IL MARCHIO DELL’INFAMIA

La sera del 26 aprile 1930 la quiete del centro di Palmi viene rotta da urla, bestemmie e colpi di pistola. Cosa sta accadendo? Una vera e propria battaglia tra due gruppi della malavita locale che si affrontano senza timore tra strade e vicoli, sicuri del silenzio, complice o terrorizzato che sia, della popolazione. Quando arrivano i Carabinieri è ormai troppo tardi, in strada non c’è più nessuno e nessuno ha visto o sentito niente.

Il mattino del 27 aprile, in abitato di Palmi, Gaetano Loiacono viene improvvisamente aggredito da due persone rimaste sconosciute e riporta lesioni personali che gli lasciano uno sfregio sul viso.  Per i Carabinieri è facile desumere che lo sfregio a Gaetano Loiacono deve attribuirsi a vendetta degli avversari di lui nell’associazione a delinquere, tanto più che egli, interrogato ed eccitato a dire la verità, si mantiene costantemente nel più assoluto riserbo.

Sarà difficile venirne a capo.

Poi nel pomeriggio dello stesso giorno accade un altro fatto gravissimo: due persone avvicinano il diciassettenne Santo Loiacono, cugino di Gaetano, lo aggrediscono e gli tagliano la faccia nello stesso modo in cui è stata tagliata quella di Gaetano. Evidentemente il motivo di questa seconda aggressione è identico all’altro, ma questa volta c’è un fatto nuovo. Santo Loiacono non solo ha riconosciuto i suoi aggressori, ma ne fa anche i nomi ai Carabinieri: Antonino Fameli e Vincenzo Gagliostro, sicché devesi ritenere con assoluta certezza che costoro ferirono anche Gaetano Loiacono, concludono i Carabinieri.

Ma Gaetano, sempre reticente malgrado tutte le esortazioni rivoltegli per indurlo a dire la verità, decide di allontanarsi da Palmi per destinazione ignota (probabilmente per l’Estero).

Fameli e Gagliostro vengono fermati, ma dopo un paio di notti in camera di sicurezza tornano in libertà perché, oltre alla parola di Santo Loiacono, non ci sono prove che siano stati loro a sfregiargli orrendamente il viso. Si dovrà aspettare di trovare altri riscontri.

Santo Loiacono, la cui affiliazione alla malavita per i Carabinieri è certa come quella di suo cugino e dei due aggressori, comincia a nutrire profondo rancore e odio soprattutto nei confronti di Fameli per la grave offesa ricevuta – lo sfregio è, per gli affiliati alla mala vita, il marchio dell’infamia – non solo perché, malgrado ogni cura alla ferita sul viso, si rende certa l’esistenza dello sfregio, ma anche, e più specialmente, perché Fameli, lungi dal mostrarsi pentito di quanto aveva fatto od almeno lungi dal serbare contegno indifferente, continua a provocarlo, sia guardandolo in atteggiamento di sfida tutte le volte che lo incontra, sia col dare colpi di frusta alla mula che tira la carretta di Santo Loiacono.

Il 16 maggio 1930, esattamente 19 giorni dopo lo sfregio subito, Santo con il capo fasciato non essendo ancora avvenuta la guarigione della lesione riportata sul viso, trovandosi nel suo fondo Quarantana,  vede passare per la strada rotabile Fameli col solito atteggiamento di sfida. Essendo più che mai vivo nel suo animo il dolore intenso cagionatogli dall’aggressione subita, il sangue gli monta alla testa, passa la mano sulla benda sotto cui c’è il marchio dell’infamia lasciatogli da Fameli, gli occhi gli si fanno di fuoco, imbraccia la doppietta che porta abusivamente con sé, in un attimo prende la mira e spara tutti e due i colpi contro l’avversario, facendolo stramazzare al suolo, cadavere.

Santo Loiacono si costituisce e viene indagato con l’accusa di omicidio volontario con premeditazione, nonché di porto abusivo di fucile.

In seguito alla morte violenta del Fameli, unico responsabile delle lesioni riportare dai cugini Loiacono rimane Vincenzo Gagliostro, che viene, a questo punto, arrestato.

Le indagini terminano con il rinvio a giudizio dei due malavitosi, deciso dal Giudice Istruttore il 30 luglio 1931.

Il 3 marzo 1932 la Corte d’Assise di Palmi discute la causa. Gagliostro si dichiara innocente. Santo Loiacono, però, messo a confronto con lui, prima conferma di avere ucciso Antonino Fameli e poi ripete tutte le accuse contro di lui e il morto:

– Fameli mi ha gravemente provocato una prima volta il 27 aprile 1930 quando, con la tua immediata cooperazione, mi ha inferto gravi lesioni – gli urla in faccia mostrandogli l’orrenda cicatrice sul viso – e varie altre volte, incessantemente, con atti di prepotenza e disprezzo compiuti in pubblica strada… io non ci avevo mai pensato prima ad ammazzarlo… mi è salito il sangue alla testa…

Ora, però, la Corte solleva un problema. Se gli argomenti d’accusa, che contro Gagliostro si adducono, possono condurre alla conclusione che egli, affiliato alla mala vita, si trovò in condizioni di ferire Gaetano Loiacono, come ferì Santo, gli stessi argomenti non autorizzano a ritenere con certezza ch’egli lo avesse ferito (non essendo lecito passare dalla possibilità alla realtà apodittica). E lo risolve: pertanto, sul conto del Gagliostro in ordine alle lesioni in persona di Gaetano Loiacono, è uopo pronunciare l’assoluzione per insufficienza di prove. Per quanto riguarda le lesioni in danno di Santo Loiacono, la Corte fonda la colpevolezza di Vincenzo Gagliostro su questo ragionamento: si è dimostrato che egli, non solo era affiliato alla mala vita e come tale aveva partecipato al conflitto armato avvenuto tra i due gruppi dell’associazione la sera del 26 aprile, ma che fu riconosciuto dal ferito il quale, nel confronto con lui avuto nell’odierno dibattimento, gli ha sostenuto in viso con tutta fermezza di essere stato aggredito a colpi di coltello da lui e da Fameli. Tale linea di condotta serbata da un componente dell’associazione nei riguardi di un altro affiliato (quando l’omertà è per tali persone regola assoluta), induce a ritenere senz’altro che immediato cooperatore nelle lesioni sia stato proprio il Gagliostro, giusto quanto ha sempre assicurato Santo Loiacono.

Per quanto riguarda quest’ultimo, non può ritenersi ch’egli abbia agito con premeditazione giacché, dal momento in cui fu ferito fin quando s’incontrò col Fameli, egli non si trovò mai in stato di coscienza fredda e tranquilla che gli permettesse di meditare sulla vendetta da esercitare contro l’avversario, di formare un piano d’azione, determinarne i particolari, approntarne i mezzi, spiegando in tutto ciò mezzi speciali per assicurare il buon esito della impresa. Quindi, conclude la Corte, deve ammettersi in suo favore la scusante della provocazione grave, avendo egli agito nell’impeto d’ira e di intenso dolore determinato dal fatto ingiusto di Fameli ed essendo state assai dannose le conseguenza delle lesioni da lui riportate, sia per la durata, sia per gli accentuati caratteri dello sfregio del viso che ne conseguì.

Siamo nel 1932 e da poco è entrato in vigore il nuovo Codice Penale, il Codice Rocco, ma i reati sono stati commessi nel 1930 quando ancora vigeva il Codice Zanardelli, per cui la Corte osserva che, nel determinare la pena da infliggere agli imputati, deve applicarsi il Codice Penale abrogato, le cui disposizioni sono ad essi più favorevoli.

Quindi, per l’omicidio ascritto a Santo Loiacono sembra giusto partire da anni 21 di reclusione che, diminuiti da una frazione di poco superiore alla metà per la scusante della provocazione grave, discendono ad anni 8 e, ridotti quindi di un sesto per l’età del giudicabile, minore dei 21 e maggiore dei 18 anni, discendono ad anni 6 e mesi 8. A questa pena vanno aggiunti 20 giorni di arresti per i reati relativi al possesso e all’omessa denuncia del fucile e le pene accessorie.

Per le lesioni personali ascritte a Vincenzo Gagliostro, sembra giusto partire da anni 3 di reclusione, che aumentati di un sesto per l’aggravante dell’arma salgono ad anni 3 e mesi 6 di reclusione, più pene accessorie.[1]

L’omertà si può sconfiggere.


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Palmi.

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