DEL PERDUTO AMORE

Quando il vedovo Bettino Vanzillotta sposa Maria Venere Maio le porta in dote, se così si può dire, i 7 figli che gli ha dato la prima moglie. Poi arrivano altri due figli e la vita si fa molto dura nell’unica stanza della loro casa in contrada Sant’Elia a Paola. Ma a Bettino la forza e la volontà non mancano e riesce a mantenere la famiglia meglio che può. Intanto i figli più grandicelli cominciano a fare qualche lavoretto e le cose sembrano mettersi al meglio.

Poi accade che nel 1930 Bettino viene attratto dalle lusinghe di una donna molto più giovane di lui, Innocenza Pulice la quale, separata di fatto dal marito, pare che si sia data a vita licenziosa. I due iniziano una tresca adulterina senza preoccuparsi né del biasimo che su di lui ricadeva da parte della cittadinanza, né del disordine che introduceva nella propria famiglia e tantomeno del rancore che cagionava alla moglie.

Col passare del tempo il legame tra Bettino e Innocenza si rafforza e la donna acquista sull’animo dell’amante un vero ascendente e, menandone vanto, va propalando tra parenti ed amici che oramai Bettino è a lei avvinto in modo indissolubile ed, anzi, di lì a poco abbandonerà il tetto coniugale ed andrà ad abitare secolei more uxorio.

Maria Venere, poveretta, sa tutto perché le vanno a raccontare tutto, ma sopporta e soffre in silenzio, preoccupata della sorte dei nove figli e sperando che per l’avvenire il marito avrebbe mutato condotta, concedendosi senza protestare ogni volta che il marito la pretende.

Ma passano un paio di anni e la condotta di Bettino non cambia. Poi nella seconda metà del 1932 un nuovo fatto viene ad aggravare l’angoscia di Maria Venere. Una sera, dopo aver soddisfatto le voglie del marito, questi, mentre si riveste per andare da Innocenza, le dice quasi con noncuranza

– Ho il male celtico… adesso lo hai anche tu…

Maria Venere non deve penar molto per scoprirne l’origine, anzi la attribuisce subito a Innocenza, dalla quale, è ovvio, Bettino è stato contagiato. E ha perfettamente ragione: la mattina dopo, Innocenza passa davanti alla casa di Maria Venere, che la ferma e l’affronta

– Gliel’hai attaccato tu?

– Che cosa?

– Il male celtico… ieri sera mi ha detto che lo ha e me lo ha attaccato…

– Ah! Si si, io lo ho e gliel’ho attaccato… adesso ce l’hai anche tu e mi pare pure giusto! – termina, ridendo, mentre si allontana.

Maria Venere, già sconfortata per la tresca adulterina, va su tutte le furie. È il 20 settembre 1932. Passano un paio di ore durante le quali la donna non trova pace per il suo triste destino. Si prende a schiaffi, batte la testa al muro, piange. Poi si calma di botto. È mezzogiorno, ormai. Va verso il letto matrimoniale dalla parte dove una volta, adesso solo quando capita, dormiva Bettino. Solleva il materasso dalla parte della testa. Si, è sempre lì il coltello a serramanico del marito. Lo prende, lo mette nella tasca del grembiale ed esce. Una luce sinistra le illumina gli occhi.

Innocenza, prima di mezzogiorno  accende il fuoco e mette sul treppiede una casseruola con un po’ di verdura. La porta di casa è aperta.

La giovane è intenta a rimestare la verdura e non vede la figura che si staglia sull’uscio. Un urlo disumano: Maria Venere si scaglia su Innocenza che non ha nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stia accadendo. La prima coltellata la colpisce violentemente sotto la scapola destra e le perfora il polmone, che subito collassa. La seconda, a sinistra della colonna vertebrale, è quella fatale perché recide l’arteria polmonare. Le altre tre sono inutili, Innocenza è già praticamente morta.

Maria Venere è caduta a terra, in ginocchio, insieme alla sua vittima. È coperta di sangue e tiene ancora il coltello con tutte e due le mani, alzato, come se volesse colpire ancora. Poi scoppia a piangere, abbassa le braccia senza più quella rabbia e quella forza che l’avevano sostenuta e lascia che le sue lacrime si mischino col sangue di Innocenza. Si alza e, come inebetita, si avvia verso la caserma dei Carabinieri per costituirsi.

– L’ho ammazzata… ho sopportato tutto… ho sperato che mio marito tornasse e tornasse anche l’armonia che c’era tra noi prima… ma mi ha fatto attaccare il male celtico… a me che me ne stavo zitta… non ci ho visto più…

Tutti i testimoni che vengono ascoltati confermano le preoccupazioni di Maria Venere per il futuro dei figli, la silenziosa sopportazione della tresca nella speranza di un cambiamento, il suo abbattimento d’animo per il perduto affetto del marito, la sua irreprensibile condotta morale. Ma c’è una donna uccisa con cinque coltellate.

Maria Venere Maio viene rinviata a giudizio con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.

Il 16 ottobre 1933 inizia il dibattimento presso la Corte d’Assise di Cosenza e la Corte sgombra subito il campo da ogni ombra: la volontà omicida è accertata dall’arma usata, dalla reiterazione dei colpi, dagli organi vitali lesi e dalla confessione immediata e spontanea. Ma non ha fondamento l’aggravante della premeditazione aggiunta al delitto in quanto che, stando ai risultati delle prove, nessun rilevante intervallo di tempo corse tra la determinazione della volontà al delitto e la esecuzione di esso sicché, nella quasi istantaneità del fatto, la Maio non poté nulla preordinare, né circa la perpetrazione dell’omicidio, né intorno ai mezzi necessari per procurarsene l’impunità. Allora la difesa insiste perché sia applicata l’attenuante del delitto d’onore. La Corte però non è d’accordo in quanto che la Maio non uccise nell’atto in cui scopriva l’illecita relazione tra il marito e la Pulice, ma commise il reato dopo lungo intervallo di tempo e cioè circa due anni dopo che della tresca adultera aveva avuta sicura notizia, come ella stessa riconosce nel suo interrogatorio.

E allora? La Corte ha raggiunto delle certezze: Non si può però a lei negarsi l’attenuante che fu spinta al delitto dal risentimento concepito per lo sfacelo morale in cui la sua famiglia era caduta a causa della tresca adultera la quale, non solo aveva distrutto l’armonia già esistente tra lei ed il marito ma costituiva per i figli più grandicelli di Bettino un triste esempio di demoralizzazione e corruzione. E poiché la causa di tanta rovina doveva attribuirsi alla Pulice, all’uccisione di costei si orientava il pensiero della Maio tutte le volte che ella, rimpiangendo la perduta unità e purezza del sentimento domestico, si sentiva spinta a desiderare il ritorno allo stato felice che aveva contrassegnato i primi anni della sua vita coniugale. Riesce pertanto evidente che la Maio fu spinta al delitto da motivi di particolare valore morale, quali appunto sono quelli che trovano origine nel culto degli affetti familiari e nello sviscerato attaccamento alla loro inviolabilità e santità.

 Non basta. La Corte ritiene che ci sia un’altra attenuante che si deve concedere a Maria Venere: giacché ella che, fino al 20 settembre 1932, aveva con longanimità sopportato la tresca adultera, montò improvvisamente in ira il detto giorno perché la Pulice, non soddisfatta di avere gravemente offeso la famiglia di lei, era giunta a tale grado di perfidia da contagiare l’amante di malattia venerea, pur essendo ben sicura che quegli l’avrebbe senz’altro comunicata alla moglie. Lo stato d’ira in cui costei si trovò nel momento del fatto risulta chiaramente dalle prove, come risulta che l’ira fu cagionata dal fatto ingiusto della Pulice la quale, sibbene fosse affetta da morbo celtico, aveva continuato a mantenere relazioni intime coll’amante.

A questo punto l’accusa fa notare che le due attenuanti sembrano in contrasto tra di loro e sarebbero di difficile applicazione contemporanea. La Corte confuta questa ipotesi sostenendo che le due attenuanti non sono incompatibili in quanto che ciascuna di dette attenuanti dipende da una causa speciale: la prima dall’angoscia della famiglia e dall’aspirazione a ricuperarla e l’altra dal risentimento concepito da lei per l’offesa recatale dalla Pulice. Non può neanche dirsi che una sola circostanza di fatto si faccia funzionare due volte, giacché, nella specie, i fatti sono due ed i motivi di particolare valore morale precedono e non possono confondersi con l’ira da lei concepita a causa della contratta malattia.

 La difesa tenta anche un’altra carta per diminuire ancora il peso della inevitabile condanna: chiedere la concessione di un’altra attenuante, quella che viene concessa quando l’imputato risarcisce la parte lesa prima del giudizio, ma questo è un vero azzardo perché Maria Venere non ha mai risarcito, né in tutto né in parte, il danno cagionato e soltanto il marito di lei (che adesso si è ravveduto) ha promesso di pagare al padre dell’uccisa £ 200, che però non ha mai pagato.

Non resta che calcolare la pena da applicare. La Corte osserva che deve aversi riguardo all’entità del fatto, ai precedenti penali della Maio (che sono buoni), alla condotta morale da lei serbata (che è irreprensibile) ed al grado di pericolosità sociale da lei dimostrato ( che non è elevato) e sembra quindi giusto partire dalla misura minima stabilita dalla legge, cioè da anni 21 di reclusione. Diminuita di un terzo per l’attenuante dei motivi di particolare valore morale e quindi di un altro terzo per lo stato d’ira, detta pena riducesi ad anni nove e mesi quattro, di cui debbono dichiararsi condonati anni tre in virtù dell’indulto concesso con R. Decreto 9 novembre 1932. In tutto fanno 6 anni e 4 mesi, più le pene accessorie.

Maria Venere non ricorre in appello, ma dopo tre anni di carcere per lei c’è una graditissima sorpresa: Vittorio Emanuele III, con decreto del 9 luglio 1936, si è degnato di concedere alla stessa la grazia, condonando il resto della pena, a condizione che il condono si avrà come non conceduto se nel termine di cinque anni dalla data del suddetto decreto commetterà un nuovo delitto.[1]


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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