LA FAME E L’ODIO

Sono da poco passate le 19,00 dell’8 maggio 1934 quando Francesco Mazza bussa alla porta dei Carabinieri di San Giovanni in Fiore e, ansando per la corsa fatta, dice al piantone:

– Correte… in Via Filippa… commare Annina… o gesummaria!

– Calmatevi, riprendete fiato e diteci cosa è successo.

– Ero andato a portare un po’ di latte a commare Annina…

– Annina come?

– Annina Pontieri… la porta era aperta e sono entrato… lei era lì, a terra… il sangue… o gesummaria… basta, basta…

I Carabinieri si precipitano sul posto e trovano il cadavere della settantenne Anna Pontieri con la gola squarciata da numerosi colpi di arma da taglio, in un lago di sangue ormai secco. Dal sangue rappreso e dalle condizioni del corpo, è evidente che l’omicidio risale alla notte tra il 7 e l’8 maggio. Il movente parrebbe essere quello di un tentativo di rapina finito male per la reazione della vittima, ma questa pista viene subito esclusa in quanto che degli oggetti, delle derrate e del denaro che la defunta possedeva nulla fu toccato.

Allora bisogna scavare nella vita di Anna e i Carabinieri scoprono subito che la vecchia viveva agiatamente godendosi il patrimonio di suo genero Ippolito Greco, emigrato in America, e questo aveva scatenato contro di lei l’odio del fratello di Ippolito, Pasquale Greco che, al contrario, vive nella più squallida miseria. Odio che da qualche tempo si era acuito maggiormente, avendo appreso che suo fratello Ippolito, dopo averlo designato come amministratore dei suoi beni dopo la morte della suocera Anna, per insinuazione di costei aveva revocato la sua decisione.

Pasquale Greco viene subito sospettato e la sua condizione si fa ancora più delicata quando, rispolverando il suo certificato penale, viene fuori che è stato già condannato per omicidio. Arrestato, si difende:

– Sono innocente! Non avevo nessuna ragione per uccidere commare Annina, con la quale sono sempre stato in ottimi rapporti. E poi la sera del 7 maggio non sono proprio uscito da casa…

Sembra credibile, nonostante tutto. Però si presentano alcuni suoi vicini di casa i quali sostengono che un figlioletto di Pasquale ha riferito loro che quella notte il padre era rincasato ad ora tarda ed aveva consegnato un coltello intriso di sangue alla madre, che lo aveva pulito con uno straccio.

A questo punto viene posta in stato di fermo anche la moglie di Pasquale che, dopo molto tergiversare, racconta:

Mio marito, la sera del delitto, ritornato verso le ore 18,30 dalla Sila ove erasi trattenuto per quattro giorni in compagnia della figlia per la piantagione delle patate, mi ha chiesto da mangiare, avendo fame. Io, per l’estrema miseria in cui la nostra famiglia si trova, gli ho arrostito delle patate… allora Pasquale mi ha ingiunto di recarmi da Annina Pontieri per chiederle qualche cosa da mangiare ed io, per timore di essere percossa, ubbidii, ma poiché con la vecchia circa un mese prima avevo litigato, finsi di recarmi in casa di costei e, ritornata poco dopo, riferii a mio marito che Annina erasi rifiutata di darmi quanto le avevo chiesto. Allora mio marito, infuriatosi, mise nella tasca della giubba il coltello di cui erasi servito per mangiare le patate ed uscì di casa profferendo le seguenti parole: “adesso le taglio le cannarozza come un maiale!”. Trascorso del tempo, Pasquale fece ritorno tutto tremante col coltello tutto intriso di sangue in mano, che asciugò con uno straccio, e poi si coricò. La mattina seguente mio marito mi ingiunse di lavare la camicia che indossava la sera del delitto, lavatura che eseguii nella parte anteriore ove trovavansi delle piccole macchie di sangue

Sembra che tutto quadri, ma manca ancora qualcosa: dov’è l’arma del delitto? Ovviamente Pasquale dice di non saperne niente, ma non sono d’aiuto nemmeno la moglie e il figlio che dicono di avere visto il coltello, ma non sanno dove sia nascosto. E questo potrebbe essere un problema, ma poi i Carabinieri, nel corso dell’ennesima perquisizione trovano un coltello da cucina di piccole dimensioni, senza punta, che sembra avere delle incrostazioni di sangue. Serve una perizia chimica sia sul coltello e sia sulla camicia per stabilire se ci siano tracce di sangue umano.

Intanto si aggiunge un altro tassello testimoniale, quello del compagno di cella di Pasquale durante la permanenza nella caserma dei  Carabinieri:

Non aveva requie né giorno, né notte – racconta Fedele Ferrise – e quando apprese che nella sua casa era stato trovato un coltello imbrattato di sangue, mi chiese se l’arma rinvenuta fosse lunga o corta. Io non glielo seppi precisare perché l’avevo vista da lontano sul tavolo del Maresciallo, lui proruppe in questa espressione: “Quella puttana fricata di mia moglie mi fa pagare l’omicidio per non aver lavato la voparella”. Io gli manifestai il proposito di volere informare i Carabinieri di quanto mi aveva detto e lui mi minacciò dicendomi: “Ne ho fatti due omicidi e con te sarà il terzo, se parli col Maresciallo…”

L’esito della perizia è una doccia fredda per gli inquirenti, infatti il dottor Broccolo esclude che sugli oggetti sequestrati siano presenti tracce di sangue umano. Chiestigli chiarimenti, fa un mezzo passo indietro e precisa:

Pur avendo esclusa la presenza di macchie di sangue sugli oggetti repertati, ammetto che un’accurata lavatura avrebbe potuto benissimo far sparire qualunque macchia di sangue dagli oggetti esaminati.

Può bastare. Il 4 gennaio 1935 il Giudice Istruttore lo rinvia a giudizio con la pesantissima accusa di avere, agendo per motivi abietti e profittando di circostanze speciali tali da ostacolare la privata difesa, cagionato la morte di Pontieri Anna mediante recisione della carotide. Omicidio doppiamente qualificato.

L’11 luglio 1935 la Corte d’Assise di Cosenza apre il dibattimento di quello che è un processo indiziario, basato solo sulle dichiarazioni della moglie e del compagno di cella. Potrebbe bastare poco per far saltare tutto. E, infatti, la moglie di Pasquale Greco, chiamata a confermare le sue precedenti dichiarazioni, ritratta:

Tutte le circostanze da me riferite ai Carabinieri mi furono estorte con minacce e percosse. Successivamente le dovetti confermare dinanzi l’Autorità Giudiziaria perché erano già state consacrate nel verbale dei Carabinieri.

Sembra un po’ puerile come motivazione e, infatti, la Corte replica che tale insinuazione di pretese violenze da parte dei Carabinieri si appalesa tanto più assurda e ridicola in quanto la dichiarazione fu raccolta alla presenza di soldati d’onore quali sono il Maggiore ed il Capitano dei Carabinieri di Cosenza che espletarono fin dal principio le relative indagini nell’attuale procedimento. La spontaneità e sincerità della dichiarazione è presto dimostrata, ove si consideri che i Carabinieri non avrebbero potuto conoscere tutti i particolari del delitto se a loro non fossero stati effettivamente riferiti dalla moglie ed ove si tenga presente, altresì, la deposizione del teste Ferrise, a cui il Greco confidò la consumazione del delitto.

La difesa avrebbe, forse, potuto obiettare che la moglie di Pasquale Greco non ha accusato i Carabinieri di averla costretta a firmare una dichiarazione già scritta, ma di avergliela estorta con minacce e percosse, cosa del tutto diversa. Ma tant’è.

Non ci sono altri scossoni e la Corte afferma che, essendo pienamente convinta della colpevolezza del Greco, ne deve affermare la responsabilità penale. Ma è giusto, però, eliminare dall’imputazione le due aggravanti poste a suo carico.

Non può, infatti, sostenersi che egli abbia commesso l’omicidio per un motivo abietto, dato che esso Greco fu spinto all’azione criminosa, anziché dal sordo rancore che per ragioni d’interesse nutriva verso la Pontieri, dall’improvviso sdegno da cui l’animo suo fu acceso allorquando la moglie gli riferì che la Pontieri, a cui erasi rivolta per avere qualche cosa da mangiare perché da più giorni soffriva la fame, aveva opposto un reciso rifiuto, malgrado per le sue floride condizioni economiche avesse avuto la possibilità di soccorrerlo in un momento di eccezionale ed impellente bisogno.

Non ricorre neppure l’aggravante di aver profittato di circostanze speciali tali da ostacolare la privata difesa, perché vi è incertezza sull’ora precisa in cui il delitto fu commesso, in quanto che secondo le affermazioni del teste Ferrise, per confessione fattagli dall’imputato, è stato perpetrato verso le ore 23,30, mentre secondo la moglie l’uccisione è avvenuta non oltre le ore 20,00, ora questa in cui nel mese di maggio incomincia appena ad annottare, ma anche perché l’idea di sopprimere la Pontieri sorse improvvisamente nella mente del Greco, il quale subito la mise in attuazione, senza aver voluto deliberatamente profittare del tempo di notte onde rendere più difficile la difesa da parte della vittima, condizioni, queste, indispensabili per la sussistenza dell’aggravante in questione.

Ora la Corte passa a quantificare l’entità della pena e, nel farlo, tiene in considerazione la gravità e le modalità del reato, nonché i precedenti penali del giudicabile, che rivelano la di lui indole proclive ai reati di sangue e la sua pericolosità.

Totale, 24 anni di reclusione tondi tondi, la durata massima stabilita dal legislatore per l’omicidio volontario.

La Suprema Corte di Cassazione, il 10 febbraio 1936 rigetta il ricorso di Pasquale Greco e la pena è definitiva.[1]


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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