Nel febbraio del 1915 nacque nel comune di Grimaldi da illeciti rapporti carnali un bambino conosciuto poi col nome di Antonio e senza essere denunziato all’Ufficio di Stato Civile.
Antonio viene raccolto ed allevato amorevolmente da Maria Caterina Parrillo, presso la quale rimane fino all’età di 17 anni. Una mattina del mese di aprile del 1932 Antonio abbraccia quella che è stata sua madre, la bacia e va in cerca di fortuna, asciugando furtivamente una lacrima. Maria invece piange a dirotto, non vorrebbe che il ragazzo se ne vada, ma sa che il mondo va così e che i figli, prima o poi, prendono la propria strada.
Antonio trova subito lavoro come pastore vicino casa, in contrada Torno, presso Michele Fontana, per il convenuto salario di lire 12,50 al mese, oltre all’alloggio e al vitto. Nei cinque mesi successivi il ragazzo conquista la fiducia del suo padrone e della moglie di questi, tanto che lo mettono a dormire nella stanzetta di passaggio tra la cucina e la camera da letto padronale, lasciando anche socchiusa la porta.
Verso la fine di agosto del 1932 Antonio ha bisogno di qualche soldo e siccome avanza due mensilità, cioè 25 lire, ne chiede il pagamento alla padrona.
– Se non li avete tutti, mi bastano 10 lire – aggiunge.
– Al momento non ho niente, ma se proprio ti servono dei soldi puoi vendere un po’ delle nostre patate…
Antonio, però, non crede opportuno di avvalersi di tale facoltà e preferisce aspettare che torni il padrone, cosa che avviene quattro giorni dopo, il 26 agosto. La domanda è la stessa e anche la risposta è la stessa: soldi non ce ne sono e perciò può vendere le patate.
Il ragazzo ci resta molto male perché sa che il padrone è stato ad una fiera per vendere delle pecore e siccome è tornato a casa senza gli animali, deve per forza avere dei contanti. La verità, pensa il pastorello, è che il padrone non vuole più pagarlo.
E se non vuole più pagarlo, lui gliela farà pagare amaramente: è questo il pensiero che lo assilla per tutto il giorno. Tiene per sé il turbamento, che con il passare delle ore diventa rabbia feroce, e si comporta come se nulla fosse accaduto, lavorando alacremente come al solito e, come al solito, sedendosi educatamente a tavola per la cena. Chiacchiera come al solito col padrone sul gradino della porta di casa mentre questi fuma un sigaro, poi, quando è ora di andare a letto, dà la buonanotte e si corica. Sono circa le 21,00 del 26 agosto e si è alzato un venticello che rinfresca l’aria.
Dopo un’ora Antonio si sta ancora rigirando nel letto senza riuscire a prendere sonno. Dalla camera da letto sente ronfare il padrone. Si alza, si veste di tutto punto, accende il lume, apre piano piano la porta della camera da letto: i padroni, illuminati dalla fioca luce del lume, appaiono addormentati profondamente. Dentro la stanza, al lato della porta, come al solito, è posata la scure del padrone. Antonio, posato il lume in modo da illuminare il letto, afferra l’arma con tutte e due le mani, si avvicina al letto dalla parte di Michele, solleva la scure sopra la testa e vibra un colpo con tutta la forza che ha sulla fronte del padrone, che ha un sobbalzo, muove un braccio che colpisce la moglie sul viso ed è già morto, con la scure saldamente infissa nel cranio.
Antonio scappa mentre la padrona vede l’orrendo spettacolo del marito con la scure in fronte, il sangue, misto a sostanza cerebrale, che schizza da tutte le parti e comincia ad urlare attirando l’attenzione dei vicini di casa che accorrono immediatamente. Qualcuno va a chiamare i Carabinieri e subito iniziano le ricerche del ragazzo.
Cosenza, 27 agosto 1932. Un ragazzo passeggia tranquillamente guardando estasiato le vetrine dei negozi, senza accorgersi che tutti lo guardano: i suoi vestiti sono sporchi di schizzi di sangue. Qualcuno avvisa i Carabinieri che lo fermano e lo portano in caserma per identificarlo: pensano che abbia problemi mentali perché dice di non sapere come si chiama di cognome. Il sangue? È un pastore e si è sporcato scannando una pecora. Che ci fa in città? Ne ha sentito parlare, non aveva mai visto una città e ci è venuto. Poi arriva il telegramma dei Carabinieri di Grimaldi che segnala un pastore, con gli stessi connotati del ragazzo, ricercato per omicidio. Lo arrestano e lo portano davanti ad un giudice.
Strano ma vero, il procedimento penale non può iniziare perché Antonio non ha un cognome e quindi bisogna prima istruire un procedimento civile per farlo inserire nei registri anagrafici di Grimaldi e il 22 novembre 1932, dopo la sentenza del Tribunale di Cosenza, l’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di nascita può procedere alla tardiva iscrizione dell’atto di nascita, dal quale risulta che Antonio nacque nel febbraio 1915 e che gli viene imposto il cognome di Bertolone.
Adesso Antonio Bertolone è ufficialmente imputato di omicidio in persona di Michele Fontana, aggravato dai futili motivi, con sevizie e crudeltà per avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa e, infine, con abuso di relazioni di prestazioni d’opera e di coabitazione.
Antonio Bertolone confessa tutto pienamente e il 28 dicembre il Giudice Istruttore lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza. Il dibattimento è fissato per il 10 maggio 1933.
C’è subito una sorpresa: Antonio ritratta tutto: la confessione gli è stata estorta, dice. Adesso racconta:
– Quando gli chiesi i soldi mi malmenò con pugni e calci e mi disse: “Io faccio a te ciò che ho fatto ad altri, vattene via, non ti voglio pagare!”. Allora io reagii vibrando al padrone un colpo di scure alla testa… eravamo davanti alla porta di casa e c’era anche la moglie… potevano essere le otto di sera. Quando cadde a terra la moglie lo prese, lo spogliò e lo mise a letto.
– Perché la moglie invece di chiamare subito aiuto avrebbe portato il marito a letto? – gli chiede il Presidente.
– Per aggravare la mia posizione…
È una ricostruzione fantasiosa perché urta contro la logica ed il buon senso ed è smentita da elementi generici e specifici acquisiti al processo. Innanzi tutto è impossibile che Antonio possa essere riuscito a colpire Michele Fontana nelle circostanze che ha descritto perché non appena avesse fatto atto di prendere la scure ne sarebbe stato impedito da Fontana e dalla moglie, che per essere giovani forti e robusti facilmente avrebbero accoppato il loro garzoncello diciassettenne. E poi, si può mai concepire che una moglie, nel vedere il marito cadere a terra mortalmente ferito, abbia avuto da sola la forza ed il coraggio di sollevarlo e trasportarlo nell’interno dell’abitazione e per giunta abbia pensato a spogliarlo ed adagiarlo sul letto al solo scopo di aggravare la posizione dell’imputato?
Ma a parte queste considerazioni logiche, ci sono degli elementi certi ed inoppugnabili a dimostrare che non può essere come ha detto Antonio: nessuna traccia di sangue fu rinvenuta davanti alla porta di casa, quindi il ferimento non potette avvenire colà. Inoltre c’è la testimonianza di un vicino di casa, il primo ad arrivare sul posto, il quale afferma di essere arrivato alle 22,30 e di avere trovato Michele che spirò proprio in quel momento e se dalla perizia risulta che la morte avvenne subito dopo il ferimento, ne consegue che il ferimento avvenne dopo le 22,00 e non due ore prima. Poi l’ultima e decisiva prova: il colpo di scure poté essere stato inferto solo mentre Michele era steso sul letto e non in piedi, innanzitutto perché solo sul letto fu rivenuto del sangue e poi perché è risaputo che quando si colpisce con la scure una persona che ci sta di fronte in piedi, la lesione è sempre verticale o trasversale, mentre la lesione riportata in fronte dal povero Fontana è in senso orizzontale, il che dimostra ancora meglio che fu colpito mentre era immerso nel sonno.
Antonio Bertolone ha il proprio destino segnato.
La Corte, però, non rinviene gli elementi per contestare all’imputato le aggravanti richieste: la futilità dei motivi deve essere subiettiva e rapportarsi alla mentalità ed alla educazione dell’agente. Ora, se questi è un contadino vissuto sempre in mezzo ai boschi e che prestava la sua opera per lire 12,50 al mese, il rifiuto del pagamento di 10 lire è stato per lui un motivo più che proporzionato a determinarlo ad uccidere. Non sussistono le aggravanti dei futili motivi e della crudeltà perché non risulta che il Bertolone abbia adoperato sevizie od abbia agito con crudeltà, non potendosi comprendere in queste ipotesi la gravità del delitto, la quale deve avere il suo peso nella misura della pena affidata al prudente arbitrio del giudice.
25 anni di reclusione, di cui 5 condonati. Totale 20 anni, più pene accessorie.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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