LE TRACCE DELLA PERDUTA VERGINITÀ

È il 19 ottobre 1894. L’uomo, Angelo Volpe di Serra d’Aiello, è seduto davanti al Pretore di Aiello Calabro e racconta nervosamente

Nel dì seguente al matrimonio [8 settembre 1894. Nda], l’estinto mio fratello Bruno, scoprendo il letto nuziale e piangendo, disse a me ed alla nostra madre: “Io sono perduto, me ne vado in America. La donna che ho sposato è una puttana… ecco la prova delle lenzuola non intrise di sangue!”. Noi allora abbiamo fatto venire colà l’ava della sposa e le mostrammo la prova del nostro disonore e della nostra vergogna, facendole vedere il letto e le lenzuola. L’ava disse: “Avete ragione, ma bisogna evitare lo scandalo”. La sposa, Carmina Sdao Corchiarulo, presente a queste lagnanze, stava immobile con una faccia di nuovo conio. Per venti giorni continuò questo stato di cose, nel corso dei quali mio fratello si separò dal letto della moglie, dormendo in altra stanza, in un lettino ad una piazza. Posta alle strette, Carmina confessò innanzi a me che prima di maritarsi avesse conosciuto l’uomo ed indicava i nomi di diverse persone onorate con cui si vantava di essersi congiunta… ha pure tentato di avvelenare mio fratello!

– Cosa? Spiegatevi meglio.

Carmina mandò una fanciulla da Luigi Naccarato per avere delle cantaridi [La cantaride officinale è un coleottero conosciuto fin dall’antichità per la produzione della cantaridina, sostanza presente nelle sue elitre, usata come afrodisiaco, antinfiammatorio e veleno. Nda] e gliene furono mandate novanta! Nello stesso giorno seppi da don Felice Bruno questa cosa perché egli credette che servissero per mio fratello Luigi, dimorante in Cleto, ma ciò non era vero perché Luigi stava bene in salute, come mi assicurai. Non appena la fanciulla disse a me ed a mio fratello Bruno che le cantaridi erano state consegnate a Carmina, comprendemmo che costei avesse voluto avvelenarlo. Mio fratello chiuse lo spaccio, andò in casa ove era la moglie e con la rivoltella la costrinse a dargli le cantaridi e poco dopo egli tornò e, come io vidi, le buttò per terra. In seguito a ciò mio fratello, indignato, cacciò di casa la moglie e la ricondusse in casa degli zii Bruno e Raffaele Pino

– Raccontatemi cosa è accaduto ieri…

Verso mezzodì venne in casa mia il ragazzo Angelo Rossi, dicendo che Bruno Pino mi avrebbe voluto parlare nella sua casa; io ero a letto febbricitante e mi rifiutai. Il ragazzo tornò da Bruno Pino e gli significò le ragioni del mio rifiuto. Più tardi fu mandato un altro ragazzo a chiamare mio fratello Bruno a cui consegnò un biglietto a firma di Bruno Pino

– Come fate a esserne sicuro? – lo interrompe il Pretore.

Ciò io seppi a mezzo della mia governante, in presenza della quale mio fratello lesse il biglietto e lo conservò in tasca, quindi andò nell’orto dei Pino. Fischiò affinché in quel luogo fossero andati Bruno e Raffaele Pino: il primo che andò fu Bruno il quale, per dargli animo, comparve senza giacca. Discorrette con lui e gli strinse la mano, pregandolo di attendere perché Raffaele doveva parlargli. Questi, che intanto era uscito dalla porta del trappeto, quasi a bruciapelo gli dette due colpi di fucile, per effetto dei quali mio fratello morì! A questa strage assistettero mia cognata Carmina e la sua ava

– Sembra che siate a conoscenza di molti particolari… forse più dei Carabinieri!

– Abbiamo molti amici in paese! Le due donne furono viste spiare dalle finestre allorché mio fratello andava a trovare la morte. Bruno Pino, consumato l’omicidio, vietò a tutti di andare a visitare il cadavere e fu visto frugare le tasche di mio fratello e porgli sulle gambe il cappello che era caduto a terra

– Ovviamente questa è la vostra versione, aspettiamo il rapporto dei Carabinieri e le dichiarazioni dei Pino…

Il verbale a firma del Brigadiere Luigi Decicco conferma sostanzialmente il racconto di Angelo Volpe, specificando che il ventiquattrenne Raffaele Pino esplose, alla distanza di 10 metri circa, due colpi di fucile dietrocarica, colpendo Bruno Volpe, 35 anni, nelle regioni dorsale e toracica, rendendolo all’istante cadavere. Senza indugi viene spiccato un mandato di cattura contro i fratelli Pino con l’accusa di omicidio aggravato dalla premeditazione, ma i due sono spariti dalla circolazione.

 Poi il Brigadiere aggiunge delle informazioni che, se da semplici voci dovessero trasformarsi in verità, sarebbero davvero esplosive: la diciassettenne Carmina Sdao avrebbe, una volta scacciata dal tetto coniugale, eccitato gli zii Bruno e Raffaele Pino ad uccidere il marito, dicendo che costui continuamente la minacciava colla rivoltella alla mano chiamandola puttana degli zii.

Il Brigadiere si fida ad occhi chiusi della voce e arresta Carmina Sdao quale complice dell’omicidio.

Dopo il mezzodì dell’otto settembre sposai, col rito civile e religioso, Bruno Volpe il quale, dalla casa dei miei zii Raffaele e Bruno Pino, mi condusse nella sua. Colà nella notte mi congiunsi carnalmente con lui nel letto nuziale e, come le altre vergini, sulle lenzuola lasciai le tracce della perduta verginità. Nella mattina il mio sposo era contento di me. Dopo quattro o cinque giorni la lavandaia Maria Pagnotta lavò le mie camicie, tra le quali pure la camicia con la quale andai a letto nella prima notte nuziale, ed altri panni sporchi, all’infuori delle lenzuola ed in casa vi erano regolarmente le pruove del primo coito, cioè sangue e sperma.

– Ordinaste voi alla lavandaia di non lavare quelle lenzuola?

Mio marito non volle che venissero lavate e continuarono a stare nel loro posto Poi, per volere di mio marito,le lenzuola della prima notte vennero lavate dalla sua sorella Filomena…

– Dopo la prima notte rimaneste a casa o partiste?

– Partimmo… la luna di miele tra noi due ebbe la durata di giorni venti… nel ventunesimo cominciò a dare delle stranezze dicendo che io, prima di congiungermi con lui, avessi sacrificato ad altri la mia verginità e faceva i nomi dei miei zii… più di una volta impugnò la rivoltella contro di me per farmi dichiarare cotesta turpitudine, ma io negai sempre!

– E poi?

Nel ventesimosesto giorno, dopo il mezzodì, mi scacciò dalla casa coniugale e, impugnando la rivoltella, mi condusse nella casa dei miei zii. Io, prima di quell’ultimo avvenimento, vinta dalla disperazione pensai di avvelenarmi e perciò mandai a chiedere a Luigi Naccarato delle cantaridi, facendogli sapere che bisognavano per il mio cognato Luigi. Mio marito me le sequestrò poco dopo la consegna e ciò avvenne perché Naccarato fu sollecito a riferire a mio marito tal fatto. Dopo due giorni mio marito mi espulse dalla casa nuziale

– Ma perché vostro zio, forse è meglio dire i vostri zii, hanno ammazzato vostro marito? E perché lo hanno invitato ad andare nell’orto di casa vostra? Hanno premeditato il delitto?

– Mio marito – dice ridendoera venuto nel nostro orto perché chiamato dal destino, si sa che l’onor mio deve essere pagato! Debbo dire che nel mezzodì di quel giorno fatale, mentre eravamo a tavola, un ragazzino venne in casa nostra e consegnò il tabacco da fumo a mio zio Bruno, comprato nello spaccio di mio cognato Angelo e questi gli mandò a dire che non poteva venire perché ammalato e di ciò si dispiacque immensamente zio Bruno… diversi giorni prima si abboccarono zio Bruno e mio marito per far pace, ma fu vano perché mio marito continuò a maltrattarmi. Nel giorno dell’omicidio mio marito mandò una lettera a zio Bruno con cui lo pregava di andare nell’orto

– Adesso avete riso parlando di vostro marito, ma avete riso anche appena siamo venuti a casa vostra per constatare l’omicidio…

Convengo di avere riso allorché i Carabinieri vennero a verificare il fatto in nostra casa, ciò avvenne perché mi scapparono le risa

– Dovete rendervi conto che il vostro comportamento ci fa fortemente sospettare che abbiate partecipato all’omicidio di vostro marito e, d’altra parte, vostro cognato vi accusa di avere tentato di avvelenare vostro marito con le cantaridi. Cosa avete da dire in vostra discolpa?

Nego di avere avuto parte nell’omicidio di mio marito e di avere tentato di avvelenarlo!

– State facendo di tutto per farci notare il vostro ventre gonfio, pensate di essere incinta?

Si, il mio ventre incomincia a gonfiarsi per effetto della gravidanza e, ripeto, tranne di mio marito Bruno Volpe, non conobbi altro uomo!

L’ostentazione del ventre gonfio insospettisce il Brigadiere che ottiene dal Pretore l’autorizzazione a sottoporla a perizia medica.

I dottori Luigi Civitelli e Filippo Solimeno, dopo avere attentamente visitato la fresca vedova, concludono: Questa donna non presenta, all’esame obiettivo, nessun dato certo di gravidanza ed ammesso, per la mancata mestruazione a detta della stessa Sdao, che sia gravida, possiamo affermare che la gestazione sia recente ed in quel periodo, appunto, in cui scientificamente non è data di accertare.

Più volte chiamata in causa, viene interrogata l’ava, la nonna materna, di Carmina Sdao, Giuseppina Mendicino, che racconta la sua versione dei fatti:

Il defunto Bruno Volpe era stretto in intima amicizia con i miei figli Bruno e Raffaele, tanto che ne domandò in isposa la nipote Carmina. Essi ed io ne accettammo con piacere la proposta. Nel giorno 8 settembre si procedette allo sposalizio che venne solennizzato con complimenti tra i parenti e gli amici. Nel giorno susseguente io ed i miei figli fummo a pranzo in casa di Bruno Volpe ed al banchetto presero parte quelli della famiglia Volpe, senza l’intervento di estranei. Ricordo che Bruno Volpe disse a mio figlio Bruno: “Non sai, io questa mattina ho sottoscritto l’atto di matrimonio nel municipio perché ieri sera non fu redatto” e mio figlio, meravigliato di ciò, rispose: “Maledetta Serra! Tu, dunque, questa notte hai tenuto mia nipote come una puttana!”. Dopo ventisei giorni di matrimonio venne in casa mia Carmina senza nulla dirmi da potermi ancora dispiacere… mi disse solo che sarebbe venuto il marito a rilevarla tre ore prima di annottare. Io e mio figlio Bruno le credemmo e dopo poche ore venne un ragazzo con una lettera che ella si fece consegnare e, malgrado fosse diretta a mio figlio Bruno, la gittò nel fuoco. Poi, dopo un paio di ore, venne un altro ragazzo che consegnò un’altra lettera direttamente a mio figlio. Carmina, supponendo il contenuto di quella lettera, mi confidò che il marito l’aveva mandata via dalla casa mettendole il revolver alla gola e dicendole in pari tempo ch’essa era stata deflorata prima di maritarsi e faceva in pari tempo il nome di vari individui, tra cui mio figlio Raffaele, come autori della deflorazione. Io, sentendo ciò, mi meravigliai e cercavo di conoscere da mia nipote come il marito aveva potuto tanto supporre e dire, venne mio figlio Bruno che aveva ricevuto la lettera del marito di Carmina e domandò conto alla stessa del fatto asserito dal marito. Avendolo appreso, impose alla nipote di rimanere in nostra casa. Dopo ciò, il 17 ottobre, Volpe mandò un’altra lettera a mio figlio, dandogli appuntamento nell’orto, come suppongo. Pochi minuti dopo intesi l’esplosione di due colpi di fucile e poscia dire da mio figlio Raffaele, all’indirizzo del fratello Bruno che era alla finestra: “Arranca, porco che sei, in contrario ammazzo anche te!”.

– Quindi non siete stata chiamata in casa dei Volpe la mattina del 9 settembre per vedere che le lenzuola nuziali erano immacolate?

– È una menzogna.

– E non è nemmeno vero che avete istigato i vostri figli a vendicarsi per l’offesa ricevuta? Alcuni testimoni hanno detto di avervelo sentito dire…

Chiunque ciò dice mentisce! Io, come madre, non potevo tanto insinuare, specialmente alla mia età. Né tra i miei figli e noi altri di famiglia c’è stato concerto per uccidere Volpe e se tanto avvenne si fu perché Raffaele, vedendolo nell’orto, preso da sdegno credette di vendicare il suo onore e quello della nipote.

Messa a confronto con i testimoni che l’accusano di avere istigato i figli alla vendetta, davanti a precise affermazioni, Giuseppina Mendicino continua a trincerarsi dietro un’unica frase: “Tu mentisci!”. A questo punto il Giudice Istruttore emette un mandato di cattura nei suoi confronti con l’accusa di avere determinato il figlio Raffaele Pino a commettere il reato di omicidio in persona di Volpe Bruno. È l’8 dicembre 1894 e ancora dei fratelli Bruno e Raffaele Pino non si hanno notizie.

Le notizie arrivano la mattina del primo gennaio 1895 da persona di esclusiva fiducia del Brigadiere Giuseppe Lotorto, che lo avvisa di essere a conoscenza che i due latitanti sono nascosti in una casetta rurale nella contrada Seminati di Aiello Calabro. Lotorto e i suoi uomini si precipitano sul posto e li arrestano.

I due si difendono confermando la versione della loro madre: il giorno dopo il matrimonio nessuno parlò delle lenzuola immacolate per la perduta verginità di Carmina prima di sposare Bruno Volpe.

Il Volpe, avendo appreso che mia nipote avea acquistato delle cantaridi per avvelenarsi, scrisse una lettera a mio fratello Bruno colla quale gli diceva: “Vi restituisco vostra nipote perché trovata deflorata” e ne indicava come autori tre individui – poi fornisce un’altra chiave di lettura per spiegare il comportamento dei fratelli Volpe –. Secondo me Bruno Volpe e suo fratello Angelo si indispettirono quando io intavolai trattative di matrimonio con una giovane che lo aveva respinto prima di sposare mia nipote – dice Raffaele Pino.

– Come fate a esserne sicuro?

– Perché dopo che iniziai le trattative di matrimonio Bruno Volpe incominciò a maltrattare a più non posso mia nipote, sino a spingerla a tentare di avvelenarsi…

– Vostra nipote vi raccontò qualcosa?

Ci pose a giorno di tutti i maltrattamenti di cui era stata fatta segno, proclamandosi nel contempo innocente di quanto costui le voleva addebitare. Colpiti nel più vivo del cuore e dell’onore, pensammo di chiuderci nel silenzio, ma trascorsi pochi giorni, era il 12 settembre, egli, che aveva divulgato il disonore di nostra nipote, scrisse un’altra lettera nella quale ci minacciava, chiedendo in pari tempo che ci fossimo adoperati per farlo dividere dalla moglie. Nello stesso giorno fece chiedere verbalmente a mio fratello Bruno un abboccamento in casa di amici. Mio fratello accettò e quando tornò disse che Volpe si era dichiarato pronto ad accettare novellamente nostra nipote in casa, purché io avessi ucciso l’uomo da lui ritenuto come colui che ci aveva disonorato. Io allora compresi che Bruno Volpe voleva per mezzo mio vendicarsi di quell’uomo che era suo nemico e nel contempo raggiungere lo scopo di farmi allontanare dalla mia fidanzata, perciò non tenni conto delle sue parole.

– Quando e perché avete deciso di ucciderlo?

Il 17 ottobre chiese un altro abboccamento a mio fratello nel nostro giardino per parlargli della separazione. Sentimmo fischiare replicatamente dal giardino e allora mio fratello, nel modo come si trovava, cioè senza giacca, scese ed incominciarono a diverbiarsi di seguito a provocazione di Volpe. Io, che ero dalla finestra, mi avvidi che nel giardino erano appiattati due uomini e nel contempo fui invitato dal Volpe a scendere. Mentre tanto praticavo, mio fratello rientrò per una parte diversa da quella per la quale io uscii. Arrivato in giardino, si attaccò tra me e lui un diverbio e nell’atto che Volpe cercava di avvicinarmi, fui costretto ad impugnare il due colpi e siccome Volpe estrasse una rivoltella curvandosi a terra e voltandomi il fianco destro per evitare il colpo che sarebbe partito dalla mia arma, io, a prevenirlo, gli sparai due colpi

– Quindi sarebbe stata legittima difesa… il problema è che vicino al cadavere non c’era nessuna rivoltella…

Respingo la imputazione di avere tenuto mano all’omicidio perpetrato da mio fratello Raffaele – dice Bruno Pino che poi racconta le cose come ha già fatto suo fratello.

Per arrivare ad una conclusione, gli inquirenti ascoltano ben 133 testimoni e il 21 giugno 1895 la Sezione d’Accusa può prendere una decisione: Carmina Sdao viene prosciolta dall’accusa di avere istigato gli zii ad uccidere suo marito; Raffaele Pino viene rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio premeditato; Bruno Pino e Giuseppina Mendicino vengono rinviati a giudizio con l’accusa di concorso in omicidio premeditato.

Il 26 settembre successivo si apre il dibattimento. Le prove e le testimonianze raccolte in aula a loro carico sono ritenute sufficienti, ma non tali da confermare l’aggravante della premeditazione e ciò convince la giuria, il 3 ottobre 1895, a ritenere plausibile che Raffaele Pino abbia ucciso per motivi propri e non per una questione di famiglia, per cui viene condannato per omicidio volontario con attenuanti a 17 anni e 6 mesi di reclusione, più pene accessorie; Bruno Pino è responsabile di correità nell’omicidio con attenuanti e, con la minorante di avere il Raffaele Pino dei motivi proprii per commettere l’omicidio, condannato a 14 anni di reclusione; la loro madre, Giuseppina Mendicino, viene assolta per non aver commesso il fatto.

Il 28 febbraio 1896 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso dei fratelli Pino.[1]


[1] ASCS, Processi Penali.

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