A SANGUE FREDDO

Tra il 1938 e il 1940 una serie impressionante di reati contro il patrimonio scuote la tranquillità di San Pietro in Amantea. Per la verità i Carabinieri sospettano che oltre alle decine di furti denunciati senza che si riesca a individuarne i colpevoli, ce ne siano altrettanti che non sono stati nemmeno denunciati. I Carabinieri hanno dei sospetti su di una combriccola di ladri del paese, composta sicuramente da Agostino Natale Gatto, Salvatore Veltri e Nicola Bombardieri, ma non riescono ad incastrarli. Poi nella primavera del 1940 deve accadere qualcosa all’interno della banda di ladri perché il 23 maggio Gatto si presenta prima dal podestà del paese e poi dai Carabinieri di Amantea e confessa di avere personalmente partecipato a molti furti e truffe insieme a Salvatore Veltri e Nicola Bombardieri e di sapere che gli autori dei furti ai quali non ha partecipato personalmente sono i suoi due compari.

In particolare descrive la figura di Nicola Bombardieri:

È uno fino, non lo pescano mai… possiede una cinquantina di chiavi false e ha un nascondiglio sotterraneo ove nasconde la refurtiva

I Carabinieri conoscono benissimo Bombardieri per il suo lunghissimo curriculum criminale e sanno che è scaltrissimo. Egli spesso minaccia di morte chi tenta di accusarlo perché, lui dice, “la mia vita è breve”. Infatti è affetto da seria malattia tubercolare, a causa della quale il 12 marzo 1939, richiamato alle armi per addestramento, fu riformato.

Nato da genitori ignoti il primo agosto 1901, Bombardieri fu condotto nell’America Latina donde ritornò in San Pietro in Amantea nel 1911 o 1912. Dedito ai furti e poco amante del lavoro, nel 1921 fu la prima volta condannato a 7 mesi di reclusione per furto. Nel 1923 sposò Domenica Ianni, da cui ebbe un primo figlio, Giulio. Nel 1924 o nel 1925 emigrò in Buenos Aires, dove per nove o dieci anni visse lussuosamente di imprese delittuose e diede tanti fastidi a quella Polizia che nel 1935 fu rimpatriato con foglio di via obbligatorio. Ritornato nel suo paese ebbe un altro figlio e continuò a vivere di espedienti.

Poi la chiamata in correità del suo compare Gatto e, di conseguenza, il carcere.

Tra tutti i furti addebitati da Gatto a Nicola Bombardieri c’è anche quello ai danni di Matteo Caruso, che abita a qualche diecina di metri da lui.

Racconta il settantaduenne Matteo. È il 18 giugno 1940.

Il 31 luglio 1938, mentre io ed i miei familiari ci trovavamo sull’aia a trebbiare il grano, Nicola Bombardieri, che abita a circa 50 metri di distanza, dopo aver forzato una finestra penetrò in casa e aprì, forzando le serrature, due bauli americani asportando alcuni buoni postali fruttiferi per 10.500 lire, una cambiale di 2.000 lire ed un buono di 3.000 lire. Denunziai subito il fatto contro ignoti perché allora non avevo elementi a carico del Bombardieri, ma mia nipote, ritornando da Amantea, vide che sul campo vicino erano la moglie ed il figlio di Bombardieri… Dopo qualche giorno Bombardieri mi chiamò a casa sua, mi mostrò i buoni e gli altri oggetti rubati e mi chiese per la restituzione 300 lire. Gli risposi che non gli avrei dato nulla e che avrei chiesto il duplicato dei buoni, al che Bombardieri mi restituì i buoni ingiungendomi di andare a dire ai Carabinieri di averli trovati per terra avanti la stalla e minacciandomi di morte e distruzione me ed i miei figli nel caso avessi detto la verità. Per la mia tarda età e per la paura che un tipo come Bombardieri, ritenuto capace di ogni delitto, può ingenerare, riferii ai Carabinieri di aver rinvenuto i buoni dinanzi la stalla. Ora che Bombardieri è stato tratto in arresto non esito a dire la verità. Preciso che la cambiale e il buono da 3.000 lire non mi sono stati restituiti.

E per il racconto di Matteo Caruso nei guai finiscono anche la moglie ed il figlio di Bombardieri.

Mi protesto innocente di tutti i reati che mi contestate – attacca Nicola Bombardieri quando viene interrogato -. Quanto al furto in danno di Matteo Caruso, che l’allora comandante interinale della stazione dei Carabinieri di Amantea, venuto subito dopo il fatto a casa mia per indagini, mi trovò in preda ad una grave emottisi e quindi in condizioni tali da escludere la mia partecipazione al delitto

Poi accade un fatto allarmante: il 13 settembre 1940 arriva a Matteo Caruso una cartolina postale speditagli da Nicola Bombardieri dal carcere di Cosenza, dove è detenuto:

Carissimo Zio Matteo, al ricevere questa mia, credo che ti sorprenderà sia avvoi come anche a vostro figlio Raffaele. Non dimenticate il passato perché io sono tuttora un vero galantuomo, ma se pagate con altra moneta che non corrisponde affatto a quella che pago io, ve ne pentirete amaramente e non mi addebitate la colpa perché e vostra. Voi mi capite bene, a buono intenditore poche parole bastano. Voglio sperare che fate il vostro dovere e me lo auguro che lo contrario saprò io a che cosa attenermi. Non mi prolungo nei saluti a Elena De Grazia, come faccio a vostro figlio Raffaele e pensatevela bene che è il vostro sacrosanto dovere.

Saluti

Nicola

Una vera e propria minaccia.

Il 7 novembre 1940, il Giudice Istruttore ritiene sufficienti le prove raccolte e rinvia al giudizio del Tribunale Penale di Cosenza i tre compari, più la moglie ed il figlio di Nicola Bombardieri.

Il 13 gennaio 1941 Veltri e Gatto vengono condannati a 4 anni di reclusione, più pene accessorie, mentre Nicola Bombardieri prende 5 anni e 4 mesi;  la moglie ed il figlio di Nicola Bombardieri vengono assolti.

Per effetto del decreto di amnistia ed indulto dell’ottobre 1942, Bombardieri ottiene il condono di tre anni di reclusione e viene scarcerato, continuando a darsi da fare con la sola cosa che sa fare: rubare [1].

Il 23 ottobre 1945 Matteo Caruso subisce un altro furto. A sparire, questa volta, sono 53.500 lire, quattro soppressate e due lenzuola. Siccome le modalità del furto sono simili a quello subito nel 1938, i suoi sospetti e quelli dei Carabinieri cadono subito su Nicola Bombardieri, che viene subito arrestato e processato. Ma questa volta i giudici ritengono che le prove non siano sufficienti e viene assolto.

Appena scarcerato, Nicola Bombardieri concepisce l’idea di estorcere alla famiglia Caruso 22.00 lire.

– Zio Matteo, voi mi avete denunciato ingiustamente e voi adesso mi dovete pagare le spese dell’avvocato… ventiduemilalire mi dovete dare, avete capito?

– Io non ti do proprio niente!

– Ah! Non mi date niente? E allora me le daranno i vostri figli!

– Non hai capito, né io e né i miei figli ti daremo soldi perché tu sei stato a fare il furto e solo la difficoltà di trovare prove piene ti ha evitato la giusta condanna!

– E va bene… mi regolerò a modo mio… statevi bene!

La decisione del patriarca viene condivisa e sostenuta da tutta la famiglia e, a partire da questo momento, Nicola Bombardieri concepisce e matura il proposito di fare strage della famiglia Caruso e con paziente, tenace e sagace preordinazione ne prepara l’esecuzione con l’animo sordo ad ogni motivo inibitorio e ad ogni elementare senso di socievolezza, pervaso solo e continuamente dalla sete di feroce ed ingiusta vendetta, senza un attimo di perplessità. Verso la metà del mese di marzo 1946, cinico e spietato nell’ideazione ed esecuzione, acquista un moschetto militare modello 91 e dei caricatori e, all’insaputa della moglie e dei figli, li tiene nascosti in un pagliaio in attesa del momento propizio.

Quel momento, tanto tenacemente atteso, arriva la mattina del 30 aprile 1946.

Bombardieri sa, perché vicino di casa, che i Caruso debbono, dalla contrada Cannavino, recarsi alla soprastante contrada Timpone per coltivare un appezzamento di terreno e che debbono necessariamente percorrere un tratto del viottolo in salita compreso per 10 metri tra due curve a gomito, che lo delimitano ai due imbocchi, e fiancheggiato da due ciglioni naturali alti circa due metri; nella parte a monte il ciglione è più alto e domina il tratto di sentiero in trincea e tutto il sentiero stesso sino alla casa dei Caruso a valle. Su questo ciglione più alto, in un cespuglio di rovi, Bombardieri si mette in agguato all’alba del 30 aprile. Sin dalla sera precedente si procura anche un sedile per maggiore comodità ed infittisce il cespuglio con frasche di ulivo per non essere visto dalle vittime designate e per tenerle agevolmente sotto tiro. Bombardieri, per giustificare la sua uscita da casa all’alba e per non destare sospetti in famiglia, il giorno prima si è recato in paese e ha acquistato mezzo chilo di salame, facendo intendere alla moglie che gli serviva per la colazione l’indomani quando si sarebbe recato a Cosenza. La notte dorme tranquillamente, senza un sussulto. All’alba si alza e dice alla moglie che va a Cosenza, invece va nel pagliaio, si arma del suo moschetto e si reca nella postazione predisposta.

Vede le sue vittime designate, i figli del vecchio Matteo Caruso: Raffaele, 46 anni, che conduce una capra ed una pecora; Salvatore, 38 anni, e quindi il diciannovenne Matteo, figlio di Raffaele. I tre camminano lentamente a tre o quattro passi di distanza l’uno dall’altro. Bombardieri aspetta che tutti e tre entrino nella trincea affinché nessuno possa trovare scampo con la fuga.

Quando Raffaele ha quasi raggiunto l’imbocco della seconda curva, Bombardieri apre il fuoco contro di lui che, per essersi trovato quasi perpendicolarmente sotto il rialzo di postazione, non è raggiunto dal proiettile, che però gli sfiora l’orecchio destro. Il secondo colpo, pure a dieci metri, lo dirige verso Salvatore che, raggiunto dal proiettile alla ragione ipocondriaca destra, cade a terra e si contorce; un altro colpo alla regione giugulare lo fredda. Il quarto colpo lo dirige contro Matteo che, colpito alla regione sottomammaria sinistra, stramazza e muore poco dopo. Poi, tenendo il moschetto in mano, si dirige a rapidi passi verso le abitazioni dei Caruso, distanti circa trecento metri.

Avvertiti della strage dalle grida dello scampato Raffaele, che tornato sul sentiero ha trovato il fratello morto ed il figlio morente, tutti gli altri della famiglia Caruso sono in allarme e stanno per raggiungere il luogo del delitto. A venti passi dalle case, l’assassino incontra Angela Cicirelli, la moglie di Salvatore, che disperata e piangente corre verso il posto dove giace il marito. Non ha nemmeno bisogno di prendere la mira perché le spara quasi a bruciapelo, un colpo alla regione sottomammaria sinistra, freddandola all’istante.

Poi prosegue, con tristo cinismo, il suo cammino di morte e spara l’ultimo colpo a bruciapelo, colpendolo al fianco sinistro, contro il vecchio Matteo che, inebetito dal dolore per le incalzanti e fulminee notizie di morte dei suoi familiari, è accorso tremante sulla scala dove la morte inchioda pure lui.

Compiuta la strage, Bombardieri, ancora col moschetto in mano, va ad Amantea per costituirsi ai Carabinieri i quali, già informati, stanno per partire alla volta di San Pietro in Amantea accompagnati dal Pretore.

Questa è l’arma di cui mi sono servito per uccidere quattro persone – comincia a dire Bombardieri, porgendo l’arma ad un militare e senza mostrare alcuna emozione –. Vi dichiaro che ho agito coscientemente e che sono soddisfatto di quanto ho commesso e quindi non ho da pentirmi. L’unico rimorso è quello di avere sparato anche contro il giovane Matteo il quale non mi aveva fatto nulla.

– Ma perché? Una strage! Sei impazzito?

Io non avrei voluto farla, ma essi non hanno voluto soddisfare la mia richiesta e quindi mi sono deciso ad ucciderli.

– Pure la donna hai ammazzato!

Aveva divulgato la notizia che anche autore del secondo furto ero stato io

Quadruplice omicidio e tentato omicidio. Questa è l’imputazione con la quale viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

Nel corso del dibattimento i difensori di Nicola Bombardieri riformulano la richiesta, già respinta in istruttoria, di sottoporre il loro assistito a perizia psichiatrica sia perché la nutrice di Bombardieri era una demente, la sorella di questa era morta in manicomio e la madre delle due donne era anch’essa una pazza, sia perché la tubercolosi e la sifilide, patologie di cui soffriva e soffre l’imputato, hanno influito sul suo stato mentale, ma la Corte la respinge in quanto nessun fatto nuovo è intervenuto per modificare il giudizio dell’Istruttore, al quale erano risultati non veri gli assunti, del resto irrilevanti, della difesa. La Corte, facendo propria quella valutazione che con l’ordinanza, giustamente, ritenne di essere in grado di fare senza l’ausilio di una consulenza psichiatrica, osserva che Bombardieri è affetto da tubercolosi quanto meno dal 1939 e da sifilide su per giù dalla stessa data e tuttavia il suo comportamento è stato sempre normale. Lo dice sua moglie, lo conferma lui stesso expressis verbis, lo confermano con grande autorità tre giudizi penali del 1941, e del 1945 nei quali mai la difesa ha osato prospettare un qualsiasi vizio della mente di lui che, per converso, diede prove sicure di possedere integra la funzione percettiva e volitiva della mente, la coscienza, cioè, e la volontà, la capacità di concepire e di comprendere l’importanza dei fatti e delle cose umane e di determinarsi liberamente in rapporto a questi. E prove ancora più sicure ed imponenti di piena capacità di intendere e di volere dà in questo processo: lucido, freddo, sempre presente a sé stesso concepisce la strage di un’intera famiglia per motivi abietti e futili insieme; coltiva e carezza l’idea criminosa per oltre due mesi, ne preordina l’esecuzione con pazienti, sagaci e tenaci accorgimenti. Non ha perplessità, ritegno, ansia, angoscia per quattro o cinque vite umane che sta per spezzare con le sequele di strazio, di lutto, di sbaraglio, anzi la notte precedente dorme sonni calmi e  tranquilli. Infine esegue la strage con spietata precisione; non ha rimorsi o pentimenti ed è pago di avere soddisfatto la sua sete di bieca vendetta, altro che pazzia! Piuttosto è temibile, feroce, proterva delinquenza che i precedenti penali ed il provvedimento di rimpatrio da parte del Governo Argentino illuminano di sinistra luce!

La tubercolosi e la sifilide possono intaccare il cervello e quindi cagionare l’infermità di mente totale o parziale (paralisi progressiva). Possono, però, non debbono necessariamente.

  Con queste durissime parole la pena congrua non può essere che l’ergastolo e la sentenza va pubblicata nei giornali “Il Tempo” di Roma ed “Il Corriere del Sud” di Cosenza e, per affissione, nei comuni di Cosenza e San Pietro in Amantea.

È il 21 ottobre 1946.[2]


[1] ASCS, Processi Penali.

[2] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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