QUARANTASEI PUGNALATE

Verso il 1900, ci è impossibile precisar meglio l’epoca, un tenero idillio d’amore intessevano tra i fertili campi e le pittoresche balze di S. Floro, in quel di Catanzaro, due giovani contadinelli, Francesco Anastasi, appena più che ventenne, e Maria Giuseppa Caccavari, diciottenne o giù di lì. I due giovani si vedevano spesso, parlavano del loro amore, del loro avvenire, fabbricavano i più fantasiosi castelli in aria, come i soli innamorati sanno fare… ed un bel giorno, forse una bella sera, in un tramonto d’oro e di fuoco, in una siepe odorosa di viole od in un verde campo di grano variopinto da spadacciuole, papaveri ed anemoni si trovarono chi sa come fu, come non fu, l’uno fra le braccia dell’altra; le labbra cercarono le labbra per fondersi in un bacio dolcissimo e spasmodico ed il sospiro dei loro cuori, delle loro anime si confuse con l’ultima nota del gorgheggio dell’usignuolo…
E l’idillio continuò, non più platonico, è vero, ma non per ciò meno tenero, meno espansivo e continuò piuttosto a lungo, senza che le due tortorelle cercassero di legalizzare la loro posizione.
Fu verso la metà del 1902, quando l’emigrazione incominciò a spopolare i nostri paesi, che si parlò fra loro di matrimonio, allorché Francesco si proponeva di emigrare anch’esso con gli altri. la giovanetta pretese allora, giustamente, di essere condotta all’altare temendo, a ragione, che la lontananza spegnesse nel cuore del giovane la sacra fiammella che all’amore essi avevano accesa.
E, ad onor del vero, Francesco, animato da nobili sentimenti, riconobbe il suo torto e nel settembre di quell’anno faceva sua, in faccia agli uomini ed alla società, colei che era già da un pezzo sua davanti a Dio e nella sua coscienza.
Fra gli sposi non si parlò più d’emigrazione e d’America e per qualche tempo vollero gustare le dolcezze coniugali, più dolci dei liberi amplessi, e vissero cinque mesi di pace e d’amore. 
Ma il torrente emigratorio ingrossava sempre più e Francesco fu, questa volta, travolto; la moglie stessa, a quanto pare, ve lo sospinse o per lo meno, quello che è certo, non tentò nemmeno di resistergli quando la marea ve lo trascinava. Egli le lasciò la casa piena, ebbe perfino cura di comprarle una discreta provvista di sale da cucina ed un bel giorno, giorno fatale, gonfio il cuore di lacrime, il sacco sulle spalle, l’abbracciò, la baciò le raccomandò… quello che raccomanda il marito alla moglie… e fuggì via per sottrarsi al pianto, allo strazio della separazione. E lei, che aveva giurato, molte volte giurato, mantenne il giuramento… finché ha potuto!
Il marito dall’America le inviava del danaro; nulla in casa mancava a Maria, tanto più che, convivendo con la suocera, era questa che badava a tutto. Il lavoro dei campi più non v’era a tenerla occupata e nell’agio, nell’ozio la salute, la forza rigogliosa della giovinezza, la spensieratezza che l’avea sospinta una volta, senza regolare licenza, a vivere di contrabbando, acuirono, stimolarono il senso e la ribellione dell’istinto divampò al ronzio del primo moscone che petulante le si aggirò intorno e cadde.
Cadde per non più rialzarsi, poiché è fatalità che il caduto non si rialzi e dal primo amante passò al secondo e poi al terzo…
Corse anche qualche sfida, qualche rissa finita innocentemente fra gli amanti, ma intanto in casa incominciarono i litigi perché la suocera, accortasi delle tresche, le faceva casa del diavolo. In paese pure se ne parlava a voce alta ed il solito vile, pietoso anonimo non tardò a farsi un dovere di avvertire il marito lontano che la moglie pensava, e pensava bene, in sua assenza di provvedere altrimenti… al mantenimento della razza.
Francesco scrisse alla madre (da Waverly, NY e da New York. Nda) per sapere che cosa c’era di vero in quel che si diceva e gli si scriveva e la madre non ebbe forza, coraggio d’ingannare il figlio e gli confessò la verità.
La suocera, però, allo scopo di far cessare lo scandalo, propose alla nuora di andarsene in campagna e la nuora, per tutta risposta, abbandonò la casa del marito e andò a vivere con i suoi famigliari, i quali l’accolsero ben volentieri, spargendo in paese la voce che da casa del marito era stata scacciata.
Fra i suoi, Maria continuò peggio e, scivolando dalle braccia dell’uno nelle braccia dell’altro, erasi ridotta a vivere da sola, come una prostituta volgare e forse pativa la fame. Il marito ormai non le mandava più nulla, invano si rivolse alla suocera per avere qualche soccorso; questa, giustamente e adeguatamente rifiutò il suo obolo al meretricio. Che fare?
Ogni pezzo di tavola, un filo di paglia, magari, è sempre qualche cosa per il naufrago e Maria, per salvarsi dal naufragio, si attaccò all’uomo che, per goderla da solo, trovandosi in condizioni finanziarie floride, la ripulì, la vestì, la sfamò e con quest’uomo ella visse la vita del concubinaggio, serbandosi fedele poiché era ben trattata e nulla le potea far difetto e n’ebbe anche un figlio che andò ad ingrossare d’una unità le fila dei bastardi, dei senza nome, dei reietti. 
E con quest’uomo viveva ancora relativamente felice, quando il suo destino inesorabilmente compivasi.
Francesco si concettava, intanto, nella lontana America fra gli spasmi della disperazione, l’onta e il disonore che gliene derivava, le speranze per l’avvenire sfumate, i castelli in aria precipitati, sfumata la bianca casetta ed il campicello che, sperava, col frutto di quel lavoro da cavallo che ivi compiva di acquistarsi in paese e vivere agiatamente in paese con la sua Maria; tutto, tutto concorreva ad arroventarlo viemaggiormente e scriveva lettere di fuoco alla madre contro quella prostituta che gli aveva avvelenato la vita e malediceva il momento in cui si era deciso d’impalmare una donna che, prima ancora del matrimonio, si era data a lui liberamente.
Il poveretto scrive alla madre che molti compaesani colà emigrati gli hanno riferito l’obbrobbrio nel quale la moglie era caduta; scrive che è stato messo a giorno di tutto e che non vuol più saperne di quella donna, scrive che la costringano a restituire tutto quello che di suo l’adultera ha portato seco, minacciandola di morte se non restituisce; scrive al suocero lagnandosi della condotta deplorevole della figlia, ecc. ecc.
Passano così i primi bollori, le prime furie. Più tardi, rassegnato in certo qual modo,  scrive alla madre perché si rechi dal notaio a far la separazione legale; più tardi ancora manda il pezzettino d’imbarco e lire venticinque perché un’altra giovanetta del paese vada a raggiungerlo “poiché la voglio per sposa fino alla morte”, ecc.ecc. 
Si vede bene che egli non trova pace, non ha riposo, non può rassegnarsi alla vita di marito… compiacente, egli, giovane e fresco, vegeto e robusto, egli che si era allontanato dalla moglie soltanto per mettersi in grado di procacciarle l’agiatezza. Freme continuamente, esageratamente e notte e giorno il suo spirito si dimena in una tensione straordinaria che prorompe ora in vive escandescenze con ipereccitazione, ora in rassegnazione mistica, forzata, con tendenze elegiache e sentimentali.
Passano degli anni, di Maria è avvenuto quello che doveva avvenire: è divenuta, cioè, la mantenuta di un signorotto del paese, don Antonio Zolea, rispettata perché a costui appartenente e vivente in una relativa agiatezza. Di Francesco ormai tutto tace, probabilmente si sarà rassegnato. Rassegnato un tipo come lui? È mai ciò possibile?
È il mese di giugno del 1907, precisamente il mattino del giorno 12. Maria si è alzata per tempo, come è abitudine di tutti i nostri contadini, e sulla soglia della casa che l’amante le aveva preparato, discorrendo con qualche vicina del più e del meno. Maria, ricordando che l’indomani è il giorno di Sant’Antonio, per scherzo  dice:
– Domani i complimenti li domanderò al mio Don Antonio…
Poi le donne se ne vanno e Maria si attarda sulla porta.
Un uomo, nascosto da un albero che si trova a breve distanza dalla casa, ha spiato e sentito tutto. È il momento che stava aspettando: non visto, le sbuca all’improvviso davanti. Maria, atterrita, rientra in casa e quell’uomo la segue.
I vicini sentono delle grida invocanti aiuto, accorrono subito e trovano Maria letteralmente coperta da numerose ferite. L’adagiano sul letto. Altra gente accorre.
– Chi ti ha ferito? – le chiedono.
– Il pinto… –  (cioè il butterato dal vaiolo) risponde con un filo di voce.
– Ma di pinti ce ne sono parecchi… chi è stato?
– Il pinto… mio marito… – chiude gli occhi e dopo pochi minuti spira.
Si, Francesco è tornato dall’America per ammazzarla, per ammazzarla con 46 pugnalate e sparire così come è arrivato.
Qualcuno dice di aver notato, nei giorni precedenti, un forestiero aggirarsi intorno al paese, ma di non averci fatto caso perché di forestieri, in quelle circostanze di tempo, specialmente per il riattamento delle case in seguito al terremoto del settembre 1905, se ne vedono ogni giorno. Qualche altro giura di aver visto che quel forestiero portava la barba finta. Altri, infine, dicono di aver visto il forestiero camminare con uno zio di Francesco e che, quindi, dovevano essere intesi di ciò che doveva avvenire!
Ne nasce un putiferio, come suole avvenire in queste circostanze. I parenti e gli amici di Maria sostengono che è stata la madre di Francesco  a spingere la nuora sulla via del disonore per specularci su ed accusano il padre, il fratello e la madre di Francesco di complicità poiché lo hanno tenuto nascosto per più giorni allo scopo di far meglio riuscire il colpo.
I parenti dell’assassino, gli amici, i fautori, i nemici dell’amante di Maria ne approfittano per denigrare la famiglia della vittima e la stessa adultera.
Le indagini, rigorose, mettono le cose a posto e le chiacchiere cessano. Numerosi testimoni giurano che Francesco Anastasi è un giovane buono, assai affezionato alla moglie, che nulla le faceva mancare, che le mandava spesso danaro a sufficienza, che la madre di lui era incapace, perché notoriamente onesta, a speculare sul meretricio della nuora e sul disonore del figlio.  I familiari non c’entrano con l’orribile vendetta di Francesco e vengono prosciolti.
Francesco Anastasi è ancora latitante, nonostante le minuziose ricerche dei Carabinieri per catturarlo, ma, finalmente, il 2 luglio si costituisce spontaneamente nell’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Catanzaro. Confessa subito il delitto, ma esclude di essere tornato dall’America per vendicarsi:
– Sono venuto semplicemente per avere spiegazioni da mia moglie e tentare di ricondurla sulla buona via
– E perché l’avete ammazzata?
– Mi ha accolto con scherno… mi ha chiamato cornuto… poi  ha minacciato di chiamare in suo aiuto l’amante, se non me ne fossi andato subito…
– Che cosa vi ha fatto decidere a tornare?
– Dopo tutto quello che già sapevo su mia moglie, quando vennero in America altri miei paesani, fui informato che mia moglie a più d’uno avea espresso il voto che io in America vi rimanessi morto o che rimanessi schiacciato da un treno perché lavoravo alle ferrovie. Tali segreti desideri di mia moglie mi vennero confermati da altre lettere e la disperazione dell’animo mio giunse a tal segno che decisi di tornare a San Floro. M’imbarcai a New York il 22 maggio e giunsi a Napoli, ove rimasi quattro giorni, il 6 o il 7 giugno. La mattina del 12 giugno andai a San Floro, direttamente a casa di mia moglie, senza che fossi entrato in paese perché la casa è al principio di San Floro. Alla distanza di sei o sette passi, incominciai a sentire un discorso che avveniva tra mia moglie e una donna. Mia moglie diceva: “Donna Marietta, mi sta bene il busto che mi ho comprato?” e quella rispose: “Si, ti sta bene e puoi dirlo al tuo diletto Antonio che domani, ricorrendo il suo onomastico, faccia dei regali ai suoi amici”. E mia moglie di rimando: “Si che glielo dirò”. Finito questo discorso entrai in casa di mia moglie e, con voce calma, le ricordai i suoi giuramenti e le sue promesse… le domandai per qual motivo avesse abbandonato la casa che le avevo lasciato, con tutte quelle comodità, e le chiesi il motivo per cui si trovava in una casa il cui fitto veniva pagato dal “suo” Antonio. Lei subito mi rispose che nulla più potevo pretendere da lei e che dovevo uscir fuori da quella casa, accompagnando questi detti con la parola cornuto. Feci qualche altra osservazione, ma lei continuò a dirmi: “Esci, cornuto, altrimenti chiamerò Antonio e ti farò ammazzare!”. Fu quello il momento in cui il cervello mio non si trovava più a posto e gli occhi non vedevano più le cose circostanti. Afferrai subito per i capelli mia moglie perché la stessa non uscisse, però incominciò a gridare aiuto. Io intanto avevo aperto il coltello con i denti ed avevo cominciato a ferirla. Lei continuava a chiamare donna Marietta e faceva anche il nome di don Antonio, però io, ebbro com’ero, continuai a tirare colpi fino a che non cadde a terra… dopo uscii e mi diedi alla fugala mia vita è finita con la sua… in libertà o in galera io sarò sempre un uomo perduto, fate di me quello che volete
Francesco Anastasi viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere del reato di uxoricidio premeditato. La difesa, ritenendo invece che si tratti di un delitto passionale, chiede che Francesco sia sottoposto a perizia psichiatrica. La richiesta viene accolta e sarà internato nel manicomio di Girifalco per essere messo sotto osservazione dal Professor  Romano Pellegrini, che dovrà stabilire se nel momento in cui commise il delitto si trovava in tale stato d’infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti o se tale stato di mente fosse tale da scemare grandemente la imputabilità senza escluderla.
Francesco entra in manicomio il 21 ottobre 1907. Anche all’alienista confessa subito il delitto, poi aggiunge:
Ora sono qui nelle vostre mani. non vi dico che abbiate pietà e compassione di me, vi raccomando solamente di far presto perché sono impaziente di conoscere il mio destino. Tornerò in America a dimenticare, se avrò la libertà o piangerò in un carcere quello che chiamano il mio delitto, se sarò condannato
Di temperamento alquanto vivace, facilmente irritabile ed ombroso, ma sa padroneggiarsi e, se non provocato o molestato, è incapace di torcere un capello a chicchessia. Rispettoso con tutti, a sua volta vuole essere rispettato. Il perito si sofferma su questa irritabilità e la spiega con il fatto di essere nato da una madre isterica, tale divenuta in seguito ad un trauma psichico che la colpì precisamente durante la gravidanza dell’imputato. E siccome è noto che anche una sola impressione dalla madre provata nel corso della gravidanza può ripercuotersi fatalmente sul suo futuro prodotto, ecco spiegate le reazioni violente quando viene provocato o offeso. Ciò, evidentemente, non significa che debba essere considerato un malato di mente. Anzi, né prima, né dopo il delitto lo era o lo è.
Prima e dopo. E durante il delitto? Nemmeno durante il delitto Francesco Anastasi soffrì di disturbi psichiatrici. E allora? Il perito certifica che all’uomo il quale, trovandosi nelle condizioni di animo in cui si trovò l’imputato, si rompe l’identità e in quel momento non somiglia più a quello che era prima e nemmeno a quello che è dopo, onde uno stato transitorio di alterazione della personalità, che ha tutte le analogie con l’alienazione morbosa dello spirito. Nello spasimo dell’intenso ed acuto dolore, l’uomo mite abbranca ciò che gli capita per mano e ferisce. Vi sono delle circostanze in cui certe passioni vere (sopra tutto l’amore alla donna, alla famiglia, all’onore, alla proprietà) vengono con tanta violenza irritate da oscurare la ragione e spingere l’uomo più tranquillo ed irreprensibile ad eccessi di estremo trasporto; in tali emergenze gl’impulsi passionali fanno perdere al misfatto la sua grave caratteristica e, se soltanto in rari casi scusano l’autore, fanno però sempre diminuire, e di molto, la pena da infliggergli. È indubbio che nell’Anastasi vi fosse precedentemente al delitto uno stato d’animo passionato dalla giusta ira, dall’offesa immeritata e dall’affetto ferito. Tutto ciò non poteva non favorire uno stato psichico il più disposto ad una eccessiva reazione in risposta a qualsiasi offesa nuova. Per questi motivi, la sua responsabilità penale deve essere considerata scemata. Tenendo conto del risultato della perizia, Francesco Anastasi può essere processato. È il 3 febbraio 1909.
Il 2 agosto successivo, la Corte d’Assise di Catanzaro, svolto il dibattimento, dichiara assolto l’imputato e ne ordina l’immediata scarcerazione.[1]
Francesco Anastasi, come aveva detto al professor Romano Pellegrini, può tornare in America per dimenticare…

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Atti di istruzione penale.

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