IL FUORILEGGE

Nel casello cantoniere ferroviario 232 della contrada Campora San Giovanni di Amantea abita la famiglia di Giuseppe Curcio composta, oltre che dal capo famiglia, dalla moglie Carmela e dai figli Mario, Fiorina e Ida. Durante l’estate del 1947 capita da quelle parti un venditore ambulante, il trentenne Stefano De Vita, originario di Vibo Valentia. È indubbiamente un bell’uomo,  alto, snello e con i capelli neri ondulati e per Stefano la vista della giovane e procace Fiorina è un colpo di fulmine, così comincia in tutti i modi a corteggiarla fino a che, consenzienti i genitori di lei, i due si fidanzano.

Ma c’è un piccolo particolare che Stefano De Vita non racconta: è sposato con figli. In realtà non è l’unico ad avere nascosto qualcosa alla famiglia Curcio: anche il fidanzato di Ida, Gaetano Reitano, come De Vita di Vibo Valentia e venditore ambulante, è sposato con figli. Occhio non vede, cuore non duole, come recita il proverbio.

Poi Stefano parte per vendere la sua mercanzia con la promessa di tornare entro pochi giorni, ma le settimane passano e dell’uomo non si hanno più notizie. Domenico Curcio perde la pazienza, non vuole che sua figlia si sposi con uno che sparisce senza dare segni di vita. Fiorina si mette l’anima in pace e accetta la proposta di fidanzamento fatta da un altro giovanotto, Ernesto Borrello.

Il 13 novembre 1947 un ragazzino bussa alla porta di casa Curcio, cerca Fiorina per consegnarle un biglietto. La ragazza spiega il foglio e legge le accorate parole di scuse scritte da Stefano. Ma Fiorina è una ragazza seria, adesso è fidanzata con un altro e lo scrive sul retro del foglio che riconsegna al ragazzino affinché lo riporti a Stefano, il quale sembra capire la nuova situazione e non si fa più sentire. Senonché nel pomeriggio del 26 il De Vita compare in casa Curcio ed alla presenza della madre della ragazza restituisce e si fa restituire da Fiorina lettere e fotografie, non senza lamentarsi di essere stato messo da parte ed essergli stato preferito un altro.

– Non penso che te lo godrai il tuo fidanzato… – dice ad un certo punto. È una profezia? È una minaccia? Fatto sta che nessuno dei Curcio sembra badarci, al punto tale da essere cordialmente invitato a cena. Cena alla quale partecipano anche Gaetano Reitano, il “fidanzato” di Ida, Ernesto Borrello e suo fratello Vincenzo.

Bevuto l’ultimo bicchiere di vino, tutti se ne vanno e Fiorina esprime ai familiari la sua preoccupazione per le parole pronunciate da Stefano, ma tutti cercano di rincuorarla e tranquillizzarla. Anzi, Gaetano Reitano si spinge oltre e le promette:

Ti proteggerò io e se oserà tornare gliela farò pagare cara!

La mattina seguente, la madre di Fiorina va ad Amantea per sbrigare alcuni suoi affari e incontra Stefano.

Ho il desiderio di scambiare qualche parola ancora con Fiorina

– Lasciala stare… è fidanzata, non sta bene… la gente…

– Due parole soltanto…

Questa tiritera va avanti lungo il cammino di ritorno da Amanatea verso Campora. Giunti a Coreca, i due si separano e la donna nota che sua figlia Fiorina sta parlando con un’amica sulla porta di quest’ultima. Si avvicina e, sapendo che Stefano la sta guardando, ritiene opportuno che l’ormai inevitabile colloquio si svolga lontano dalla sua casa, si volta e lo chiama:

– Parlale adesso, davanti a me.

I tre si mettono a discorrere sul pianerottolo della casa disabitata di un tale Spinelli quando, tutta sgomenta ed allarmata, arriva l’amica di Fiorina, la quale li avvisa che Gaetano Reitano, in compagnia di un altro uomo ed armato di fucile, sta cercando la ragazza perché sospetta che sia uscita di casa per incontrare De Vita.

A questo punto le due donne e Stefano si nascondono rapidamente in uno sgabuzzino sito in quel pianerottolo, ostruendo e mascherando l’apertura con un fascio di canne. Ma Reitano, in compagnia dell’altro uomo che altri non è se non il fidanzato di Fiorina, li ha visti e si avvicina minaccioso imbracciando il fucile:

– Uscite con le mani alzate! – intima ai tre mentre introduce le canne del fucile nel fascio di canne.

Nessuno risponde, ma Stefano De Vita estrae una pistola, la punta in direzione delle canne del fucile e, senza dire una parola, fa fuoco centrando Reitano in mezzo alla fronte. Poi sposta le canne, esce dal nascondiglio e sparisce. Da questo momento comincia a scendere lungo la china inesorabile del male.

In un giorno della prima decade del dicembre successivo, uno sconosciuto alto, snello, con i capelli neri ondulati, che indossa un pastrano militare e armato di moschetto, ferma il giovane Giuseppe Potestio davanti alla sua casa in contrada Acqua del Monaco del comune di Grimaldi e gli chiede un po’ di pane. Giuseppe Potestio glielo offre e l’uomo si allontana per ritornare subito indietro puntandogli contro il fucile e mettendo bene in vista la pistola e il pugnale che gli pendono dalla cinta.

– Apri la porta! – gli intima.

– Ma…

– Apri la porta, ti ho detto!

Una volta dentro rovista tutti i cassetti ma non trova soldi, così si porta dietro il fucile e la rivoltella di Potestio.

Contrada Cannavale di Aiello, mattina del 23 dicembre 1947. Eugenia Coccimiglio sta prendendo della legna per il focolare. Un uomo con un pastrano militare le si avvicina. La donna lo scambia per una guardia forestale e risponde alle sue domande:

– Vostro marito è in casa?

– No, è al lavoro…

– Gli devo lasciare una carta, sapete firmare?

– No… con la croce firmo io…

– Va bene lo stesso. Entriamo.

Appena entrato, lo sconosciuto punta una pistola contro la donna e le intima di dargli tutti i soldi che ci sono in casa. Poi sente una specie di lamento, si gira e vede un vecchio, infermo e paralitico, seduto su di una specie di poltrona fatta di tavole, e minaccia anche questo affinché gli consegni il denaro. Racimola 20.000 lire ma è sicuro che in casa ci siano più soldi e allora poggia la canna della pistola alla tempia della donna: la ucciderà se non prende tutto quello che c’è in casa! Eugenia cede e gli indica un cassetto, che il rapinatore forza con la punta di un pugnale e si impossessa di altre 25.000 lire, di 175 dollari e di due assegni bancari di 20.000 lire ciascuno, poi ingiunge ai rapinati di non denunziare il fatto ai Carabinieri, se vogliono evitare l’incendio della loro casa ed esce per andarsene, ma fatti pochi metri, con modo spavaldo, spara una fucilata in direzione della casa. Adesso se ne va davvero, ma non abbandona la zona perché quella stessa sera bussa alla porta di Rosario Coccimiglio e, non solo si fa consegnare tutto il contante che c’è in casa, ma gli impone di preparargli la cena.

L’8 febbraio 1948 un vicino, Michele Policicchio, si presenta nell’abitazione della famiglia di Fiorina Curcio a Campora per farsi restituire la sua bicicletta, prestata qualche giorno prima alla ragazza. Fiorina, sua sorella Ida e Michele si mettono a chiacchierare e, da una parola all’altra, il discorso cade su Stefano De Vita:

– Ha fatto fortuna… l’ho visto e mi ha detto che tra qualche giorno passerà da qui elegantemente vestito e verrà a porgervi i suoi saluti… siete sole in casa?

– I nostri genitori sono al lavoro e Mario sta dormendo…

– Va bene, adesso me ne devo andare, vi saluto – inforca la bicicletta e se ne va, poi torna indietro gironzolando davanti alla casa dei Curcio.

Dopo quasi un’ora Ida Curcio sente bussare alla porta. Apre e si trova davanti Stefano, elegantemente vestito e con un moschetto militare a tracolla. I due si mettono a chiacchierare davanti alla porta e nel frattempo arriva anche Fiorina che si unisce alla chiacchierata.

Ad un tratto Stefano estrae da tasca una pistola e la punta contro Fiorina. Poi l’afferra per i capelli e le urla:

– Vieni con me, muoviti!

La trascina per qualche metro mentre Fiorina urla chiedendo aiuto. Allora Stefano rimette in tasca la pistola e imbraccia il moschetto sparando diversi colpi in direzione della casa dei Curcio, poi afferra di nuovo Fiorina, che sembra inebetita, e si allontanano. Mario, il fratello della ragazza, svegliato dalle urla e dai colpi di moschetto, resosi conto di quanto sta accadendo alla sorella, impugna il fucile di suo padre e si lancia all’inseguimento dei due. Stefano, a sua volta, per far desistere Mario dall’inseguimento, gli spara contro alcuni colpi di moschetto e così, la malcapitata giovane viene trascinata in una casetta disabitata in montagna, trattenuta per ben quattro giorni e stuprata.

Verso le 13,00 del 2 marzo 1948 uno sconosciuto alto, snello, coi capelli neri ondulati, che indossa un pastrano militare con stellette e un berretto con fregio giallo si presenta in casa di Luisa Reda, in contrada Sciollo Grande del comune di Mendicino.

– Sono una Guardia Forestale, mi potete offrire qualcosa da mangiare?

Luisa lo fa entrare, gli dà da mangiare e l’uomo, finito il pasto, saluta e se ne va. Torna qualche ora dopo, dicendo di avere smarrito un libretto di appunti ma, non appena la porta si apre, estrae una pistola e ordina alla donna di aprire i mobili ove è custodito il denaro, impossessandosi di 33 mila lire e di un libretto della Cassa di Risparmio. Mentre l’uomo rovista nei cassetti qualcuno bussa alla porta. È un ragazzo, Antonio De Cicco, che ha visto entrare l’uomo con l’arma in pugno ed è andato a vedere se tutto è a posto. Il rapinatore, ritenendosi minacciato, esplode un colpo di moschetto verso la porta e non uccide il ragazzo sol perché questi, nascondendosi, si è portato fuori dalla traiettoria del proiettile.

Il rapinatore allora scappa, minacciando Luisa di morte se avviserà la Giustizia.

I  Carabinieri della stazione di Lago, avuta la segnalazione che Stefano De Vita si aggira lì intorno, il 12 marzo 1948 organizzano una battuta per arrestarlo, in esecuzione dei mandati di cattura per l’omicidio di Gaetano Reitano e di sequestro di persona e violenza carnale nei confronti di Fiorina Curcio, nonché del tentato omicidio di Mario Curcio. Ma, quando i Carabinieri si avvicinano alla casa dove sanno che è nascosto Stefano, vengono accolti da tre o quattro colpi di pistola sparati dal ricercato, che salta da una finestra e scappa verso la montagna. I militari si lanciano al suo inseguimento e riescono quasi ad accerchiarlo ma De Vita, favorito dall’accidentalità del terreno e sparando oltre cento colpi di moschetto e di pistola, riesce a scappare.

È ormai buio quando, il 7 aprile 1948, uno sconosciuto entra nel negozio di Giuseppe Naccarato in contrada Fossi del comune di Malito. Armi alla mano si fa consegnare i soldi della cassa, 44 mila lire, e poi si dilegua.

Ma ormai le contrade da Campora San Giovanni a Mendicino sono battute giorno e notte dai Carabinieri e così, due giorni dopo l’ultima rapina, una pattuglia comandata dall’Appuntato Bruno Barbieri avvista un uomo alto, snello, coi capelli neri ondulati, che indossa un pastrano militare con stellette e con in spalla un moschetto militare. Cercano di accerchiarlo e gli intimano di arrendersi. Ma l’uomo, con mossa fulminea si butta a terra e comincia a sparare vari colpi di moschetto e di pistola contro i Carabinieri, che rispondono al fuoco. Sono minuti concitati e pieni di terrore. Poi uno dei militari riesce a colpire l’uomo al braccio destro. Un grido di dolore e una imprecazione convincono l’Appuntato che è il momento di passare all’attacco lanciando alcune bombe a mano verso il nascondiglio del bandito il quale, pensando che sta per essere ammazzato, si arrende.

È finita, finalmente è finita. L’uomo, che altri non è se non Stefano De Vita, viene arrestato.

– Non ho opposto alcuna resistenza ai Carabinieri che volevano arrestarmi… non ho sparato alcun colpo contro di loro! Rapine? Quali rapine? Io scappavo per l’omicidio di Reitano, anche se ho sparato solo per difendermi, visto che stava per sparare contro di me, Fiorina e sua madre… Cosa? Sequestro di persona e violenza carnale? No… Fiorina mi ha seguito spontaneamente e dopo aver dormito in una casetta in montagna senza averla toccata, la mattina dopo è tornata a casa! Il fratello Mario? Lui mi ha sparato, io non gli ho fatto niente… Le armi che avevo? Le ho trovate durante il periodo della ritirata tedesca

Sfortunatamente per lui tutti i rapinati lo riconoscono. Le cose si mettono davvero male e potrebbero mettersi anche peggio se l’omicidio venisse riconosciuto come volontario e non per legittima difesa.

Stefano De Vita viene rinviato a giudizio per rispondere di 18 capi d’imputazione diversi che potrebbero portarlo dritto all’ergastolo. Ma durante il dibattimento, che si tiene presso la Corte d’Assise di Cosenza il 20 dicembre 1950, la difesa, molto accortamente, di fronte alla gravità delle numerose imputazioni, tenta il salvataggio nei limiti più consentiti e così, gradatamente, sostiene con brillanti argomentazioni che Stefano De Vita non è punibile per l’omicidio in danno di Gaetano Reitano per avere agito in istato di legittima difesa; che tutti i delitti di rapina contestati vanno unificati in un unico titolo di reato concorrendo le condizioni della continuazione; che va esclusa la volontà omicida nelle varie esplosioni dei colpi di arma da fuoco da parte di De Vita contro i Carabinieri nei due conflitti verificatisi; che, infine, è da scartarsi, in quanto giuridicamente inesistenti, sia la pretesa violenza carnale in danno di Fiorina Curcio, sia la violenza privata in danno di Mario Curcio.

La Corte accoglie subito la tesi difensiva riguardo all’omicidio di Gaetano Reitano per avere, effettivamente, agito in istato di legittima difesa. Accoglie anche la richiesta di unificare tutte le rapine nell’unico titolo di reato di rapina aggravata continuata, attesa l’evidente identità del disegno criminoso.

Per quanto riguarda un altro punto cruciale della vicenda, il sequestro e lo stupro di Fiorina, la Corte osserva che ha riscontrato la certezza che il fuori legge volle ancora una volta imporre la sua volontà esosa con la sua forza e la sua audacia: non è il sublime sentimento dell’amore, la calda passione che lo spiegarono ad impadronirsi, inauditamente, della giovane amata, ma una bassa, sordida cupidigia e la sua perversa anima che lo inducono a ghermire, a mò di falco, la piacente vittima e a portarla in montagna per sfogare su di essa la sua mal repressa libidine e i malcelati appetiti. In preda alla furia dei sensi nulla può e deve fermarlo, adusato com’è ad ottenere, nell’uso di ogni maleficio e di ogni violenza! Altro che consenso da parte della giovane! Se tanto ci fosse stato, come potrebbero giustificarsi e spiegarsi i particolari accorgimenti, la rapidità dell’azione, le modalità tutte del fatto? Volendo negare, egli giunge financo, in modo ridicolo, ad affermare non solo che la giovane restò con lui in montagna un solo giorno e non quattro, ma quanto di non essersi affatto congiunto carnalmente con la stessa! Sussiste anche il reato di violenza privata ai danni di Mario Curcio.

Per quanto riguarda i conflitti a fuoco con i Carabinieri, la Corte ritiene di potere affermare che la volontà omicida del sanguinario balza evidente, manifestata da tutte le modalità chiare, inequivocabili che ai fatti si accompagnarono: natura delle armi impiegate, distanza da cui i colpi furono sparati, numero dei colpi esplosi.

La quantificazione delle pene da infliggere a Stefano De Vita è impressionante: 24 anni di reclusione per il tentato omicidio aggravato continuato; 9 anni per il delitto di rapina aggravata continuata; 4 anni per la violenza carnale aggravata; 1 anno e 8 mesi per il reato di minaccia grave; 4 anni per la resistenza a pubblico ufficiale, aggravata e continuata; 1 anno e 6 mesi per violenza privata aggravata; 5 anni e 50.000 lire di multa per il porto abusivo di armi da guerra; 4 anni per sequestro di persona a fini di libidine, violenza privata e detenzione di munizioni da guerra. Farebbero in tutto 51 anni e 2 mesi di reclusione ma, concorrendo più pene per vari reati, il cui calcolo supera di gran lunga il periodo di anni 30, la pena complessiva va limitata ad anni 30 di reclusione e 70 mila lire di multa.

Il 23 gennaio 1953, la Corte di Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza, assolve Stefano De Vita dalle imputazioni di tentato omicidio aggravato continuato e dalla violenza carnale aggravata per insufficienza di prove e, riducendo le pene inflitte per gli altri reati, determina la pena complessiva da espiarsi in anni 22, mesi 2 di reclusione e 70.000 lire di multa.

Il 4 agosto successivo, in mancanza della presentazione dei motivi di ricorso per Cassazione, la pena diventa definitiva.[1]


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

Lascia il primo commento

Lascia un commento