LA BESTIA

– Ciccio, hai visto Francesco? – è Rosaria Garofalo, 10 anni, a chiedere al ventenne Ciccio Spina se ha visto il suo fratellino di 8 anni che manca da casa da quella mattina, il 30 dicembre 1934.
– No, non l’ho visto…
– Siamo tutti preoccupati… mamma e i vicini lo stanno cercando dovunque… e pure io – gli dice, scoppiando a piangere.
– Se lo vedo lo mando subito a casa – le dice, poi continua ad andare per la campagna.
Rosaria è una bambina, ma nonostante stia piangendo per la disperazione di non poter trovare il suo fratellino, non può fare a meno di trovare strano il comportamento di Ciccio Spina, quasi indifferente alla brutta notizia. Eppure lui e il piccolo Francesco fino a qualche giorno prima erano praticamente inseparabili.
Facciamo un passo indietro. È il mese di luglio del 1934 quando Ciccio Spina, pericoloso ladro, viene scarcerato dopo l’ennesima condanna. Tutti lo evitano, è disperato, muore quasi di fame, ma due persone hanno compassione e lo accolgono nella loro casetta in contrada Farnese di Rogliano: Giovanni Ferraiuolo e la sua compagna Maria Garofalo. Gli offrono lavoro, una piccola paga, vitto e un giaciglio nel pagliaio. Ciccio Spina è salvo! I mesi passano e il piccolo Francesco gli si affeziona in modo quasi morboso, ricambiato, ma quando arriva l’inverno il lavoro nella piccola proprietà scarseggia, le provviste non sono sufficienti per tutti e Giovanni e Maria, a malincuore, sono costretti a licenziare Ciccio, dopo avergli fatto consumare con la famigliola, tutta riunita, la cena della vigilia di Natale.
– Buona fortuna! – gli augurano, salutandolo, Giovanni e Maria.
– Grazie… posso dormire anche stanotte nel pagliaio? Stare fuori stanotte con questo freddo…
– Certamente! – lo interrompe Giovanni – dormi e domani mattina presto parti.
La notte di Natale è lunga da passare con la disperazione di non avere più niente da mettere sotto i denti e un tetto per ripararsi. Una rabbia sorda comincia a montare nell’animo di Ciccio Spina, venti anni da Parenti.
La mattina di Natale il ragazzo lascia il pagliaio e si incammina, ma non si allontana. Rimane a vagare in quei pressi con intendimenti non perfettamente precisati. In effetti un intendimento ci sarebbe: il piccolo Francesco sa dove si è riparato, ruba qualcosa da mangiare e glielo porta. Ogni giorno per cinque giorni.
La mattina del 30 dicembre Francesco gli porta la fettina di pane che avrebbe dovuto mangiare per colazione. Ciccio la mangia avidamente in un solo boccone, poi accarezza la testa del suo piccolo benefattore e gli dice:
– Vieni con me, ti faccio vedere dove l’estate prossima, quando io non ci sarò più, potrai trovare dei nidi…
Francesco gli porge la manina e i due si incamminano verso una località aspra e selvaggia. Lasciano il sentiero e si avvicinano al ciglio di un burrone.
– Guarda, guarda qui sotto, è dove ci troverai i nidi – Francesco si avvicina, si sporge, poi gira lo sguardo verso il suo amico fidato che gli fa segno di sporgersi un po’ di più e lui ubbidisce.
Ciccio gli è dietro, i suoi occhi si sono sinistramente illuminati della luce dell’odio. Lo spinge. Il piccolo precipita nel vuoto con un urlo straziante che lacera i timpani della bestia che lo vuole morto, come ricompensa per la sua fedeltà.
Mamma mia! – poi un tonfo sordo. Poi silenzio. La bestia si sporge e guarda giù verso il corpicino immobile nella sua posa disarticolata. “E se non è morto?” pensa. Fa un lungo giro e raggiunge Francesco che rantola, incosciente.
La bestia si guarda intorno, vede una pietra molto grossa, la prende. Ora è in piedi sopra il bambino, le gambe divaricate e la pietra nelle mani. La solleva sopra la testa, calcola la traiettoria, poi la scaglia con tutta la forza che ha sulla testa del bambino, che sobbalza per il contraccolpo. Ora è morto, ma la bestia non è ancora soddisfatta. Raccoglie la pietra sporca di sangue e materia cerebrale che gli imbrattano le mani. La solleva di nuovo e di nuovo colpisce la testolina che non ha più nulla di umano. Si pulisce le mani alla meglio e se ne va. Poi incontra Rosaria, la sorellina di Francesco che, ancora ignara di ciò che è successo, lo lascia andare e torna a casa per sapere dalla mamma se hanno trovato Francesco. No, non lo hanno ancora trovato e continuano a cercarlo in molti. Maria, la mamma del piccolo, fruga in ogni anfratto, in ogni buca della campagna e, ormai disperata, anche lei incontra Ciccio Spina che si aggira nei dintorni. È sorpresa, meravigliata di quella presenza, lo sapeva già lontano.
– Cì, hai visto Francesco mio?
– No… l’ho detto anche a Rosaria… – le risponde quasi indifferente.
– Ma non eri già partito?
– No… sto partendo adesso… – termina andandosene.
Maria è incredula, sbigottita dall’atteggiamento indifferente del giovane che ha sfamato. Sconvolta per l’assenza del bambino, comincia a rimuginare nella sua mente e, ormai è quasi buio, capisce che Ciccio Spina c’entra qualcosa con la scomparsa di suo figlio. Abbandona le ricerche e corre dai Carabinieri a raccontare tutto. I militari si impegnano per tutta la notte su due fronti: le ricerche di Francesco e quelle di Ciccio Spina. All’alba, però, non hanno ancora trovato nessuno dei due. E non trovano niente fino al pomeriggio del 4 gennaio quando a Cosenza una pattuglia di Carabinieri nota un giovane aggirarsi in modo sospetto in un vicolo. Lo fermano e lo identificano per Francesco Spina da Parenti. Lo trasferiscono a Rogliano dove viene interrogato dal comandante della stazione locale dei Carabinieri, negando di essere in qualche modo coinvolto nella scomparsa del bambino. Poi i militari passano a metodi più stringenti e Ciccio Spina crolla, indicando perfino il luogo dove avea trucidato il piccolo e tutte le particolarità del delitto.
Lo spettacolo a cui sono costretti ad assistere gli inquirenti è davvero orrendo: tolta la grossa pietra che copre quella che era la testa di Francesco, si vedono solo ossa frantumate e materia cerebrale mischiate. Si intuisce dove erano gli occhi, i denti e poi basta.
Pochi giorni prima di Natale la Garofalo mi cacciò di casa dicendomi che non poteva più tenermi. Francesco si era a me affezionato e spesso, di nascosto dalla madre, mi portava da mangiare. La Garofalo nel giorno di Natale mi invitò a mangiare da lei però mi disse di nuovo che in casa sua non potevo restare e così me ne fece andare… dal comportamento della donna sorse in me un feroce odio contro di lei e poiché non potevo sfogarlo contro la Garofalo, decisi di colpirla nella persona del figlio. Così, approfittando dell’amicizia, simpatia e fiducia che il bambino aveva per me, lo indussi a seguirmi in una località aspra e selvaggia
– Era venuto a portarti da mangiare?
– Si, ma approfittai che il padre e la madre si erano recati al mercato in Rogliano
– Come lo hai ucciso?
 Lo feci avvicinare al ciglio del burrone dicendogli: “guarda, guarda qui sotto dove una volta io presi un nido…”. Egli si sporse per guardare e
– E? 
Gli diedi una spinta e lo feci cadere giù… gridò: “mamma mia!” e io, credendo che ancora non fosse morto discesi nel burrone… lo trovai agonizzante… – prende fiato e poi continua quasi con furia – allora presi una grossa pietra e la lanciai con forza da circa un metro sulla testa del bambino e poi con un secondo colpo lo colpii sulla testa e sulla guancia – riprende fiato, poi continua con più calma – assicuratomi della morte, mi allontanai
Francesco Spina viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con la terribile accusa di omicidio aggravato dalla premeditazione, dal motivo abietto e dalla crudeltà. Roba da ergastolo, a dir poco.
Durante il dibattimento, cominciato l’11 maggio 1935, Ciccio Spina modifica la sua confessione e adesso afferma di essersi deciso ad uccidere il bambino perché, giunto sul ciglio del burrone, il bambino gli tirò dei sassi e lo ingiuriò atrocemente, onde egli, reagendo, lo spinse nel vuoto.
È, evidentemente, un tentativo per cercare di diminuire le proprie responsabilità, ma la Corte non ci casca poiché è da escludere che la povera vittima, la quale avea avuto tanta considerazione per lui al segno di sottrarre il pane ai genitori per fargliene dono, potesse, senza alcun motivo, cambiar di sentimento e tutto ciò a prescindere che è ben difficile credere che la vittima, di appena otto anni, avesse la temerarietà di aggredir lui (di anni venti) a colpi di pietra.
Ma nello stesso tempo cadono le aggravanti della premeditazione e della crudeltà. Non c’è premeditazione perché, secondo la Corte, Spina si decise al delitto pochi istanti prima che lo consumasse e precisamente appena venne a conoscere che i genitori della vittima erano assenti, onde egli, che odiava costoro, concepì una vendetta trasversale e, senza por tempo in mezzo, trasse in agguato il bimbo e lo trucidò. Non sussiste la crudeltà poiché, se pur è vero che Spina finì la vittima a colpi di pietra dopo averla precipitata nel burrone, non è men vero che egli, animato dal proposito omicida, essendosi accorto che la vittima, nonostante la caduta, non era morta, ricorse ad un mezzo acconcio per compiere facilmente e fulmineamente la strage e, precisamente, al solo mezzo che aveva a portata di mano, cioè il masso. Tutto ciò esclude la crudeltà. La quale si estrinseca sottoponendo la vittima a sofferenze lunghe ed atroci.
Bisogna dire che l’esclusione di queste aggravanti non influirà sulla comminazione della pena, bastando l’aggravante residua dei motivi abietti per portarlo, eventualmente, dritto dritto all’ergastolo.
Vedremo.
Ecco, l’aggravante dei motivi abietti è, se possibile, la più odiosa: Spina non aveva alcuna plausibile ragione per vendicarsi di Giovanni Ferraiuolo e Maria Garofalo i quali gli diedero ospitalità ed assistenza fino a quando non ne furono impediti dalle prepotenze della miseria, ma, soprattutto, considerando che la vendetta trasversale è di per sé stessa un’abiettezza, andando a cadere su vittima incolpevole.
È questo il ragionamento che fa il Pubblico Ministero per chiedere alla giuria la condanna all’ergastolo di Francesco Spina.
Ma c’è un colpo di scena: la difesa, nell’estremo tentativo di evitare l’ergastolo a Spina, chiede ed ottiene che sia sottoposto a perizia psichiatrica perché è evidente che uno che fa una cosa del genere non può essere sano di mente. La Corte accoglie la richiesta e Spina viene mandato nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto per essere esaminato. Il dibattimento viene sospeso e rinviato a nuovo ruolo.
Dopo qualche mese di internamento, i periti inviano i risultati al Presidente della Corte: si esclude assolutamente che disordini mentali di sorta abbiano influito nel determinismo del soggetto alla azione delittuosa. Spina, nel momento in cui commise il reato, non era in tale stato di mente tale da escludere o scemare grandemente la capacità d’intendere e volere.
La ripresa del dibattimento è fissata per il 2 dicembre 1935 e Spina aggiunge altre tesi alla sua difesa: uccise Francesco perché si permise ingiuriarlo ed offendere, nel tempo stesso, la memoria della di lui madre.
Nemmeno questa volta la Corte gli crede.
Considerato che lo Spina è recidivo ai sensi dei numeri 2 e 3 dell’art. 99 del C.P. per avere commesso altro reato nei cinque anni dalla condanna precedente e dopo la espiazione di essa.
Considerato che il condannato è tenuto alle spese del processo ed a quelle del suo mantenimento durante la carcerazione.
Considerato che la condanna all’ergastolo importa che sia resa pubblica a termine dell’art. 36 C.P.P.
La Corte dichiara Spina Francesco recidivo, colpevole del delitto di omicidio volontario commesso in persona di Garofalo Francesco, con la sola aggravante dell’abiettezza dei motivi e condanna l’imputato alla pena dell’ergastolo, nonché al pagamento delle spese processuali ed a quelle della propria detenzione.
Ordina la pubblicazione per estratto della sentenza mediante affissione nel comune di Rogliano e nel comune di Cosenza, nonché la pubblicazione per estratto e per una sola volta, nel giornale bisettimanale “Cronache di Calabria” e nel quotidiano “Il Mattino” di Napoli.[1]
La bestia.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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