’altra bustina. Riprovarci subito? No, non è il caso perché non sono sicuri se Grazia ha capito che hanno cercato di ammazzarla e insistendo potrebbe mettersi ad urlare e richiamare gente. Così, facendo finta di nulla, terminata la serata se ne tornano in montagna e nascondono la bustina di veleno sotto una pietra presso le radici di un faggio. No, Grazia non si è accorta di niente e continua ad andare e venire dalla montagna per trasportare carbone. Bene, ma adesso bisogna trovare un altro modo per toglierla di mezzo, perché è impensabile riprovarci col veleno.

Pensa che ti ripensa, trovano un altro sistema altrettanto valido, se non addirittura migliore: farla precipitare da una balza sita in contrada Timpa Infarinato, balza sovrastante a perpendicolo ad un profondo burrone ed alta più di 200 metri. Facendola cadere da lì non avrebbe certamente scampo e la cosa apparirebbe certamente come un tragico incidente. Hanno in mente anche il punto preciso, ma preferiscono fare un sopralluogo e, esaminato il viottolo che corre lungo l’orlo del precipizio, scelgono il punto più idoneo allo scopo, proprio quello a cui avevano pensato.

– Faremo così – propone Angela – tu la condurrai con l’inganno sulla balza e la spingerai nel baratro.

– Io… io non me ne sento il coraggio… – frigna Salvatore.

– Lo farò io, basta che me la porti in montagna! – gli dice con disprezzo, assumendo su di sé l’impresa.

Da quando i due amanti hanno progettato l’orrenda fine di Grazia Ricevuto è passato poco più di un mese e lei continua il suo viavai dalla montagna. La sera del 28 luglio 1934 Salvatore, nel rimandare la moglie a Molochio, le ordina di risalire in montagna il mattino successivo e precisamente nella località detta Faggio, perché lì avrebbe trovato un sacco di carbone da trasportare in paese, sacco che le sarebbe stato consegnato da Angela De Maria.

La mattina dopo, verso le 10,00, Grazia è sul posto indicato, dove c’è solo Angela senza il sacco di carbone.

– Non hanno fatto in tempo a prepararlo, io sono venuta per avvisarti che puoi tornare a casa, però prima ti volevo parlare di una certa cosa… – così dicendo la prende sottobraccio continuando a parlare e con noncuranza comincia a percorrere il viottolo impervio che rasenta il precipizio, facendo attenzione di collocarsi dal lato a monte per avere, così, tutto l’agio di dare lo spintone con piena sicurezza di far precipitare l’odiata rivale nel baratro. Quando arrivano nel punto designato Angela si gira di scatto e spinge violentemente Grazia facendola precipitare. Un grido, uno solo, mentre la vita le scorre davanti agli occhi nei pochi secondi necessari affinché si sfracelli sulle rocce.

Angela, sicura del fatto suo, si dà a cantare a squarciagola, mezzo prestabilito per avvertire l’amante che proprio in quel momento il delitto è stato consumato. Poi va in contrada Tre Croci per incontrare Salvatore e raccontargli tutto:

– È andato tutto come previsto – gli dice abbracciandolo, mentre si sdraiano all’ombra di un faggio – e nessuno ha veduto nulla.

Ma poco dopo vengono sorpresi, ancora sdraiati in posizione equivoca mentre discorrono, da una pattuglia dei Carabinieri guidata dal Maresciallo Sirtori.

– Che fate qui in modo equivoco? State dando scandalo in vicinanza di un viottolo pubblico! Andate via!

– Non facevamo nulla di male… – risponde Salvatore con un filo di voce, pensando che gli è andata bene perché i militari non hanno sentito niente di compromettente. Poi aiuta Angela ad alzarsi e se ne vanno il più in fretta possibile.

Le ore passano e Grazia non ritorna a casa. All’ora di cena, l’amica alla quale ha affidato i bambini ed alla quale ha detto che, comandata dal marito, sarebbe andata in montagna per trasportare un sacco di carbone, comincia a preoccuparsi seriamente e comincia a chiedere agli altri vicini se l’abbiano vista. No, nessuno sa niente, così di voce in voce e di casa in casa la preoccupazione diventa allarme perché è chiaro che le è successo qualcosa. Vengono informati i Carabinieri e partono subito le ricerche. A tarda ora due paesani accompagnano in montagna la madre e due zie di Angela De Maria per accertarsi se Grazia sia rimasta nel pagliaio dove dorme il marito.

– Qui non l’abbiamo vista, né stamattina e né dopo – assicura Angela e verso mezzanotte la comitiva, alla quale si aggrega anche Salvatore, riprende il cammino verso il paese.

– Ho perso il berretto, andate avanti, vi raggiungo subito – dice Salvatore dopo poche decine di metri.

– Mi sembra di avere visto un berretto laggiù, vicino ad un faggio – gli dice uno della comitiva.

Accidenti, è vero! Deve averlo dimenticato quando è stato sorpreso dal Maresciallo e potrebbe essere un problema serio. Allora corre al pagliaio per farsi indicare il luogo esatto da Angela, ma è anche l’occasione buona per fare il punto della situazione:

– Se i Carabinieri dovessero interrogarti devi dire sempre di non sapere niente e negare tutto. Hai capito? – dice Salvatore all’amante – qualsiasi rivelazione ti venisse in mente di fare, anche se gli sbirri dovessero maltrattarti, io ti ammazzo! Hai capito?

Pare aver ritrovato il coraggio che gli è mancato quando doveva ammazzare sua moglie.

Vuoi o non vuoi, in tutto il mondo due più due fa sempre quattro e non ci vuole molto per immaginare che la scomparsa di Grazia deve essere la conseguenza della sua morte, sicuramente violenta. E chi può volerla morta se non il marito e l’amante? I Carabinieri pongono i due agli arresti, ma si spingono oltre arrestando anche i genitori della ragazza e le due zie che sono arrivate per prime al pagliaio, col sospetto che siano pesantemente implicati nella faccenda.

Le battute in montagna si susseguono per sei giorni, poi la mattina del 4 agosto, una pattuglia dei Carabinieri, attirati dall’odore della putrefazione, rinvengono il cadavere martoriato di Grazia Ricevuto. E non è un bello spettacolo. Per sei giorni esposto agli agenti atmosferici ed agli animali selvaggi, il cadavere presenta colorito bruno scuro, mentre la pelle è in sfacelo e cosparsa di moltissimi vermi a causa della putrefazione avanzatissima. Le ossa delle braccia e della volta cranica sono fratturate; la cavità addominale e toracica sono aperte per la caduta o per morsi di animali selvaggi e gli organi interni si presentano in completo disfacimento.

Chiusa nella sua cella, Angela si rende conto del male che ha fatto e, non potendo ulteriormente contenersi, confessa tutto nei più minuti particolari e indica anche il punto preciso dove era stata nascosta la seconda bustina di veleno.

– Io sono estraneo ai fatti – si difende Salvatore.

– Ammetti di dormire nel pagliaio di Vincenzo De Maria, dove dorme anche sua figlia Angela?

– Si.

– Sapevi che Angela era fidanzata con un fratello di tua moglie e che a causa delle cattive notizie su Angela ruppe il fidanzamento?

– Si.

– Ci risulta che i genitori di Angela, la tua amante – a questa parola Salvatore ha come un fremito, poi si ricompone –, dissero che se tu avessi ottenuto la separazione personale dalla tua povera moglie, essi ti avrebbero permesso di coabitare con la figlia, more uxorio, e le avrebbero assegnato duemila lire per le spese della vostra sistemazione. È così?

– Si.

– Hai comprato tu le bustine di veleno?

– Si e le ho consegnate ad Angela che quella stessa sera, mentre ero uscito per attendere ad un bisogno corporale, tentò di avvelenare mia moglie con una cartina sciolta nella bottiglia di gazzosa, ma non ci riuscì… – poi aggiunge – sono stato presente ad un discorso tra Angela e suo padre, durante il quale domandava a sua figlia: “è venuta all’appuntamento?” ed Angela gli rispose: “si e così come avevate detto, io l’ho spinta da un ciglio della montagna, giù nel burrone”. Io intervenni rimproverando ai due la strage di mia moglie, ma Vincenzo De Maria mi minacciò con una scure, poi mi allettò al silenzio con le parole: “sta tranquillo perché tu sposerai mia figlia, alla quale darò duemila lire e provvederò anche agli orfani”. Sono stati loro, io non c’entro, lo giuro!

Sono meravigliata che continui a negare, quando le prove contro di noi sono ormai irrefutabili e quando solo il castigo della Giustizia può in qualche modo calmare le nostre coscienze! – esclama Angela quando le leggono la dichiarazione del suo amante.

L’ossessione di Angela a serbare l’integrità vaginale ha in lei tale forza da indurla a farsi esaminare da un perito, che constata che è vergine e non presenta neanche traccia di violenza carnale contro natura.

Il 18 maggio 1935 viene emessa la sentenza di rinvio a giudizio per i due (ex) amanti con l’accusa, tremenda come ciò che hanno fatto, di omicidio pluriaggravato e solo per Salvatore Politi anche di sottrazione agli obblighi inerenti alla sua qualità di coniuge e di maltrattamenti nei confronti della moglie. I genitori e le zie di Angela, invece vengono prosciolti per non aver commesso il fatto.

Politi (ozioso, vagabondo, privo di senso morale) era più che sicuro del fatto suo, giacché egli nulla mai avrebbe rivelato a chicchessia mentre, con minacce continue, avrebbe costretto Angela De Maria a tacere. Quindi, se il cadavere della moglie fosse stato in seguito rintracciato, si sarebbe dovuto ritenere che ella fosse caduta dal precipizio senza colpa di alcuno ed il fatto sarebbe passato inosservato, tale piano sarebbe per avventura riuscito, se non fosse stato per le condizioni d’animo della De Maria la quale, non avendo dopo tante  e sì forti emozioni la forza di sottrarsi ulteriormente, confessò il fatto mettendo in piena luce tanto la propria responsabilità che quella dell’amante. Con queste poche e chiare parole la Corte spiega il ruolo e la strategia dei due nell’orrendo omicidio di Grazia Ricevuto. Poi continua:

Avuto riguardo al movente del delitto, al fine che gli imputati si proponevano di conseguire, ai mezzi adoperati, all’evento ottenuto, non è lecito dubitare del fine omicida da cui furono mossi. Rimane assodata l’aggravante della qualità di coniuge della vittima, mentre non sussiste l’altra aggravante della privata difesa ostacolata, giacché la solitudine del luogo e l’ubicazione della balza sono elementi costitutivi dell’altra aggravante della premeditazione, la quale è connaturata nel fatto e risulta evidente in tutti i particolari di esso. Tutti gli atti da essi compiuti attestano quel di più di maligna riflessione e perfidia che caratterizza la premeditazione e dimostrano la costanza con cui il piano criminoso fu da essi mantenuto e fu portato a perfezione sino al momento dell’esecuzione mediante un sagace, tenace e paziente lavorio per stabilire il tempo, il modo, i mezzi di esecuzione e la condotta da serbare a fine di assicurarsi l’impunità. Pertanto l’omicidio deve essere punito con l’ergastolo per entrambi gli imputati. Esuberanti prove sono emerse a carico di Politi in ordine ai reati di maltrattamenti in offesa della moglie e di sottrazione agli obblighi dell’assistenza familiare e per tali reati deve infliggersi una pena che stimasi giusto fissare in anni tre per i maltrattamenti ed in anni uno per l’altro delitto e così, in totale in anni quattro. Di essi vanno condonati anni due in virtù dell’indulto concesso con R.D. 25settembre 1934 n. 1511 ed i rimanenti due anni, messi in concorso con l’ergastolo, si convertono in isolamento diurno , la cui durata può giustamente determinarsi in mesi sei.

La sentenza deve essere pubblicata mediante affissione nei comuni di Palmi e Molochio e mediante inserzione per una sola volta ne Il Giornale d’Italia. È il 18 ottobre 1935.

Il 13 marzo 1936, la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Salvatore Politi e rigetta quello di Angela De Maria.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Palmi.

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