IL PESANTE FARDELLO

Attilio De Aloe è il responsabile dell’Ufficio del Dazio del comune di Bonifati. Alle 20,45 del 25 marzo 1932 è ancora in ufficio, intento a chiudere i conti della giornata, quando sente un tonfo, come un grosso fagotto caduto dall’alto. Non presta molta attenzione, è troppo concentrato su quelle maledette cifre che non vogliono quadrare, ma poi il mormorio di due o tre persone, frasi sommesse e disperate, tentativi di trascinare il pesante fardello che era caduto, cominciano a fargli venire il dubbio che qualche cosa di grave è successa.

Mara mia che disgrazia… è morto! Mò jamo tutti in galera! – questa chiara esclamazione di una voce femminile proveniente da quel gruppo gli toglie ogni dubbio residuo e decide di andare ad avvisare il vice podestà del paese, Aurelio Pascale. Esce dall’ufficio e attraversa Piazza Principe, da dove provenivano i rumori. Non c’è nessuno, evidentemente gli sconosciuti si sono accorti che la luce nel suo ufficio era stata spenta e sono scappati. Però nota un particolare che lo insospettisce: le luci della casa della famiglia Martino, il punto esatto da dove provenne il tonfo, sono accese e improvvisamente si spengono tutte insieme. “Che i Martino c’entrino qualcosa?” pensa tra sé e sé.

In meno di mezz’ora De Aloe torna con suo fratello Lucio, con il il vice podestà e con un altro amico, Armando De Napoli. I quattro vanno dritti nel punto dove De Aloe ha detto di aver sentito il tonfo e devono constatare che a terra, a circa un metro dalla casa di Gregorio Martino, quasi moribondo ed in una pozza di sangue, c’è il quarantatreenne contadino Luigi Lombardo.

Date le condizioni disperate in cui Lombardo versa, il vice podestà dispone che, in attesa dell’arrivo del dottor Francesco Barbieri, sia trasportato nella vicina farmacia. Quando il medico arriva, Lombardo è sempre incosciente e sanguinante dalle narici, dall’orecchio sinistro e dalla testa.

Vasta ecchimosi sulla regione parieto-temporale destra, estendentesi alle palpebri dell’occhio omonimo e probabile frattura dell’istesso parietale – comincia a dettare –  sulla regione parietale anteriore destra altra lesione lacero-contusa profonda fino all’osso. Giudico dette lesioni, con conseguente commozione cerebrale e probabile emorragia interna, prodotte da forte contusione per caduta od altro ed essere il Lombardo in pericolo di vita.

Se il ferito è tanto grave, è meglio portarlo a casa e farlo morire nel suo letto. Ed è ciò che avviene dopo un paio di ore, senza aver potuto chiarire in qualche maniera la causale che aveva cagionato la sua fine.

Nel frattempo, il vice podestà, con la guardia municipale Giuseppe De Daniele, sono tornati sul posto del rinvenimento di Lombardo per cercare qualche dato che potesse lumeggiare l’accaduto e, non trovando traccia di sangue in quei pressi, se non due chiazze proprio dove giaceva Lombardo, né altro oggetto che avesse potuto far intravedere un’aggressione, bussano a casa di Gregorio Martino per fargli qualche domanda:

– Non sappiamo niente… non abbiamo sentito niente e ora scusatemi, ma torno a letto…

La cosa, al vice podestà, puzza e manda immediatamente la guardia ad avvisare i Carabinieri di Belvedere Marittimo, ma ci vorrà il mattino seguente perché riescano ad arrivare sul posto, dove il vice podestà, esercitando il suo potere, ha provveduto a mettere in stato di fermo Gregorio Martino pei suoi precedenti, per la sua indole violenta, per la condotta serbata la precedente sera e, infine, perché, in considerazione di tutto, non può essere estraneo alla cosa.

Il Maresciallo Maggiore Domenico Trivieri e i suoi uomini cominciano immediatamente a fare rilievi e ad interrogare testimoni, ma per entrare veramente nel vivo delle indagini è necessario l’intervento del Pretore di Belmonte Calabro, il Cavalier Alfonso Giannuzzi, il quale per prima cosa vuole fissare su carta la descrizione dei luoghi con tutto ciò che emergerà di interessante per le indagini. Si comincia dall’ampia piazza Principe, in fondo alla quale sorge la casa di Gregorio Martino, composta di quattro piani. Il primo piano è rappresentato di due vani, uno con porta sulla piazza, adibito a stalla, e l’altra con porta che si apre sotto un arco, adibito a magazzino di oggetti diversi. Tali vani sono terreni. Agli altri tre piani si accede da una lunga tesa di scale esterna, in capo alla quale è il portone d’ingresso, formato in gran parte da legname e in piccola parte da sbarrelle di ferro collocate nelle regioni centrali e superiori dei due battenti, attraverso le quali sbarrelle si può introdurre facilmente un braccio. Dopo il portoncino è un pianerottolo di cemento armato, della lunghezza di circa tre metri e della larghezza di circa due metri. Tale pianerottolo viene chiamato dai Martino “loggetta”. Il pianerottolo resta delimitato:

1) a destra dal muro maestro della casa, nel quale si apre un arco senza imposta. Detto arco finisce in un parapettino in muratura che parte dal pavimento del pianerottolo e si eleva per un’altezza di cm. 33 e ha la larghezza di cm. 35 circa. Schizzi piccoli di sangue si osservano sul para pettino, ossia su una pietra e due mattonacci che, con le dovute cautele, vengono scalcinati e repertati.

2) a sinistra da altro muro in cui si apre una porta che immette in una camera da letto dove dormiva Carmine Martino e un attiguo stanzino contenente un cesto di biancheria sporca, scarpe e indumenti vecchi, delle patate e due damigiane.

3) dal muro sul quale è il portoncino d’ingresso.

4) da una piccola tesa di scalee da un localello al lato della tesa; tesa e parapetto restano di rimpetto al portoncino.

Dalla loggetta, per mezzo di tre tese di scale, una delle quali, la centrale, resta allo scoperto e permette la penetrazione dell’acqua piovana, si ascende al terzo piano dov’è la camera da letto dei coniugi Martino, dove c’è un asciugamani con piccolissimi schizzi di sangue, e un camerino attiguo dov’è il letto della figlia Laura. Un’altra tesa di scale conduce al quarto piano, dov’è un’ampia soffitta adibita a cucina dalla quale, per mezzo di tre scalini in legno si passa ad altra ampia soffitta adibita a deposito di carbone, di oggetti vecchi di terracotta, di cesti vuoti, di barattoli di coccio, di sacchi ed altre cose. In quest’ultima soffitta, a dei fili di ferro sono appesi un paio di calzoni, una giacca da uomo di stoffa grigia di tipo militare e una gonna da donna, tutti bagnati per recente lavatura. La giacca ed i calzoni presentano evidenti tracce di macchie di sangue, per cui vengono repertati.

Poi il Pretore esce sulla piazza dove non c’è pavimentazione, ma solo terra battuta, e constata che a soli 30 centimetri dal muro della casa dei Martino e in corrispondenza del parapettino c’è una chiazza di sangue. Poco più avanti c’è la chiazza di sangue dove è stato trovato morente Lombardo. Tra la prima e la seconda chiazza di sangue, segni di trascinamento.

A questo punto è chiaro che qualcuno della famiglia Martino è coinvolto in questa brutta faccenda e per gli inquirenti questo qualcuno non può non essere Gregorio Martino.

Rosa Iovino, la fresca vedova, racconta tutto al Maresciallo Trivieri:

– Ieri mio marito è stato in campagna a lavorare e si è ritirato verso le 13. Qualche ora dopo ha venduto una capra per 50 lire e io gli ho detto che ero molto scontenta. L’ho rimproverato e per questo mi ha dato qualche schiaffo. Poi è uscito e non ha fatto più ritorno. Verso le 21,30 ho mandato mio nipote Giuseppe Martino… un figlio di Gregorio… per cercarlo, ma ancora non sapevo…

– Sapete se aveva dei nemici?

– L’unico con il quale pochi mesi addietro e per futili motivi ha avuto che dire, era Gregorio…

Giuseppe Martino, nipote acquisito di Rosa Iovino avendo sposato una nipote diretta della donna, nega che tra suo padre e Lombardo ci fossero delle questioni. Poi aggiunge qualcosa che fa drizzare le orecchie al Maresciallo:

La morte deve essere stata causata non da una caduta dai suoi piedi, né da colpi ricevuti altrove

I coniugi Martino, chiamati a dare conto delle macchie di sangue trovate in casa, sostengono che si tratta del sangue di una gallina rimasta ferita ad una zampa circa 6-10 giorni addietro. I figli Laura e Carmine, invece, non sanno dare alcuna spiegazione in merito. E i sospetti si fanno sempre più pesanti, ma il problema è che sembra non esserci alcun movente ad avvalorare la tesi che Lombardo sia stato prima colpito con un corpo contundente e quindi buttato giù dalla loggetta, se non il fatto che Gregorio Martino è brutale allorquando è ubriaco e ciò gli succede spesso, come afferma quasi tutto il paese.

Per cercare di forzare Gregorio Martino a confessare, il Maresciallo mette in stato di fermo anche la moglie e il figlio Carmine, senza ottenere risultati. Poi porta in caserma anche Laura, la figlia e Gregorio comincia ad ammettere qualcosa:

– Sabato sera… il 26… Luigi Lombardo è venuto a casa mia per passare qualche ora in compagnia. Tra una parola e l’altra abbiamo mangiato un pezzettino di pane e un po’ di salame, bevendo anche qualche bicchiere di vino. Poi siamo andati in piazza e. ad un certo punto, Lombardo si è congedato dicendo che doveva andare a fare un’imbasciata. Dopo un’ora, mentre stavo rincasando, Luigi è ricomparso e io l’ho invitato ad entrare in casa e abbiamo cenato in perfetta armonia. Appena terminato di cenare mia moglie e i miei figli sono andati a letto e subito dopo Luigi si è licenziato per andarsene. Potevano essere le 20,30. Ho fatto luce nella scala fino a quando mi sono assicurato che Luigi era uscito, ho chiuso la porta e sono andato a letto. Era trascorso un quarto d’ora o venti minuti quando, essendo ancora sveglio, ho sentito aprire il portone e poscia un tonfo nella strada sottostante alla mia loggetta. Impressionato di ciò mi sono alzato portando meco il lume a petrolio, ma il vento ha smorzato il lume cosicché non ho potuto vedere cosa era successo. Ho preso allora una lanterna e sono sceso in strada dove ho trovato steso per terra Luigi Lombardo. Ho cercato di sollevare il disgraziato chiamandolo per nome… intimorito ho esclamato: “O che disgrazia!”. Ho cercato di nuovo di sollevarlo, ma poi, preso dal panico pensando che potesse essere stato ferito da altri, l’ho abbandonato e mi sono rinchiuso in casa senza dire niente ai miei. Nello sforzo di sollevarlo da terra, la sua giacca si è appoggiata sulla mia giacca e sui pantaloni macchiandoli di sangue, per cui me li sono tolti e l’ho messi sulla terrazza superiore perché si lavassero all’acqua piovana, dato che pioveva…

Potrebbe anche essere andata così, ma resta il macigno della testimonianza di De Aloe che sostiene di aver sentito più persone parlottare tra di loro. È evidente che tale dichiarazione non è sincera: se Martino avesse avuto l’animo tranquillo, scrive il Maresciallo, non avrebbe certamente perduto tempo e avrebbe chiesto soccorso e se anche fosse rimasto sbigottito in un primo momento, avrebbe ubbidito più tardi agli insistenti inviti del vice podestà. Avrebbe, infine, dichiarata al principio la verità.

Allora Carmine, il figlio di Gregorio, pensando di aiutare suo padre, racconta di essere stato presente quando Luigi Lombardi è caduto dalla loggetta mentre stavano scendendo insieme le scale illuminate dal lume che teneva in mano suo padre e che il vento, all’improvviso, ha spento. È stato proprio in quel momento che Luigi forse si è confuso e invece di imboccare le scale per scendere in strada, ha girato dalla parte del parapetto precipitando di sotto. Poi lui e suo padre sono scesi per prestare aiuto a Luigi e poi non sa più come giustificare il fatto di averlo lasciato lì. Giura che sua madre e sua sorella non sanno niente di niente. E infatti, interrogate, negano addirittura che Luigi Lombardo sia stato a casa loro tra il pomeriggio e la serata del sabato.

Il Maresciallo ha un’altra idea su come andarono i fatti: il ballatoio da dove Lombardo sarebbe caduto è alto dal suolo metri 3,40. Ne consegue da tale altezza costui non poteva riportare le lesioni multiple e la quasi completa frantumazione del cranio, quando si pensi che il suolo su cui ha battuto la testa è formato di terra piana senza alcuna sporgenza o acciottolato. Oltre le lesioni alla testa, Lombardo aveva una ecchimosi sotto l’ascella destra ed una al fianco sinistro: cadendo si sarebbe dovuto ferire o da un fianco o dall’altro. Segno evidente, questo, che prima di cadere dal ballatoio egli aveva già sostenuto una lotta, durante la quale era stato ripetutamente percosso. Ma manca ancora il movente per chiudere il cerchio. E qui il ragionamento del Maresciallo si sgonfia: per quanto il nostro interessamento nulla abbia risparmiato per raggiungere lo scopo e dileguare qualsiasi dubbio che potesse sorgere, non si è potuto ancora scoprire la vera causa, il vero preciso motivo per cui i Martino ebbero ad uccidere.

E le indagini continuano. Verso i primi di maggio, il Maresciallo pensa di avere risolto il caso ipotizzando che oltre a Gregorio Martino, sua moglie e suo figlio Carmine, ha partecipato all’omicidio un’altra persona: Giuseppe Martino, l’altro figlio di Gregorio, inizialmente escluso dai sospettati perché la vedova aveva dichiarato che Giuseppe era stato con lei ad aspettare il marito per circa un’ora e mezza. Adesso però, a mente fredda, ricostruisce i fatti e racconta una storia che fa rabbrividire:

Una sera del mese di dicembre 1931 o gennaio 1932, verso le 22, mia nipote Giuseppina De Brasi, moglie di Giuseppe Martino, è riparata in casa mia, seminuda e ferita di coltello al fianco. Domandatole spiegazioni, essa ci ha riferito che pochi minuti addietro, per futili motivi, era stata aggredita dal marito che, dopo averla bastonata, aveva anche tentato di ucciderla. Giuseppina perdeva sangue e abbiamo mandato a chiamare il dottor Francesco Barbieri che è venuto e l’ha medicata, cucendola anche con un punto. L’indomani mattina si è presentato da noi Gregorio Martino, il padre di Giuseppe, per chiedere notizie della nuora e ha rimproverato acerbamente me e mio marito pel fatto che avevamo mandato a chiamare il medico, il quale avrebbe dovuto certamente dar parte alla giustizia. Dopo svariati giorni siamo riusciti a mettere pace tra i due coniugi e mia nipote è tornata dal marito, ma dopo un’altra ventina di giorni Giuseppina è dovuta tornare da noi perché il marito l’aveva picchiata di nuovo. Mio marito ha dovuto richiamare Giuseppe, tipo violentissimo e vendicativo, che qualche volta si è lasciato sfuggire delle frasi di minaccia contro mio marito. Lo ha minacciato di nuovo un mesetto fa, quando mio marito e Giovanni De Brasi gli avevano tolto di mano la rivoltella che stava puntando contro Giuseppina…

– Lo state accusando di avere ammazzato vostro marito? Qualche giorno fa gli avete fornito voi l’alibi… come spiegate questo fatto?

– In effetti io ho detto che quella sera Giuseppe si trovava con me da circa un’ora e mezza in attesa di mio marito, ma egli si presentò a casa solo 15 o 20 minuti prima che portassero Luigi moribondo. Mi disse di averlo visto almeno un paio di ore prima e io, temendo che gli fosse successa qualcosa perché non tardava mai, pregai Giuseppe di andare a cercarlo. Lui è uscito, ma dopo pochi passi è tornato indietro e ha detto che aveva paura di andare perché la notte precedente aveva sognato del sangue. A tale rivelazione io ho capito che era successa qualcosa di brutto e l’ho pregato di nuovo di andare a cercarlo e lui, questa volta è andato, tornando dopo pochi minuti in compagnia di tutti gli altri che trasportavano mio marito. All’inizio ho creduto che si trattasse di una cosa da niente e non ho parlato a nessuno, nemmeno a vostra signoria, di questo fatto. Nemmeno la mattina dopo, quando mi si è avvicinato Giovanni De Brasi e mi ha raccomandato di non fare il nome di Giuseppe altrimenti lo avrei perduto, ho saputo dare il giusto peso alla cosa… ma poi ho capito e dico le cose come sono…

Questa dichiarazione è sufficiente a provare che nel delitto Giuseppe Martino ebbe parte attiva e forse preponderante.

Giuseppe Martino si dichiara estraneo ai fatti, ma non riesce a ricostruire con certezza i suoi movimenti nella sera del delitto e i Carabinieri sono certi che sia stato in casa del padre per ammazzare Luigi Lombardo, perché Giuseppe stesso esclude di essere stato a casa sua con la moglie, perché la zia esclude che sia stato con lei per un’ora e mezza, perché per le vie non è stato visto da nessuno, né sa indicare con quale persona si sia accompagnato. L’unico posto che rimane, quindi, è la casa paterna.

Con l’ingresso di Giuseppe Martino tra i sospettati è ora possibile anche ipotizzare un movente: vendicarsi dei reiterati ammonimenti dello zio.

L’ipotesi che ad uccidere Luigi Lombardo sia stato anche Giuseppe Martino è sostenuta da un anonimo che scrive al Maresciallo Trivieri:

Bonifati 28-4-932

Signor Maresciallo dei RRCC Belvedere Marittimo

Chi scrive conosce i veri rei dello omicidio del 27-3 u.p. mese di questo anno. Luigi Lombardo estato ucciso da Martino Giuseppe e Carmine, figli di Gregorio; il padre e madre sono innocenti!!!

Non mi manifesto per paura essendo loro famiglia sanguinaria, fate giustizia e con le palate loro saranno costretti a confessare.

Il Pretore, delegato alle indagini, però non crede che Giuseppe Martino la sera in cui Luigi Lombardo morì sia stato in casa del padre. Più probabile è che sia stato davvero in casa della zia per circa un’ora e mezza. D’altra parte nemmeno la zia fornisce elementi certi per dimostrare che Giuseppe arrivò solo 15 o 20 minuti prima che Luigi fosse portato a casa moribondo. Quindi non prende nessun provvedimento nei confronti di Giuseppe Martino e le cose tornano al punto di partenza: ci sono dei sospettati ma non c’è un movente e se non c’è un movente è un problema. Un problema tanto grave che, il 26 luglio 1932, il Procuratore Generale del re chiede al Giudice Istruttore di dichiarare chiusa l’istruttoria e di prosciogliere Gregorio Martino, sua moglie Maria Giuseppa Quintieri e suo figlio Carmine dall’accusa di omicidio in concorso, per insufficienza di prove.

Tre settimane dopo il Giudice Istruttore accoglie la richiesta e proscioglie gli imputati per insufficienza di prove.[1]


[1] ASCS, Processi Penali.

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