È la mattina del 26 gennaio 1931. Fa freddo. In contrada Vallone di Palazzo nel comune di Pedace alcuni pastori stanno facendo pascolare i loro animali. Uno di loro si allontana per soddisfare un bisogno corporale, quando i suoi occhi si posano su di un cumulo di frasche e rami di albero acconciati come un giaciglio. C’è qualcosa che stona, una specie di palla biancastra. L’uomo cerca di mettere a fuoco meglio mentre urina e bestemmia:
– Venite, correte! Gesummaria!
Gli altri pastori corrono a vedere cosa diavolo può essergli successo, l’uomo indica il giaciglio e quella specie di palla che si intravede, poi tutti si avvicinano e bestemmiano variamente, mentre qualcuno ha conati di vomito: quella specie di palla è la nuca di un teschio umano e, sparsi nelle adiacenze, ci sono altre ossa umane, brandelli di una camicia, di una giacca, di un pantalone e di un corpetto.
Quando arrivano i Carabinieri ed il Pretore di Spezzano Sila vengono repertati un teschio, le ossa del torace senza lo sterno, le clavicole e le spalle, la colonna vertebrale senza il coccige, l’ileo e l’ischio del bacino, gli arti inferiori senza le ossa dei piedi, un omero e un radio. Esaminati i brandelli degli abiti viene rinvenuto un portafogli con dentro una tessera di fascista appartenente al diciannovenne Emilio Tancredi di Pietrafitta. Che siano suoi quei poveri resti? Molto probabile perché del giovanotto non si hanno più notizie da quasi un mese e mezzo, esattamente dalla mattina del 7 dicembre 1930, quando uscì di casa e non fece più ritorno.
Si pensa ad una disgrazia perché dalle prime indagini risulta che Emilio Tancredi non aveva nessun nemico, ma qualche giorno dopo si presenta in caserma un certo Pasquale Barberio e racconta:
– La sera del 6 dicembre lo vidi parlare con una donna nella frazione Campitelli di Pietrafitta. Quando la donna se ne andò lo avvicinai e mi disse che quella donna gli aveva dato un appuntamento amoroso per il giorno seguente nella contrada Pezze, in un fondo appartenente alla sua famiglia…
– Avete riconosciuto o vi disse il nome della donna?
– No, non la riconobbi e il nome non me lo volle dire…
È una buona pista da seguire, ma bisogna assolutamente individuare la donna misteriosa che, questo è il sospetto, potrebbe avere attirato Emilio Tancredi in una trappola ed averlo ucciso, oppure è stata solo l’esca che ha permesso a qualcun altro di ucciderlo.
Le indagini, scrupolose, danno i loro frutti in pochi giorni: la donna misteriosa è la diciottenne Luigina Locanto di Pietrafitta e viene posta in stato di fermo insieme a sua madre la quale, agli occhi dei Carabinieri, mantiene un atteggiamento sospetto.
– Sono innocente! – urla Luigina.
– Ma noi sappiamo che gli hai dato un appuntamento per la mattina del 7 dicembre e tu e la tua famiglia quella mattina raccoglievate olive non lontano da dove sono stati trovati i resti di Tancredi!
Alla fine Luigina cede e racconta:
– La mattina del 7 dicembre, mentre stavo andando in campagna, giunta nel Vallone di Palazzo, Emilio mi aggredì per violentarmi… per difendermi lo afferrai per la gola riuscendo a strozzarlo…
– Impossibile! – urla il Maresciallo – non ci credo che sei riuscita a strozzarlo! Lo sai quanta forza e quanto tempo occorrono per strozzare un uomo? Lui ti avrebbe fermata con una spinta!
Dai e dai, Luigina cambia versione:
– Gli ho dato una coltellata alla gola per vendicarmi di lui che mi aveva disonorata e poi si era vantato con gli amici, compreso il mio fidanzato, Armando Remorini, ai quali disse di avermi baciata e quasi sedotta… e poi… poi Armando mi ha lasciata per colpa sua!
È verosimile, ma bisogna sentire gli amici di Emilio Tancredi e l’ex fidanzatodella ragazza. Tutti, tranne Armando Remorini, la smentiscono e questo per Luigina è un grosso problema, perciò viene interrogata di nuovo per chiarire tutto. E chiarisce tutto in modo lucidamente raccapricciante:
– Da circa due anni amoreggiavo con Armando il quale, nel 1929 mi abbandonò per le propalazioni avute da Emilio Tancredi. Così sorse in me un odio implacabile e decisi di vendicarmi. Dopo lunga meditazione decisi di scannarlo e, avendolo nella sera del 6 dicembre incontrato nella frazione Campitelli, gli diedi un appuntamento per il giorno seguente nel suo fondo in contrada Pezze. All’indomani Tancredi, all’ora convenuta si fece trovare nel luogo convenuto ed io, stando a raccogliere olive con i miei familiari in un altro fondo non molto lontano, come lo vidi lo raggiunsi armata di un coltello da macellaio che avevo avuto cura di prendere il mattino nell’uscire di casa e di nasconderlo sotto le vesti. Emilio mi offrì dei biscotti, ma io lo persuasi a cercare un luogo nascosto, così ci inoltrammo nel bosco di Vallone di Palazzo e ci fermammo in un luogo più recondito dove lui, per stare più comodo, raccolse dei cespugli e delle frasche e ne fece una specie di giaciglio. Dopo si sedette e mi invitò a fare lo stesso ma, nel prendermi per le vesti, si accorse che ero armata di coltello. Gli nacque il sospetto che volessi ucciderlo, mi tolse il coltello e lo buttò via, nonostante che lo avessi rassicurato che volevo bene a lui solo, poi si alzò e andò ad ispezionare le vicinanze per assicurarsi che non vi fosse qualcuno. Io ne approfittai per riprendere il coltello e nasconderlo sotto il giaciglio. Ritornato tranquillo, si coricò sul giaciglio ed io mi misi a cavalcioni sul suo petto e, mentre con la mano sinistra gli accarezzavo gli occhi per impedirgli di notare i miei movimenti, con la destra afferrai il coltello e lo scannai. Emise un rantolo e, vomitando sangue, rimase cadavere. Mi allontanai e, dopo aver lavato le mani ed il coltello nelle acque del fiume, nascosi il coltello in un vicino pagliaio e ritornai dai miei che mi rimproverarono per la lunga assenza. Il giorno appresso andai a riprendere il coltello dal pagliaio e, ritornata a casa, lo nascosi in un buco esistente nella nostra stalla…
Un coltello è davvero nel posto indicato da Luigina, che lo riconosce come quello che ha usato per scannare Emilio Tancredi. Ma gli inquirenti sono convinti che non può aver fatto tutto da sola e denunciano anche sua madre per complicità in omicidio per le troppe contraddizioni nelle quali cade durante gli interrogatori a cui viene sottoposta.
Ad indagare sull’orrendo omicidio ci sono anche i Carabinieri di Aprigliano, sotto la cui giurisdizione ricade il comune di Pietrafitta, i quali scoprono dei particolari molto interessanti: Armando Remorini, dopo avere lasciato Luigina, strinse relazioni amorose con la sorella della Locanto a nome Maria, con la quale più volte si era congiunto carnalmente in aperta campagna, rendendola incinta. Denunciano i due per atti osceni in luogo esposto al pubblico e interrogano la ventunenne Maria che ammette tutto e aggiunge di essere convinta che Armando ha istigato sua sorella ad uccidere Emilio Tancredi.
Lo arrestano e, dopo molte insistenze, ammette le relazioni carnali con Maria, ma nega recisamente ogni sua partecipazione all’omicidio.
È necessario chiarire subito questa nuova ipotesi, così Luigina viene interrogata di nuovo nel carcere di Spezzano Sila dove è detenuta. È il 19 febbraio 1931:
– Effettivamente sono stata determinata a commettere il delitto da Armando Remorini il quale, dopo avermi abbandonata per le confidenze di Tancredi, alle insistenze di ritornare con me, mi rispondeva sempre con le parole: “Se tu vuoi che faccia all’amore con te e ti sposi, uccidilo prima…”. E per convincermi ancora di più mi promise di guardarmi le spalle e se Emilio fosse riuscito ad avere il sopravvento su di me, sarebbe intervenuto lui e l’avrebbe ucciso… fu così che mi decisi a dare l’appuntamento ad Emilio e lo uccisi… il 7 dicembre, mentre mi trovavo nel mio fondo di Croce Tignano, fui raggiunta da Armando che mi avvertì che Tancredi era in quelle vicinanze e mi invitò ad andare a casa ad armarmi, di raggiungere Emilio e di ucciderlo, promettendomi di nuovo di guardarmi le spalle. Il giorno dopo Armando, avendomi incontrata, mi chiese se l’avessi ucciso e alla mia risposta affermativa, mi confortò a stare tranquilla, esortandomi a non denunziarlo se il delitto fosse stato scoperto…
I due ex fidanzati vengono messi a confronto e l’11 marzo successivo Luigina gli ribadisce fermamente in faccia l’accusa di averla determinata ad uccidere il povero Emilio Tancredi. Tutto risolto. No, perché il 3 giugno 1931 Luigina, nel frattempo trasferita nel carcere di Cosenza come Remorini, scrive al Giudice Istruttore sostenendo di avere importanti dichiarazioni da fare:
– Non è vero che Armando Remorini mi ha determinata ad uccidere, se ho detto così, l’ho fatto per le pressioni avute dai Carabinieri…
In questo frattempo le accuse contro la madre di Luigina decadono perché muore in carcere per paralisi cardiaca.
Questo è il momento, per Armando Remorini, di passare all’attacco:
– Io non c’entro niente, Luigina si è decisa ad accusarmi per vendicarsi del mio abbandono, istigata da qualcuno. Io il 7 dicembre non ero lì, fui a lavorare a Pietrafitta fin quasi a mezzogiorno in casa della signora Ferrari, dalla quale fui invitato a pranzo…
Ma sia la signora Ferrari che sua figlia lo smentiscono: Armando Remorini non ha mai lavorato a casa sua, né lo ha mai invitato a pranzo. Anzi aggiunge qualcosa che potrebbe mettere nei guai la sorella di Armando:
– È venuta a trovarmi sua sorella che mi ha pregato di confermare l’assunto del fratello, ma io mi sono rifiutata.
Poi spuntano altri testimoni che giurano di aver visto la sorella di Armando mentre dalla strada parlava col fratello che era in carcere e la sollecitava ad avvertire i testimoni indicati nel suo interrogatorio che lo avessero favorito, deponendo di essere stato nella loro abitazione durante la mattinata del 7 dicembre.
I guai si fanno sempre più seri e quando le cose vanno male è facile che, inesorabilmente, peggiorino. Armando commette un’altra sciocchezza: interrogato dai condetenuti Bonavita e Occhiuto, confessò loro di avere determinato Luigina Locanto ad uccidere Emilio Tancredi circa due anni prima, quando seppe che costui l’aveva quasi sedotta, promettendole che l’avrebbe sposata e che non ricordava se posteriormente l’avesse novellamente incitata.
Può bastare così: il 9 ottobre 1931 il Giudice Istruttore rinvia a giudizio Luigina Locanto per omicidio premeditato, Armando Remorini per correità in omicidio e oltraggio al pudore. Di questa brutta storia ne fa le spese anche Maria, la sorella di Luigina, che viene rinviata a giudizio per oltraggio al pudore.
Il 9 marzo 1932 inizia il dibattimento con la dichiarazione di Luigina Locanto che conferma di non essere stata determinata al delitto da Armando Remorini e che lo ha accusato per le minacce ricevute dai Carabinieri, ma quando viene interrogato il Maresciallo Salvatore Severini che ha raccolto l’accusa contro l’ex fidanzato, si scopre che Luigina aveva fatto il nome di Remorini in seguito alle insistenti esortazioni della madre. La ragazza crolla e ammette che non ci furono minacce da parte dei Carabinieri e la confessione fu spontanea.
Armando persiste nel negare di avere dato incarico a Luigina di uccidere Emilio Tancredi e denuncia di avere subito sevizie dal custode delle carceri per convincerlo ad ammettere la sua colpevolezza.
A questo punto la Corte osserva che è evidente la responsabilità di Luigina Locanto, la quale agì con premeditazione perché tutto preordinò ed eseguì con animo tranquillo. Solo, tenendo presente le modalità della causa e la deficiente mentalità di Luigina, la si reputa meritevole delle circostanze attenuanti generiche, oltre alla diminuente naturale della sua età fra i diciotto e i ventuno anni, che le spetta senz’altro.
In ordine alla responsabilità di Armando Remorini, la Corte osserva che egli fu indiziato prima di tutto dalla sua amante Maria Locanto. Si pensò subito che Luigina da sola non poteva uccidere il Tancredi e che quindi doveva aver avuto un correo. Luigina Locanto accusò Remorini come correo e tale chiamata di correo è attendibile perché i particolari concordano con molti elementi accertati in giudizio. Questa accusa trova riscontro nelle ammissioni parziali di Remorini fatte nelle carceri di Spezzano, come depongono il carceriere e i detenuti Bonavita, Bauleo e Occhiuto. Costoro non avevano interesse ad aggravare la condizione di Remorini e le loro dichiarazioni concordano nella parte sostanziale, cioè Remorini ammette di avere, molto tempo prima del fatto, detto a Luigina Locanto di uccidere Tancredi perché, soppresso costui, avrebbe potuto sposarla. Non esclude di averglielo detto anche in seguito. Giova tener presente che del tutto venne a mancare l’alibi fornito da Remorini. È poi da escludersi quanto il Remorini afferma che Luigina Locanto sia stata indotta ad accusarlo per motivo di gelosia. Se Luigina fosse stata gelosa avrebbe inveito contro Remorini, magari usando contro di lui atti violenti, come lo aveva minacciato in precedenza quando gli disse che lo avrebbe ammazzato se avesse sposato un’altra donna. Ma Remorini non le diede un mandato, soltanto la eccitò ad agire e le promise assistenza dopo il fatto. Pertanto va ritenuto colpevole di complicità non necessaria. Inoltre l’imputato e Maria Locanto vanno ritenuti responsabili del delitto di oltraggio al pudore.
Ora bisogna quantificare le pena da infliggere agli imputati.
Per Luigina Locanto la pena da applicare sarebbe l’ergastolo, ma per ragione della sua età fra i 18 e 21 anni è inflitta la pena da 25 a 30 anni e la Corte ritiene idonea, tenendo conto delle modalità della causa e della deficiente mentalità della Locanto, infliggere la pena di anni 25, pena che va diminuita di un sesto per la concessione delle attenuanti generiche, quindi è ridotta ad anni 20 e mesi 10, più pene accessorie.
Nei confronti di Armando Remorini la pena da infliggere non può essere inferiore a dodici anni. La Corte, tenendo presente che l’omicidio fu commesso per eccitamento di Armando Remorini, stima idoneo infliggere a costui la reclusione di anni diciotto, pena che è diminuita pure di un sesto per la sua età fra i 18 e i 21 anni, quindi è ridotta ad anni quindici. In ordine al reato di oltraggio al pudore vengono comminati tre mesi di reclusione, che vanno prima ridotti di un sesto per l’età e poscia della metà per il cumulo giuridico con l’altra pena, restando così fissata a 1 mese e 7 giorni.
Maria Locanto prende 3 mesi di reclusione con la sospensione condizionale della pena.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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