NEL BORDELLO DELLA TUGNINA

A 17 anni, precisamente nel 1902, Alfredo Andreani fa la sua prima visita nella casa di prostituzione tenuta da Antonietta Di Costanzo, soprannominata la Tugnina, in Via Borgogna 9 a Reggio Emilia. Lì, tra le tante altre, nota una ragazza e la sceglie per passare dall’adolescenza all’età adulta.

– Quella, voglio quella – la indica col dito alla tenutaria.

– Violetta, vien qui – la chiama quasi sussurrando.

Violetta in realtà si chiama Carlotta Carretti, è milanese e ha 22 anni. I due salgono in una delle stanze al primo piano e per Alfredo è come toccare il cielo con un dito. Da questo momento ha un pensiero fisso, correre dalla sua Violetta appena gli è possibile e per parecchi mesi la frequenta con fervore erotico-sentimentale.

Ma sul più bello dell’idillio si accorge di essere infetto di sifilide e poiché non avvicina, così dice, carnalmente altra donna all’infuori di Violetta, riconosce in lei la causa della sua malattia.

Comincia la via crucis dei ricoveri in ospedale: la prima volta ci resta per 32 giorni, dal primo settembre al 2 ottobre 1902. Uscitone migliorato, deve tornare quasi subito per la comparsa di un ascesso suppurato al piede sinistro che, gli viene detto, è un’altra conseguenza della sifilide contratta. Nello stesso tempo perde gran parte dell’udito e comincia a soffrire di attacchi convulsivi.

Or più or meno, tali mali lo tormentano senza aver mai completa requie. Verso il mese di giugno del 1906, anzi, deve consultare un luminare, il dottor Petrazzini.

– Si tratta di sifilide cerebrale… noto anche una lieve paresi facciale con deviazione dell’angolo della boccase non ti fai curare subito ed energicamente il tuo caso può essere grave

Poi un nuovo ricovero in ospedale, dal 7 novembre al 30 dicembre 1906.

La lunga odissea di queste sue sofferenze ha fatto si che Alfredo accumuli dentro di sé un odio atroce verso la sua ex amante, intanto lontana e sperduta.

Ma Violetta torna a Reggio Emilia nella casa di tolleranza della Tugnina il 20 gennaio 1907 e il caso vuole che, proprio quel giorno, nel bordello ci sia il fratello di Alfredo, come questi frequentatore assiduo di postriboli e bettole.

– Questa non ci voleva proprio – dice ad un amico – temo tristi conseguenze perché Alfredo mi pare essere, nella condizione di esser stato da lei infettato di sifilide, ben fisso nell’idea, incontrandola, di prenderne vendetta

Forse basterebbe non dire a nessuno di casa che Violetta è tornata, ma non resiste e lo rivela a sua madre. Ma la buona donna, imprudentemente ed in modo, si potrebbe dire, quasi tentatore, durante la cena dice ad Alfredo:

Sai, è ritornata dalla Tugnina quella del “famoso ricordo” – alludendo con grazioso eufemismo alla malattia che rode il figlio.

Va bene, così vado a trovarla ed a darle due schiaffi… – risponde quasi indifferente.

– Ma vai a letto, che dici! – lo rimprovera sua madre.

Poi, finita la cena, senza dire nulla Alfredo esce e va a casa di suo cognato dove si mette a rovistare tra i ferri del mestiere di questi e mette qualcosa in tasca, quindi va al solito posto, dove sa che troverà i suoi amici per bere un bicchiere nell’osteria del Vicolo del Clemente. Il vino li fa allegri e così tutti insieme, Alfredo in testa, decidono di andare al bordello della Tugnina. Sono le 21,30 del 20 gennaio 1907.

La luce è soffusa, l’aria piena di fumo. All’estremità dell’atrio d’ingresso e di fronte alla porta, si hanno a destra l’entrata della cucina ed a sinistra le scale ai due piani superiori. In cucina il caminetto è acceso e due o tre ragazze si stanno scaldando. Una di loro è Violetta.

– Buona sera Violetta – la saluta, sedendole accanto – vieni su in camera?

– Buona sera Alfredo, no… stasera no… sono appena arrivata da Genova e sono stanca del viaggio

– Dai, che ti costa?

– No… non ho ancora subito la dovuta visita sanitaria per avere libera pratica

– Dai… non se ne accorge nessuno, pochi minuti… – così la ragazza, apaticamente, prende un lume e si avvia su per le scale verso una camera del secondo piano.

Alfredo la segue. Violetta apre la porta e tutti e due entrano. Lei va verso il letto per posare il lume sul comodino.

Chi m’avrebbe detto che dopo cinque anni saresti stato tu per la prima sera a venirmi a trovare? – gli dice girandogli le spalle.

Alfredo mette la mano in tasca e toglie un’appuntita lima triangolare, l’oggetto preso nella bottega di suo cognato, e comincia a tempestare di colpi la misera ragazza. Tenta addirittura di conficcarle la lima nei genitali, mentre la ragazza urla chiedendo aiuto e cercando di ripararsi, poi cade a terra e i colpi continuano a martoriarla.

– Finalmente mi sono vendicato per quello che mi hai fatto… ho pensato tante volte di fartela, ma non mi è mai riuscito! – le urla mentre la serva del postribolo, la prima ad arrivare sul posto, si avventa su di lui, lo prende per il bavero della giacca e lo tira via.

Alfredo si arrende, come prostrato, e si lascia spinger fuori dalla stanza, poi di corsa scappa, scendendo le scale a precipizio e filando via per le vie deserte della città, seguito da alcuni dei suoi tristi amici. Stringe ancora in mano l’arma e non sembra commosso, né pentito per ciò che ha fatto. Poi si ferma alla fontana davanti alla chiesa di San Giacomo dove si lava le mani e lava la lima, quindi a casa di suo cognato per rimetterla a posto. La notte è ancora lunga e dopo tutte queste emozioni ci vuole un altro bicchiere, così Alfredo e i suoi amici tornano alla solita osteria per bere sul bevuto. E tutti ancora sulla strada per andare alla tipografia dove Alfredo lavora e salutare gli operai suoi compagni del turno di notte.

Carlotta Carretti, in arte Violetta, intanto continua ad urlare ed a gemere, spargendo molto sangue da numerosi punti del corpo. Avuti i primi soccorsi dai presenti, poco dopo viene portata in ospedale, svenuta ed in gravi condizioni.

Mentre i medici si prodigano per salvare la vita della ragazza, Alfredo, rimasto da solo con suo fratello, incontra il reporter di un giornale cittadino che sta tornando dall’ospedale ove si è recato per avere notizie della misera prostituta ferita. Riconosciutolo, lo ferma e gli chiede notizie, quindi saluta suo fratello ed il giornalista, cominciando a vagare da solo per le strade buie, che man mano si vanno rischiarando con le prime luci dell’alba. Poi va dai Carabinieri per costituirsi:

– Mi ha lasciato un bel ricordo! Le ho dato il primo colpo alla schiena e quando era caduta a terra, tirandola giù alla cieca senza saper dove, tanto che tirai un colpo anche a me stesso… – dice mostrando un piccolo foro al lato sinistro della giacca che indossa, poi continua – Violetta gridava… vedevo buio e non sapevo cosa facessi, come destato da un sogno mi scossi quando mi sentii afferrato per il bavero della giacca. Grida, frastuono, accorrere di gente; vidi che Violetta non era morta, alcune persone la adagiavano sul letto. Io raccolsi il cappello ed incontrai nel corridoio una prostituta, detta Bianca, la quale esclamò: “Oh! Dopo cinque anni ti sei vendicato!”. Uscii a precipizio, feci le scale di volo, all’ultimo rampante scivolai e ruzzolai fino in fondo. Trovai, allibiti, i miei compagni alla porta… ci allontanammo senza parlare… pioveva a dirotto, rimasi solo e fuori Porta Santa Croce ebbi la tentazione di aspettare il passaggio del treno per buttarmi sotto. Pensai a mia madre e mi allontanai da lì…

– Lo hai fatto per ucciderla? Avevi manifestato le tue intenzioni ai tuoi amici? – gli chiede il Maresciallo Menozzi.

Ai miei compagni avevo detto che volevo andare a dare due schiaffi a Violetta, ma veramente avevo l’intenzione di ucciderla in causa della malattia che mi aveva attaccato. Questa intenzione mi era maturata nell’animo fino dal momento in cui mia madre mi aveva avvertito della presenza di quella donna a Reggio

Carlotta Carretti è grave, ferita da 34 colpi di lima, ma è lucida e riesce a rispondere alle domande che gli inquirenti le pongono:

– Lui dice che l’ho infettato, ma io non so di essere stata ammalata, anzi ebbe anche rapporti con me un suo fratello che rimase immune da tal male… il primo colpo me lo diede in direzione del cuore, poi mi tempestò di altri colpi anche quando ero caduta a terra e non ostante le mie grida egli continuava a penetrarmi con l’arma, tentando persino di tagliarmi la natura

Alfredo in carcere comincia a stare male e, il 29 gennaio 1907, il Direttore scrive al Procuratore del re:

Il giudicabile Andreani Alfredo dal giorno in cui è entrato in queste carceri è stato preso per ben sette volte da convulsioni epilettiche di tale natura da renderlo pericoloso a sé ed agli altri.

Rivolgo alla S.V.Ill.ma vivissima preghiera perché voglia compiacersi  disporre con cortese sollecitudine il ricovero dell’Andreani in un Manicomio.

Ed in attesa che venga presa una decisione, dall’ospedale arrivano brutte notizie: il 3 febbraio Carlotta muore per la setticemia sviluppatasi nel cavo pleurico ed al polmone di sinistra, intaccati da uno dei 34 colpi di lima. Adesso si procede per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.

Quattro giorni dopo, il 7 febbraio, viene disposto il ricovero di Alfredo Andreani nel manicomio giudiziario di Reggio Emilia per essere sottoposto a perizia psichiatrica.

L’Andreani ha difettoso sviluppo fisico congenito: alto come un ragazzo di 12 anni, dal viso candido e quasi per tratti gentile, colla zazzera bionda e due piccoli baffetti torti all’insù. D’indole non era cattivo: a periodi si è mostrato operoso e diligente al lavoro. Ha imparato a leggere e scrivere; è sufficientemente intelligente, ma gli è sempre stato riconosciuto un carattere alquanto leggero, frivolo e talvolta persino puerile. Appena giovinetto si è dato a frequentare osterie e postriboli, prediligendo la compagnia di soggetti scioperati. L’istinto sessuale è in lui attivissimo, egli brama l’appagamento carnale per sé, non ha ombra di culto per la donna, ma intenso entusiasmo per la femmina.

Così lo descrivono i periti, mentre Alfredo racconta di sé: Quando avevo 13 anni ero garzone di barbiere. Un giorno, trovandomi in bottega, senza alcun motivo spiegabile, venni colto improvvisamente da un male per cui caddi in terra perdendo la coscienza. Mi ricordo che, senza saper come, mi trovai, dopo non so quanto tempo, coricato nel mio letto. Da quest’epoca debbo avere avuto altri accessi, ma durante il sonno. Vi erano delle notti che orinavo il letto ed il mattino mi trovavo colle labbra morsicate e sanguinanti. A 14 anni mi detti con fervore alla masturbazione. Trovai un altro garzone di bottega, a me coetaneo, col quale mi detti a praticare la masturbazione reciproca: ci appartavamo in uno stambugio per fare la prova a chi faceva più presto. Ma presto altri piaceri m’attrassero: a 15 anni bevevo lietamente del vino fino a prendere delle solenni sbornie; mi piaceva anche la grappa e nel corso della giornata ne ingollavo non pochi bicchierini. Poi venne la donna. Nel gennaio del 1902, quando contavo 17 anni, oltrepassai per la prima volta la porta di un postribolo: Violetta fu la mia prima amante… – e sembra del tutto evidente che gli attacchi epilettici siano iniziati alquanto prima di contrarre la sifilide.

Poi i periti parlano della loro osservazione in manicomio: Intorno al delitto egli parla con indifferenza, come di cosa di poca importanza, e nulla nasconde circa le cause che lo condussero ad uccidere. Si preoccupa unicamente della sua malattia ed ebbe, sotto la nostra osservazione, alcuni accessi epilettici incompleti, consistenti in fenomeni di stordimento e di vertigine con incoscienza momentanea. Il suo contegno rimase sempre alquanto stravagante: desiderava la compagnia dei soggetti più indisciplinati, cercava di parlare con ragazze che si affacciavano ad una terrazza in vista di qualche finestra dello stabilimento. Allontanato da una cella da cui si vedeva il terrazzo, seguitò a chiamare a gran voce le ragazze, che gli rispondevano eccitandone sempre più l’animo. Trovato modo di impedire che le sfrontate seguitassero il gioco, egli apparve dolente, irritato, indispettito. Il suo delitto intanto non lo preoccupava mai seriamente e seguitava a mantenersi senza rimorsi e senza rimpianti. Gli accessi intanto venivano scemando di intensità e di frequenza ed ora è da parecchio tempo che non si sono più presentati. In questi ultimi tempi, forse per istintivo bisogno di difesa, egli modificò alquanto la narrazione dei particolari del suo delitto, studiandosi, forse anche dietro suggerimenti altrui, di eliminare alcuni dati ed elementi che si avrebbero potuto riferire alla premeditazione.

Poi concludono: l’Andreani, figlio di un alcoolista grave, che è morto al manicomio di delirium tremens, è nato gravemente predisposto, portando su di sé, come marchio d’origine, due profonde stigmate, la rachitide, per cui il suo fisico è rimasto nano ed esile, e la convusionabilità epilettica.  Poi a sua volta è diventato un alcoolista e, incorrendo in turpi amori, è rimasto subito contagiato di sifilide. Questa tremenda, ultima infezione ha modificato, lentamente ma inesorabilmente, il suo organismo somatopsichico. Il suo crimine è stato compiuto quando egli era in corso di gravi fatti di encefalopatia sifilitica secondo-terziaria e sotto l’azione di copiose libazioni alcooliche e ha avuto caratteri ed esponenti di passionalità morbosa automatica. Deve quindi ammettersi che nell’esecuzione del reato egli abbia agito in uno stato di alienazione di mente tale da scemare grandemente la sua imputabilità, senza escluderla. Con la scomparsa dell’oggetto del suo odio, Andreani ha perduti certamente i principali motivi della sua pericolosità attuale, ma per l’avvenire non si possono fare previsioni sicure sul suo conto. È il 27 maggio 1907.

La causa può continuare, sebbene segnata dalla diagnosi, e nell’attesa del dibattimento fissato per il 26 maggio 1908 presso la Corte d’Assise di Reggio Emilia, viene deciso che l’imputato resti ricoverato in manicomio.

Il 27 maggio la Giuria emette il suo verdetto: Alfredo Andreani ha commesso il fatto senza averlo premeditato ed in uno stato di mente tale, sia per le patologie che gli sono state diagnosticate in manicomio e sia per ubbriachezza volontaria, da scemare grandemente la sua imputabilità, senza escluderla. Tradotto in cifre fanno 4 anni, 2 mesi e 5 giorni di reclusione, più pene accessorie.

L’11 agosto 1908 la Corte di Cassazione rigetta il ricorso dell’imputato.[1]


[1] ASRE, Processi Penali.

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